Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4392 del 20/02/2020

Cassazione civile sez. lav., 20/02/2020, (ud. 13/11/2019, dep. 20/02/2020), n.4392

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22969/2014 proposto da:

R.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TACITO n.

50, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO ROMITI, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

I.N.A.I.L. – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI

INFORTUNI SUL LAVORO, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA IV NOVEMBRE n. 144,

presso lo studio dell’avvocato MICHELE PONTONE, che lo rappresenta e

difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7285/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 03/10/2013 R.G.N. 11264/2008.

Fatto

RILEVATO

che:

1. la Corte d’Appello di Roma in parziale riforma della sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva accolto solo in minima parte il ricorso proposto da R.F. nei confronti dell’INAIL, ha condannato l’istituto al pagamento della complessiva somma di Euro 47.962,89, pari alle differenze retributive maturate e non corrisposte per il periodo 1 agosto 1997/30 settembre 2002, dovute a seguito della Delib. 1 agosto 2002, con la quale l’ISPEL, cui era succeduto l’INAIL a seguito di soppressione disposta dal D.L. n. 78 del 2010, aveva inquadrato l’appellante nella II fascia, profilo di ricercatore, con decorrenza dal 1 luglio 1989;

2. la Corte territoriale, ritenuta la giurisdizione del giudice ordinario anche in relazione ai crediti sorti nel periodo antecedente al 30 giugno 1998, ha evidenziato che il Tribunale, con statuizione non espressamente censurata, aveva ritenuto che il dipendente avrebbe potuto agire per far riconoscere il suo diritto all’inquadramento superiore a prescindere dal provvedimento adottato dal datore di lavoro e pertanto tale statuizione, coperta da giudicato interno, escludeva che potesse essere considerato quale dies a quo, ai fini della decorrenza della prescrizione, la data del decreto direttoriale;

3. la Corte romana ha, però, aggiunto che aveva errato il giudice di prime cure nell’escludere la rilevanza ricognitiva del richiamato decreto emesso il 1 agosto 2002, perchè l’atto riconosceva la sussistenza del debito dell’Istituto derivante dall’inquadramento superiore disposto ed indicava, nelle tabelle allegate al provvedimento, i criteri per la quantificazione dello stesso;

4. sulla base delle richiamate argomentazioni il giudice d’appello ha ritenuto prescritti solo i crediti maturati sino al 31 luglio 1997 ed ha condannato l’istituto al pagamento dell’importo sopra indicato;

5. per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso R.F. sulla base di un unico motivo, al quale l’Inail ha resistito con tempestivo controricorso;

6. entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 380 bis 1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. il ricorrente denuncia con un unico motivo, articolato in più punti e formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, “violazione e falsa applicazione di norme di diritto sulla prescrizione dei crediti azionati”. omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” e censura il capo della sentenza impugnata che ha ritenuto prescritti i crediti maturati sino al 31 luglio 1997 rilevando, innanzitutto, che ha errato la Corte territoriale nell’affermare che il lavoratore avrebbe potuto agire in giudizio a prescindere dall’emanazione del provvedimento dell’agosto 2002, perchè, al contrario, il diritto all’inquadramento superiore non poteva essere fatto valere prima della valutazione comparativa avvenuta ad opera della commissione solo nel dicembre del 2001;

1.1. rileva al riguardo che, contrariamente a quanto asserito dalla Corte, il capo della sentenza del Tribunale relativo alla decorrenza della prescrizione era stato oggetto di specifica censura ed insiste nel sostenere che il diritto di credito era scaturito dal decreto direttoriale, al quale doveva essere riconosciuto “carattere costitutivo, personale, unico ed infrazionabile”;

1.2. aggiunge che nell’atto d’appello era stata contestata l’interpretazione data dal Tribunale al decreto direttoriale del 1 agosto 2002 e si era sostenuto che lo stesso costituiva riconoscimento di debito, con la conseguenza che la prescrizione maturava solo il 31 luglio 2007 e, quindi, era stata validamente interrotta con la diffida del 16 maggio 2007;

1.3. infine addebita al giudice di appello di non avere considerato che le spettanze retributive erano state richieste dal dipendente in epoca antecedente all’emanazione del decreto ed infatti lo stesso istituto aveva riconosciuto che il R. aveva presentato domanda per l’inquadramento nel profilo di ricercatore ed aveva anche proposto ricorso al Tribunale amministrativo;

