Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4347 del 10/02/2022

Cassazione civile sez. I, 10/02/2022, (ud. 13/01/2022, dep. 10/02/2022), n.4347

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – rel. Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. TRICOMI Mauro – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 26558/2018 proposto da:

B.G., domiciliato in Roma, presso la cancelleria

civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso

dall’avvocato Vincenzo Graniero, per procura speciale estesa in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Fallimento della (OMISSIS) s.r.l., in persona del curatore pro

tempore;

– intimato –

avverso la sentenza n. 428/2018 della Corte di appello di Salerno,

pubblicata il 28 marzo 2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

13 gennaio 2022 dal Consigliere Dott. Marco Vannucci.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza pubblicata il 24 dicembre 2009 il Tribunale di Salerno, accertato che B.G., amministratore e socio unico della (OMISSIS) s.r.l., aveva compiuto nuovi atti d’impresa dopo il verificarsi, nell’anno 2002, della causa legale di scioglimento di tale società (riduzione del capitale sociale al di sotto della misura minima prevista dalla legge in conseguenza di perdite) prevista dall’art. 2448 c.c., comma 1, n. 4), (nel testo anteriore alla relativa modificazione operata dal D.Lgs. n. 6 del 2003), condannò tale persona a risarcire alla curatela del fallimento della (OMISSIS) (dichiarato il 22 aprile 2005) il danno derivato da tale violazione, liquidato in complessivi Euro 223.934,06, oltre interessi.

2. Adita dalla parte soccombente, la Corte di appello di Salerno, con sentenza emessa il 28 marzo 2018: confermò l’accertamento della violazione da parte di B. tanto dell’obbligo di cui all’art. 2449 c.c., che di quelli da corretta gestione della società; in parziale riformai della sentenza di primo grado, liquidò in Euro 66.548,91, “oltre interessi, al saggio legale, a far data dalla domanda al soddisfo”, il danno che tale persona era condannata a risarcire alla curatela del fallimento in conseguenza degli atti di mala gestio compiuti.

2.1 La motivazione di tale sentenza può essere così sintetizzata: le operazioni dannose per la società e i suoi creditori poste in essere da B. si sostanziarono in una cessione di ramo di azienda avvenuta il 12 luglio 2004 e in una “fatturazione” relativa a “forniture per ricariche telefoniche”; tali operazioni vennero compiute dopo che la società si trovava, quanto meno a partire dal 30 giugno 2003, giorno di approvazione del bilancio relativo all’esercizio 2002, ex lege (art. 2448 c.c., comma 1, n. 4), art. 2497 c.c.), in stato di scioglimento in ragione della riduzione del suo capitale a una misura inferiore a quella minima prevista dall’art. 2474 c.c. (Euro. 10.000) in conseguenza di perdite di esercizio; nell’esercizio 2002, infatti, a fronte di un capitale nominale di Euro 10.531, le perdite (pari a Euro 20.836,59) verificatesi avevano portato il capitale reale (o patrimonio netto) a Euro 8.526,26; in particolare tali perdite, “erose dalle riserve”, incidono “sull’ammontare del capitale nominale, pari ad Euro 10.531,00, per poco meno di Euro 2.000,00 e, quindi, in misura inferiore e non superiore ad un terzo del suo importo”; nessuna iniziativa fra quelle indicate nell’art. 2447 c.c., venne adottata dall’amministratore e socio unico B. che proseguì l’attività gestoria negli anni 2003 e 2004 (la liquidazione della società fu deliberata nel mese di dicembre 2004); quanto alla determinazione della misura del danno risarcibile, il Tribunale, pur avendo menzionato le sopra indicate operazioni come dannose, di esse però non ha tenuto conto, sì che “le censure articolate sul punto dall’appellante non sono destinate ad avere alcun rilievo”; nel caso di azione di responsabilità esercitata da curatore di fallimento L. Fall., ex art. 146, chi agisce è tenuto a dimostrare quanto meno il danno e il nesso di causalità tra esso e la mala gestio dell’amministratore; quando, come nella specie, l’azione di responsabilità trova fondamento del divieto di intraprendere nuove operazioni di cui all’art. 2449 c.c., non è giustificata la liquidazione del danno in misura pari alla differenza tra l’attivo e il passivo accertati in sede fallimentare, non essendo configurabile l’intero passivo come conseguenza delle nuove operazioni compiute dall’amministratore, potendosi ricondurre parte di tale passivo a perdite derivate da operazioni compiute in epoca anteriore a quella in cui si sarebbero dovute adottare le iniziative di cui agli artt. 2447 e 2448 c.c.; il criterio che permette di liquidare il danno nel caso concreto si riferisce al passivo determinatosi nel periodo in cui l’amministratore avrebbe dovuto astenersi dal compiere nuove operazioni, dal momento che ove ciò si fosse verificato, il passivo già accumulato prima della riduzione del capitale al di sotto del minimo legale non si sarebbe accresciuto; nel caso di specie il consulente tecnico d’ufficio ha determinato in Euro 381.319,21 la differenza fra passivo e attivo accertati in sede fallimentare e ha indicato in Euro 314.770,30 il passivo relativo a operazioni compiute prima della riduzione al di sotto del minimo legale; il danno risarcibile è quindi pari a Euro 66.548,91.

