Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4369 del 20/02/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 20/02/2017, (ud. 15/12/2016, dep.20/02/2017),  n. 4369

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21641-2013 proposto da:

ALMAVIVA CONTACT S.P.A., ((OMISSIS)), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

DELLE TRE MADONNE 8, presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO

MARAZZA, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati MARCO

MARAZZA, DOMENICO DE FEO giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

F.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GERMANICO 172,

presso lo studio dell’avvocato PIER LUIGI PANICI, che la rappresenta

e difende giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4382/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA del

15/5/2012, depositata il 25/9/2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

15/12/2016 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA.

Fatto

FATTO E DIRITTO

1 – Il Consigliere relatore, designato ai sensi dell’art. 377 c.p.c., ha depositato in cancelleria la seguente relazione ex artt. 380 bis e 375 c.p.c., ritualmente comunicata alle parti:

“La Corte di appello di Roma, con sentenza n. 4382/2012 del 25/9/2012, in riforma della decisione del Tribunale della stessa sede, accoglieva la domanda proposta da F.C., nella qualità addetta al call center, nei confronti di Almaviva Contact S.p.A. (incorporante di Atesia S.p.A.) e dichiarava, a fronte di formali contratti di collaborazione coordinata e continuativa, la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro di natura subordinata con decorrenza dal 27/8/2002, con inquadramento nel terzo livello del c.c.n.l. di settore ed orario di lavoro di 36 ore settimanali e condanna della società al risarcimento del danno nella misura pari a sei mensilità della retribuzione spettante in relazione al livello riconosciuto. In sintesi la Corte territoriale riteneva che le clausole contrattuali concordate non fossero tali da escludere la subordinazione non contenendo la determinazione dell’oggetto della collaborazione ma solo le mansioni (telemarketing operato) da svolgere “con riguardo a commesse che saranno via via indicatè e che, nella fattispecie, nonostante il nomen iuris attribuito dalle parti al rapporto, in effetti in base alle risultanze istruttorie sussisteva il principale requisito essenziale della subordinazione (assoggettamento al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro), con la conseguenza che, essendo comunque nulli i termini apposti ai contratti (perchè privi della indicazione del motivo che giustificasse l’assunzione), doveva ritenersi costituito un unico rapporto a tempo indeterminato sin dall’origine e la società doveva essere condannata a risarcire il danno.

Avverso tale sentenza la Almaviva Contact S.p.A. ricorre per cassazione con un motivo.

F.C. resiste con controricorso.

Con l’unico complesso motivo la società ricorrente, denuncia violazione degli artt. 1363 e 2094 c.c., della L. n. 183 del 2010, art. 50, della L. n. 604 del 1996, art. 8. Lamenta in primo luogo che la Corte di merito avrebbe tralasciato di valutare un elemento essenziale del contratto di collaborazione e cioè la clausola che consentiva all’odierna controricorrente di concordare con altro operatore coordinato e continuativo di farsi sostituire in caso di sua assenza. Lamenta inoltre che i giudici di appello avrebbero ignorato il contenuto della lettera integrativa, accettata dalla F., nella quale si determinavano le modalità di calcolo del compenso, la collocazione nella fascia oraria e le caratteristiche dell’opera commessa. Si duole poi del fatto che la Corte territoriale avrebbe trascurato non solo l’esito del libero interrogatorio dell’originaria ricorrente ma anche le risultanze di cui ai verbali di cause analoghe (teste Belardinelli: causa Cazzaniga c. Atesia; testi Belardinelli, Massa e Pallotta: causa Cecchi c. Atesia; teste Fedeli: Causa Mercatelli c. Atesia), trascurando i relativi elementi di fatto deponenti per la sussistenza di una libertà dell’operatrice di eseguire o meno la prestazione dedotta nel contratto e per l’assenza di un inserimento della stessa nell’organizzazione aziendale ovvero di un obbligo di tenersi a disposizione del datore di lavoro e per la mancanza di un potere direttivo e disciplinare nei confronti degli operatori, che erano liberi di recarsi o meno al lavoro, di dimensionare la prestazione giornaliera e di interromperla, intervenendo gli assistenti solo per disattivare le postazioni quando fossero state abbandonate dagli addetti e non per controllare l’operato degli stessi. Si duole, da ultimo, della mancata valutazione, nella determinazione del risarcimento, del comportamento delle parti.

Le censure risultano in parte inammissibili e in parte infondate (si veda anche il precedente di questa Corte n. 4476 del 21 marzo 2012 reso con riferimento ad una fattispecie del tutto analoga).

