Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4353 del 20/02/2020

Cassazione civile sez. I, 20/02/2020, (ud. 04/10/2019, dep. 20/02/2020), n.4353

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIDONE Antonio – Presidente –

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –

Dott. MACRI’ Ubalda – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 21678/2018 proposto da:

H.M.A., elettivamente domiciliato in ROMA, via Principe

Eugenio, n. 15, presso lo studio dell’avv. Marco Michele Picciani,

che lo rappresenta e difende in virtù di nomina e procura speciale

in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO;

– intimato –

avverso il decreto n. 1858/2018 del Tribunale di Catanzaro depositato

il 27/6/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 4/10/2019 dal Consigliere relatore Ubalda Macrì.

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

Il Tribunale di Catanzaro ha dichiarato inammissibile la domanda del ricorrente, di origine (OMISSIS), di applicazione diretta dell’art. 10 Cost., comma 3, ed ha rigettato le domande di riconoscimento dello status di rifugiato, di protezione sussidiaria, di permesso di soggiorno per motivi umanitari, confermando le conclusioni della Commissione territoriale di Crotone in data 23 giugno 2017.

Il Tribunale ha ritenuto credibile il suo racconto – l’attività d’impresa che conduceva era fallita nel 2012 a causa delle estorsioni e delle minacce di morte subite; non aveva denunciato l’accaduto alla polizia locale perchè corrotta; le minacce erano cessate dopo il fallimento; era riuscito ad arrivare in Italia grazie ad un visto stagionale; in caso di rientro in patria non sarebbe stato in grado di mantenere la sua famiglia e pagare i creditori che comunque non l’avevano minacciato -, ma ha osservato: a) che la domanda di asilo ai sensi dell’art. 10 Cost. era da ritenersi ricompresa negli altri istituti di cui aveva chiesto l’applicazione, donde la sua inammissibilità; b) che le lamentate vessazioni erano cessate dopo la dichiarazione di fallimento; c) che il ricorrente non aveva presentato alcuna denuncia; d) che non sussisteva un pericolo per la sua incolumità, perchè il timore di rientro in patria era legato esclusivamente a ragioni economiche, donde l’assenza dei presupposti dello status di rifugiato non essendo stata allegata nè dimostrata la correlazione tra l’espatrio e le ipotesi di persecuzione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 1, lett. e); e) che, nell’audizione, la vicenda denunciata non era stata messa in relazione con persecuzioni individuali o con un rischio personale, donde l’insussistenza dei presupposti per la protezione sussidiaria dell’art. 14, lett. c) citato decreto;

f) che era stata documentata l’assunzione a tempo determinato e parziale con decorrenza dal 6 febbraio 2018, data successiva all’udienza di trattazione, ritenuta tuttavia non indicativa del raggiungimento di un adeguato livello d’integrazione sociale, personale o lavorativo, ai fini del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Il ricorrente chiede la cassazione del decreto del Tribunale di Catanzaro sulla base di due motivi.

Con il primo, lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, art. 1, Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14-17, 3 e 7, nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio. Lamenta, in particolare, che il Tribunale aveva omesso di considerare che il Bangladesh era un paese sottosviluppato, violento, in cui le condizioni di sopravvivenza erano legate ad equilibri precari, e che, nella specie, la discriminazione era insita nella classe sociale di appartenenza con l’aggravante che l’impossibilità di esercitare liberamente il commercio l’aveva consegnato ad una povertà certa. Eccepisce che il Tribunale non aveva tenuto in debita considerazione la circostanza che egli aveva compiuto ogni sforzo possibile per circostanziare la domanda, che aveva spiegato i motivi della mancanza di altri elementi significativi, che le dichiarazioni erano state coerenti e plausibili e comunque non contrastanti con le informazioni generali e specifiche di cui si disponeva, che aveva presentato la domanda di protezione il prima possibile. Deduce inoltre che il Tribunale non aveva contestualizzato la narrazione nell’ambito della situazione socio-politica del Paese di provenienza.

Il motivo è infondato. Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 2, lett. e), definisce rifugiato il cittadino straniero che, per il fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trovi fuori del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole, avvalersi della protezione di tale Paese, oppure, se apolide, che si trovi fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni suindicate e non può o, a causa di siffatto timore, non vuole farvi ritorno, ferme le cause di esclusione dell’art. 10. Il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 1, lett. d) ed e), replica le medesime disposizioni per l’ipotesi di non appartenenza dello straniero ad un Paese membro dell’Unione Europea. Il rifugiato politico, poi, ai sensi della Convenzione di Ginevra del 29 luglio 1951, ratificata in Italia con la L. 24 luglio 1954, n. 722, ed ai sensi della direttiva 2005/85/CE, attuata con il D.Lgs. n. 25 del 2008, è colui che non può o non vuole far ritorno nel Paese in cui aveva in precedenza la dimora abituale per il fondato timore di una persecuzione personale e diretta. Pertanto, la situazione sociopolitica e normativa del Paese di provenienza rileva solo se si correla alla specifica posizione del richiedente e, più nello specifico, al fondato timore di una persecuzione personale e diretta, per l’appartenenza ad un’etnia, associazione, credo politico o religioso, ovvero in ragione delle proprie tendenze e stili di vita, e quindi alla sua personale esposizione al rischio di specifiche misure sanzionatorie a carico della sua integrità psico-fisica.