3. B.G. chiede la cassazione di tale sentenza con ricorso contenente quattro motivi di impugnazione.

4. L’intimata curatela del fallimento della (OMISSIS) s.r.l. non ha svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce che la sentenza impugnata è caratterizzata da violazione degli artt. 2447 e 2448 c.c., in quanto: le perdite della (OMISSIS) accertate con il bilancio relativo all’esercizio 2002 avevano determinato una riduzione del capitale sociale “ad Euro 8.500 circa rispetto a quello originario di Euro 10.500, con una percentuale di riduzione inferiore ad un terzo”; non si era dunque verificato il presupposto previsto dall’art. 2447 c.c., richiamato dal successivo art. 2448, comma 1, n. 4), e non si era verificata la causa legale di scioglimento della società prevista dalla disposizione del codice civile da ultimo citata, con conseguente insussistenza della affermata responsabilità per la prosecuzione dell’attività d’impresa della società, di fatto cessata solo nel mese di (OMISSIS).

2. Al caso di specie si applicano (come la sentenza impugnata non ha mancato di evidenziare), in ragione del tempo in cui si verificarono i fatti rilevanti ai fini della decisione sulla controversia, le disposizioni del codice civile in materia di società di capitali vigenti prima della riforma della disciplina legale delle società di capitali e cooperative recata dal D.Lgs. n. 6 del 2003.

E’ dunque alla luce del contenuto precettivo di tali disposizioni che occorre valutare la conformità alla legge (dal ricorrente contestata) della decisione assunta dalla sentenza impugnata.

Le disposizioni, rilevanti nella specie, sono quelle, rispettivamente, relative: alla riduzione del capitale sociale per perdite (art. 2446 c.c.); alla riduzione per perdite del capitale sociale al disotto del limite legale (art. 2447 c.c.); alla causa legale di scioglimento delle società costituita dalla riduzione del capitale sociale al disotto del minimo legale (art. 2448 c.c., comma 1, n. 4); alla responsabilità degli amministratori della società per il caso di violazione del divieto di intraprendere “nuove operazioni” dopo il verificarsi di un fatto che determina lo scioglimento della società (art. 2449 c.c., comma 1); all’applicabilità di tali articoli anche alla società a responsabilità limitata (artt. 2496 e 2497 c.c.).

La sentenza impugnata afferma in primo luogo che la perdita di capitale sociale rilevante ai fini dell’applicazione degli artt. 2446 e 2447 c.c. (aventi la funzione di assicurare il rispetto del principio della corrispondenza fra capitale nominale e capitale reale) è solo quella che si determina detraendo da essa la riserva legale, le riserve statutarie, i fondi appostati al passivo, gli utili degli esercizi precedenti e quelli c.d. “di periodo”; così conformandosi alla costante interpretazione, data dalla giurisprudenza di legittimità (citata dalla stessa sentenza impugnata), del concetto di perdita rilevante per il compimento di una delle operazioni prescritte da tali disposizioni del codice civile (in questo senso, cfr: Cass. n. 12347 del 1999; Cass. n. 5740 del 2004, in tema di computabilità dei c.d. “utili di periodo” ai fini della determinazione della perdita; Cass. n. 23269 del 2005; Cass. n. 8221 del 2007).