Si osserva innanzitutto come l’interpretazione del contratto costituisce oggetto di un accertamento di fatto demandato al giudice di merito. Questa Corte ovviamente può sì sindacare la corretta applicazione, da parte di quest’ultimo, delle regole legali di ermeneutica dei contratti, ma in tanto queste ultimo potranno dirsi violate, in quanto il giudice di merito adotti una interpretazione con esse incompatibile. Il solo fatto, invece, che il contratto possa essere interpretato, oltre che nel modo ritenuto dal giudice di merito, anche in altri modi diversi, non costituisce di per sè un vizio censurabile in sede di legittimità. Più volte, in particolare, questa Corte ha stabilito che per sottrarsi al sindacato di legittimità l’interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto “non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra” (così Cass. n. 24539 del 20 novembre 2009; sostanzialmente nello stesso senso, ex multis, Cass. n. 2465 del 10 febbraio 2015; Cass. n. 4178 del 22 febbraio 2007).

Nella specie la Corte territoriale ha fornito una interpretazione del contratto non irrazionale nè implausibile ritenendo che le clausole riportate nello stesso fossero tipiche dei rapporti di lavoro subordinato e che mancasse l’oggetto della collaborazione essendo indicate solo le mansioni da svolgere e cioè l’attività di telemarketing operator con riguardo a “commesse che saranno indicate”.

Per il resto i rilievi, pur formalmente ricondotti ad una pretesa violazione di legge, si sostanziano in censure sulla congruità e logicità della motivazione, nonostante il controllo sulla stessa non rientri più nel catalogo dei casi di impugnazione per cassazione a seguito della modifica del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. da parte del D.L. n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2012 (cfr. Cass. S.U. n. 8053/14, secondo cui la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Com’è noto, a seguito della indicata modifica legislativa che ha reso deducibile solo il vizio di omesso esame di un fatto decisivo che sia stato oggetto di discussione tra le parti, il controllo della motivazione è stato confinato sub specie nullitatis, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 il quale, a sua volta, ricorre solo nel caso di una sostanziale carenza del requisito di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4, configurabile solo nel caso di “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, di “motivazione apparente”, di “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. Cass., Sez. Un., n. 8053/14).

Nel caso in esame i fatti controversi da indagare (da non confondersi con la valutazione delle relative prove) sono stati manifestamente presi in esame dalla Corte territoriale; sicchè neppure potrebbe trattarsi di omesso esame, ma di accoglimento di una tesi diversa da quella sostenuta dall’odierna ricorrente.

Nè comunque sussiste la lamentata violazione di legge atteso che la Corte territoriale ha esaminato gli elementi probatori emersi nell’istruttoria ed ha riscontrato che nella specie il rapporto di collaborazione tra l’originaria ricorrente e la società avesse comportato l’assoggettamento del primo al potere direttivo, di controllo e disciplinare della seconda, nella pratica riscontrando la sussistenza dei requisiti che la giurisprudenza di questa Corte ritiene sintomatici della subordinazione.