2. il ricorso è inammissibile in tutte le sue articolazioni, innanzitutto perchè formulato senza il necessario rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4;

3. è noto che nel giudizio di cassazione, a critica vincolata ed essenzialmente basato su atti scritti, essendo ormai solo eventuale la possibilità di illustrazione orale delle difese, i requisiti imposti dall’art. 366 c.p.c., perseguono la finalità di consentire al giudice di legittimità di avere la completa cognizione della controversia, senza necessità di accedere a fonti esterne, e pertanto, qualora la censura si fondi su atti o documenti, è necessario che di quegli atti il ricorrente riporti il contenuto precisando, inoltre, in quale sede e con quali modalità gli stessi sono stati acquisiti al processo;

3.1. è poi richiesto alla parte di assolvere al distinto onere previsto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 c.p.c., n. 4, perchè l’art. 366 c.p.c., come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 5, riguarda le condizioni di ammissibilità del ricorso, mentre la produzione è finalizzata a permettere l’agevole reperibilità del documento, sempre che lo stesso sia stato specificamente indicato nell’impugnazione (sulla non sovrapponibilità dei due requisiti cfr. fra le tante Cass. 28.9.2016 n. 19048);

3.2. nel caso di specie il motivo, nelle sue diverse articolazioni, è incentrato sul decreto direttoriale del 1 agosto 2002 ma il ricorrente non riporta il contenuto dell’atto e non fornisce indicazioni in merito alla sua allocazione nel fascicolo di parte, nè produce il documento in questa sede;

4. si deve poi aggiungere che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere dedotto, a pena d’inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 4, “non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione” (Cass. n. 24298/2016);

4.1. pertanto non soddisfa il requisito richiesto dall’art. 366 c.p.c., n. 4, da intendersi nei termini sopra indicati, la generica censura di “violazione e falsa applicazione di norme di diritto sulla prescrizione dei crediti azionati”, perchè, non solo nella rubrica ma anche nell’illustrazione del motivo, il ricorrente non individua le norme rilevanti nella fattispecie, non indica le ragioni giuridiche per le quali la disciplina dettata dal codice civile sarebbe stata elusa dalla Corte territoriale, confonde il tema dell’individuazione del momento in cui il diritto può essere fatto valere in giudizio, rilevante ex art. 2935 c.c., con quello delle condizioni necessarie affinchè un atto possa essere qualificato riconoscimento di debito ex art. 2944 c.c.;

5. l’error in procedendo, nel quale sarebbe incorsa la Corte territoriale nel ritenere non censurato il capo della sentenza di primo grado relativo al dies a quo della prescrizione, è parimenti denunciato senza il rispetto degli oneri richiamati nei punti che precedono, che si estendono anche agli atti processuali, e senza individuare, nella rubrica e nel corpo del motivo, le disposizioni del codice di rito violate dal giudice d’appello;

6. infine la doglianza, oltre a prospettare inammissibilmente il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, al di fuori dei limiti indicati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 8053/2014, accomuna questioni che attengono alla ricostruzione dei fatti oggetto di causa, quali sono quelle relative all’interpretazione degli atti adottati dal datore di lavoro, e profili giuridici, questi ultimi richiamati, come si è detto, genericamente con la deduzione del vizio di violazione delle norme di diritto sulla prescrizione;

6.1. anche sotto tale profilo la censura non sfugge alla dichiarazione di inammissibilità, perchè l’orientamento secondo cui un singolo motivo può essere articolato in più profili di doglianza, senza che per ciò solo se ne debba affermare l’inammissibilità (Cass. S.U. n. 9100/2015), trova applicazione solo qualora la formulazione permetta di cogliere con chiarezza quali censure siano riconducibili alla violazione di legge e quali, invece, all’accertamento dei fatti;

6.2. nel caso di specie, al contrario, le doglianze sovrappongono e confondono profili di merito e questioni giuridiche, sicchè finiscono per assegnare inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, al fine di ricondurle a uno dei mezzi d’impugnazione consentiti, prima di decidere su di esse (Cass. n. 26790/2018);

7. in via conclusiva il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate nella misura indicata in dispositivo;

7.1. sussistono le condizioni processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.500,00 per competenze professionali, oltre al rimborso delle spese generali del 15% ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 13 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2020

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