In conseguenza di tale interpretazione, in questa sede da ribadire, la sentenza impugnata afferma (pag. 9) che nel bilancio relativo all’esercizio 2002 della (OMISSIS) s.r.l.: le perdite verificatesi (pari a Euro 20.836,59) portarono il capitale reale (o patrimonio netto) a Euro 8.526,26; in particolare tali perdite, “erose dalle riserve”, incisero “sull’ammontare del capitale nominale, pari ad Euro 10.531,00, per poco meno di Euro 2.000,00 e, quindi, in misura inferiore e non superiore ad un terzo del suo importo”.

La sentenza impugnata poi, nel raffronto fra le disposizioni rispettivamente recate dall’art. 2447 e dall’art. 2448 c.c., comma 1, n. 4), aderisce alla tesi secondo cui il richiamo al primo articolo operato dal secondo attiene “solamente alle iniziative da porre in essere per evitare lo scioglimento della società e non alla misura delle perdite: in quest’ottica, quindi, qualsivoglia riduzione del capitale sociale tale da portarlo al disotto del minimo legale, a prescindere dalla sua misura, comporterebbe lo scioglimento della società, salva l’adozione delle suddette iniziative” (pag. 6).

In tale ottica, pertanto, la sentenza afferma (pagg. 9 e 11) che l’odierno ricorrente avrebbe dovuto, quanto meno dalla data di predisposizione del bilancio relativo all’esercizio 2002 (“al più tardi intorno alla metà dell’anno 2003”), adottare una delle iniziative previste dall’art. 2447 c.c. e “astenersi dal compiere nuove attività di impresa”; con la conseguenza che egli è responsabile per le operazioni compiute dopo il verificarsi del fatto determinante lo scioglimento ex lege (riduzione del capitale al disotto del minimo legale per effetto di perdite inferiori al terzo) della società da lui amministrata, non seguito da una delle decisioni rispettivamente previste dall’art. 2447.

La dottrina largamente maggioritaria (comprendente l’autore che nel corso degli anni ha maggiormente approfondito le questioni connesse allo scioglimento e alla liquidazione delle società di capitali) e parte significativa della giurisprudenza di merito (sul punto specifico non risultano precedenti nella giurisprudenza di legittimità) affermano invece, in contrasto con la tesi fatta propria dalla sentenza impugnata, che il fatto determinante lo scioglimento della società non è la riduzione del capitale al disotto del minimo legale per effetto di una perdita di qualunque consistenza quantitativa, ma che l’evento dissolutivo in parola si verifica solo quando la perdita di esercizio è superiore al terzo del capitale e lo riduce al disotto di tale ammontare minimo.

Tale interpretazione non è desunta dalla lettera dell’art. 2448 c.c., comma 1, n. 4), che, nel “far salvo quanto disposto dall’art. 2447 c.c.”, non prende posizione in ordine alla consistenza quantitativa della perdita che ha determinato la riduzione del capitale al disotto del minimo legale; chiamando in giuoco l’art. 2447, nella sua parte precettiva, costituita dall’obbligo per gli amministratori di convocare senza indugio l’assemblea per l’adozione delle deliberazioni, direttamente (riduzione del capitale e suo contemporaneo aumento a una cifra non inferiore a quella minima prevista dalla legge) ovvero indirettamente (trasformazione della società) ripristinatorie del minimo di capitale; deliberazioni costituenti – per costante giurisprudenza di legittimità – condizione risolutiva, con effetto ex tunc, dello scioglimento della società, verificatosi quando il capitale sia sceso al disotto della misura minima prevista dalla legge (nel senso da ultimo precisato, cfr., per tutte: Cass. n. 9619 del 2009; Cass. n. 4923 del 1995; Cass. n. 8928 del 1994; Cass. n. 4089 del 1980).

L’interpretazione dell’art. 2448 c.c., comma 1, n. 4), fondata sul solo suo dato letterale (fatta propria dalla sentenza impugnata) determina però una quanto mai rilevante amputazione della parte descrittiva della fattispecie contenuta nell’art. 2447 c.c., costituente il presupposto dell’insorgere degli obblighi da tale disposizione di legge previsti: id est, la diminuzione del capitale oltre il minimo legale causata dalla “perdita di oltre un terzo del capitale”.

Tale amputazione provoca rilevante distonia fra disposizioni di legge fra loro complementari.