Il Tribunale ha fatto buon governo dei principi di diritto affermati in plurime occasioni da questa Corte, poichè non ha riscontrato nel racconto del ricorrente motivi di persecuzione o il timore fondato di questa per ragioni di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un particolare gruppo sociale ed opinione politica (Cass., Sez. 1, n. 30105 del 28/11/2018, Rv. 653226-02).

Correttamente il Tribunale ha escluso anche i requisiti della protezione sussidiaria che può essere riconosciuta ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g) ed h), ed in termini identici dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 1, lett. f) e g), nei confronti del cittadino straniero, che non possiede i requisiti per essere considerato rifugiato, ma che, se ritornasse nel Paese d’origine, o nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, avrebbe corso il rischio effettivo di subire un grave danno e quindi non può o non vuole avvalersi della protezione di detto Paese. Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, comma 1, identifica il danno grave nelle ipotesi a) di condanna a morte o esecuzione della pena di morte, b) di tortura o altra forma di pena o trattamento umano o degradante ai danni del richiedente nel Paese d’origine, c) di minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto interno o internazionale secondo cui non sussistono i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato (Cass., Sez. 1, n. 11103/2019, Rv. 653465-01 con ampi riferimenti alla giurisprudenza Eurounitaria).

Le liti tra privati, come quella di specie, sono estranee al sistema di protezione internazionale, come chiarito ex plurimis da Cass., Sez. 6-1, n. 11110/2019, Rv. 653482-01.

Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6. Il Tribunale non aveva tenuto conto della sua assoluta povertà, del fatto di vivere in un luogo dominato dalla criminalità, delle conseguenze dell’inadempimento del debito. Ricorda la piaga della schiavitù per debiti in (OMISSIS).

Il motivo è del pari infondato. La protezione umanitaria, prevista in generale dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, richiesta al questore o all’autorità giudiziaria, in entrambi i casi al di fuori del sistema della protezione internazionale, è un istituto di salvaguardia introdotto dalla L. n. 40 del 1998 e poi trasfuso nel predetto D.Lgs.. La successiva entrata in vigore della protezione sussidiaria ad opera del D.Lgs. n. 251 del 2007, in parte ne ha assorbito l’ambito operativo, ma l’istituto mantiene una sua autonomia come misura atipica di protezione umanitaria, il cui fondamento risiede nel principio di non refoulement del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1, per ragioni umanitarie nuove o diverse da quelle già oggetto del procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale.

Secondo la giurisprudenza, la natura residuale ed atipica della protezione umanitaria, se da un lato implica che il suo riconoscimento debba essere frutto di valutazione autonoma, caso per caso, e che il suo rigetto non possa conseguire automaticamente al rigetto delle altre forme tipiche di protezione, dall’altro comporta che chi invochi tale forma di tutela debba allegare in giudizio fatti ulteriori e diversi da quelli posti a fondamento delle altre due domande di protezione c.d. “maggiore” (Cass., Sez. 1, n. 21123/19, Rv. 655294). Questo tipo di protezione è affidata ad un catalogo aperto di ipotesi ricomprendenti i seri motivi umanitari, gli obblighi costituzionali e gli obblighi internazionali. In particolare, secondo Cass., Sez. 1, n. 4455/2018, Rv. 647298, sono ricomprese in tale tipo di tutela la salute, l’instabilità politica e sociale nel Paese d’origine, la povertà e l’integrazione sociale. L’inserimento sociale nel Paese, tuttavia, non è da solo sufficiente a giustificare il rilascio del permesso umanitario, essendo necessaria un’effettiva valutazione comparativa della situazione oggettiva del Paese d’origine e soggettiva del richiedente, alla luce delle peculiarità della vicenda personale.

Ciò premesso in via generale, osserva il Collegio che il decreto di rigetto è idoneamente motivato giacchè i problemi lavorativi e l’estorsione subita nel Paese d’origine non costituiscono ragioni imprescindibili per godere della protezione e, d’altra parte il contratto di lavoro a tempo determinato e parziale, con decorrenza dal 6 febbraio 2018, prodotto solo all’udienza del 4 maggio 2018, non è idoneo di per sè solo all’ottenimento dell’invocata protezione, perchè non espressivo dell’integrazione in Italia, in considerazione della natura precaria del lavoro e di assenza di ulteriori elementi di radicamento, quali ad esempio la conoscenza della lingua italiana, la stabilità familiare e di alloggio.

In definitiva, il Collegio ritiene che entrambe le censure sollevate nel ricorso siano infondate.

Nulla per le spese, stante la mancata costituzione del Ministero dell’Interno.

Sussistono invece, nella specie, i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente stesso, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso per cassazione, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater. Ciò si deve fare a prescindere dal riscontro dell’eventuale provvedimento di ammissione provvisoria del ricorrente al patrocinio a spese dello Stato, poichè la norma esige dal giudice unicamente l’attestazione dell’avere adottato una decisione di inammissibilità o improcedibilità o di reiezione integrale dell’impugnazione, anche incidentale, competendo poi in via esclusiva all’Amministrazione di valutare se, nonostante l’attestato tenore della pronuncia, vi sia in concreto, per la presenza di fattori soggettivi, la possibilità di esigere la doppia contribuzione (Cass. n. 9661/2019, la cui articolata motivazione si richiama).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 4 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2020

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