Come questa Corte ha più volte affermato “requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato – ai fini della sua distinzione dal rapporto di lavoro autonomo – è il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende dall’emanazione di ordini specifici, oltre che dall’esercizio di una assidua attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative. L’esistenza di tale vincolo va concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell’incarico conferito al lavoratore e al modo della sua attuazione, fermo restando che ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato sia di rapporto di lavoro autonomo. In sede di legittimità è censurabile solo la determinazione dei criteri generali e astratti da applicare al caso concreto, mentre costituisce accertamento di fatto – incensurabile in tale sede, se sorretto da motivazione adeguata e immune da vizi logici e giuridici – la valutazione delle risultanze processuali che hanno indotto il giudice ad includere il rapporto controverso nell’uno o nell’altro schema contrattuale” (v. fra le altre Cass. 21 novembre 2001, n. 14664; Cass. 12 settembre 2003, n. 13448; Cass. 6 giugno 2002, n. 8254; Cass. 4 aprile 2001, n. 5036; Cass. 3 aprile 2000, n. 4036; Cass. 16 gennaio 1996, n. 326, nonchè da ultimo Cass. 4 maggio 2011, n. 9808). “Elemento indefettibile – quindi – del rapporto di lavoro subordinato – e criterio discretivo, nel contempo, rispetto a quello di lavoro autonomo – è la subordinazione, intesa come vincolo di soggezione personale del prestatore al potere direttivo del datore di lavoro, che inerisce alle intrinseche modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative e non già soltanto al loro risultato, mentre hanno carattere sussidiario e funzione meramente indiziaria altri elementi del rapporto di lavoro (quali, ad esempio, la collaborazione, l’osservanza di un determinato orario, la continuità della prestazione lavorativa, l’inserimento della prestazione medesima nell’organizzazione aziendale e il coordinamento con l’attività imprenditoriale, l’assenza di rischio per il lavoratore e la forma della retribuzione), i quali – lungi dal surrogare la subordinazione o, comunque, dall’assumere valore decisivo ai fini della prospettata qualificazione del rapporto – possono, tuttavia, essere valutati globalmente, appunto, come indizi della subordinazione stessa, tutte le volte che non ne sia agevole l’apprezzamento diretto a causa di peculiarità delle mansioni, che incidano sull’atteggi arsi del rapporto. Inoltre, non è idoneo a surrogare il criterio della subordinazione nei precisati termini neanche il “nomen iuris” che al rapporto di lavoro sia dato dalle sue stesse parti (cosiddetta autoqualificazione, il quale, pur costituendo un elemento dal quale non si può in generale prescindere, assume rilievo decisivo ove l’autoqualificazione non risulti in contrasto con le concrete modalità del rapporto medesimo” (v. Cass. 27 febbraio 2007, n. 4500). Del resto “ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro, essendo l’iniziale contratto causa di un rapporto che si protrae nel tempo, la volontà che esso esprime ed il “nomen iuris” che utilizza non costituiscono fattori assorbenti, diventando l’esecuzione, per il suo fondamento nella volontà inscritta in ogni atto di esecuzione, la sua inerenza all’attuazione della causa contrattuale e la sua protrazione, non solo strumento d’interpretazione della natura e della causa del rapporto di lavoro (ai sensi dell’art. 1362 c.c., comma 2), bensì anche espressione di una nuova eventuale volontà delle parti che, in quanto posteriore, modifica la volontà iniziale conferendo, al rapporto, un nuovo assetto negoziale” (v. Cass. 5 luglio 2006, n. 15327). Pertanto, “sia nell’ipotesi in cui le parti, pur volendo attuare un rapporto di lavoro subordinato, abbiano simulatamente dichiarato di volere un rapporto di lavoro autonomo al fine di eludere la disciplina legale inderogabile in materia, sia nel caso in cui l’espressione verbale abbia tradito la vera intenzione delle parti, sia infine nell’ipotesi in cui, dopo aver voluto realmente il contratto di lavoro autonomo, durante lo svolgimento del rapporto le parti stesse, attraverso fatti concludenti, mostrino di aver mutato intenzione e di essere passate ad un effettivo assetto di interessi corrispondente a quello della subordinazione, il giudice di merito, cui compete di dare l’esatta qualificazione giuridica del rapporto, deve a tal fine attribuire valore prevalente – rispetto al “nomen iuris” adoperato in sede di conclusione del contratto – al comportamento tenuto dalle parti nell’attuazione del rapporto stesso” (v. Cass. 10 aprile 2000, n. 4533; Cass. 21 luglio 2000, n. 9617; Cass. 26 giugno 2001, n. 8407).

E’ infine infondato il rilievo concernente la quantificazione del risarcimento.

Va, infatti, rilevato che la Corte di merito ha indicato le ragioni per le quali ha ritenuto di determinare in sei mensilità la indennità di cui all’art. 32 cit. individuandole nella durata del rapporto e nell’anzianità acquisita dalla lavoratrice. Si tratta, all’evidenza, di una corretta applicazione dei criteri di cui al citato L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8 involgente, peraltro, valutazioni di merito che non possono essere sindacate in questa sede (cfr., per l’applicazione di tale principio con riguardo all’indennità di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 8, Cass. 5 gennaio 2001, n. 107; Cass. 14 giugno 2006, n. 13732; Cass. 5 maggio 2006, n. 11107 e con riguardo proprio all’indennità L. n. 183 del 2010, ex art. 32 Cass. 16 ottobre 2014, n. 21932).

In conclusione, si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., n. 5″.

2 – Non sono state depositate memorie ex art. 380 bis c.p.c., comma 2.

3 – Questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla giurisprudenza di legittimità in materia e che ricorra con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375 c.p.c., n. 5, per la definizione camerale del processo.

4 – In conclusione il ricorso va rigettato.

5 – La regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità segue la soccombenza.

6 – Il ricorso è stato notificato in data successiva a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), che ha integrato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 aggiungendovi il comma 1 quater del seguente tenore: “Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”.

Essendo il ricorso in questione integralmente da respingersi, deve provvedersi in conformità.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la società ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese processuali del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15% con attribuzione all’Avvocato Pier Luigi Panici, antistatario.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2017

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