Come autorevole dottrina non ha mancato di rimarcare, la tesi derivata dalla mera interpretazione letterale dell’art. 2448 c.c., comma 1, n. 4), “finirebbe col sottoporre la conseguenza più grave, vale a dire lo scioglimento, a presupposti obiettivi minori (qualunque perdita incidente sul minimo legale) di quelli (perdita di oltre un terzo del capitale che incida sul minimo legale) richiesti per la conseguenza meno grave, vale a dire l’obbligatoria (riduzione e) ricostituzione del capitale”; con il risultato di determinare “una arbitraria mutilazione logica dell’art. 2447 c.c., nella sua parte descrittiva di fattispecie”, non avendo altrimenti senso il rilievo, dato da tale articolo di legge, al limite del terzo “se la società fosse comunque costretta a provvedere di fronte a perdite di qualsiasi misura indenti sul minimo legale di capitale”.

Tali argomenti sono da condividere in ragione della logica intrinseca che li caratterizza.

L’interpretazione dell’art. 2448 c.c., comma 1, n. 4), non può dunque prescindere dall’intero contenuto del precedente art. 2447, sì che:

fino a quando la perdita di esercizio si contiene entro i limiti del terzo della misura di capitale scelta dai soci al momento in cui tale evento si verifica, anche se tale misura è quella (minima) imposta dalla legge per il modello societario adottato, non vi è obbligo per gli amministratori di convocare senza indugio l’assemblea per l’adozione di una delle decisioni indicate dall’art. 2447 c.c., e tale inerzia, ovvero una decisione assembleare diversa da quelle prescritte da tale articolo, non comporta conseguenze negative di sorta quanto alla vita della società;

e’ solo la perdita di esercizio superiore al terzo del capitale e incidente sul suo ammontare minimo che determina, per volontà della legge (il citato art. 2448 c.c.), lo scioglimento della società.

La sentenza impugnata esprime una interpretazione delle disposizioni in discorso difforme da quella teste’ sintetizzata.

Non possono, d’altra parte, valere le considerazioni generali sull’andamento negativo della gestione della società (sembra riferibili all’anno 2003) che pure si leggono nella sentenza impugnata, parimenti censurate dal ricorrente. E’ infatti mancato il, necessario, specifico accertamento relativo alla situazione patrimoniale e finanziaria della (OMISSIS) nel periodo successivo al 31 dicembre 2002 da cui desumere, in tesi, l’esistenza di perdite superiori al terzo del capitale che lo abbiano ridotto al disotto del minimo legale, con conseguente obbligo per il ricorrente, amministratore e socio unico della società (secondo quanto si legge nella sentenza), di adottare “senza indugio” una delle deliberazioni imposte dall’art. 2447 c.c., sulla base di una aggiornata situazione patrimoniale della società.

Al riguardo, è doveroso precisare che la disposizione da ultimo citata non indica, al pari di quella contenuta nell’art. 2446 c.c., il termine (anche inferiore all’anno) entro il quale, in presenza di perdite della consistenza di quelle di cui si è discusso, gli amministratori della società hanno l’obbligo, di fonte legale, di predisporre una situazione patrimoniale il più possibile aggiornata da sottoporre all’esame dell’assemblea per l’assunzione di una delle deliberazioni di cui si è discusso.

Premesso che il termine stabilito dall’art. 2364 c.c., per l’approvazione del bilancio non costituisce di per sé criterio adeguato di valutazione del rispetto, da parte degli amministratori, dell’obbligo di agire “senza indugio” sancito dal successivo art. 2447 (in questo senso, cfr. Cass. n. 13503 del 2007), la giurisprudenza di legittimità ha sul punto chiarito che il richiesto grado di aggiornamento della situazione patrimoniale della società “sarà dunque di volta in volta da valutare in relazione a ciascun caso concreto, tenendo conto almeno di due possibili varianti: la dimensione della società e la conseguente complessità dei rilevamenti contabili che la riguardano, in primo luogo, ed, in secondo luogo, l’esistenza di eventuali fatti sopravvenuti idonei a far fondatamente supporre che la situazione patrimoniale, rispetto alla data di riferimento della relazione degli amministratori, possa essere mutata nel frattempo in modo significativo. Ed è appena il caso di aggiungere che si tratta di valutazioni rimesse al giudice di merito” (così, in motivazione, Cass. n. 23269 del 2005, cit.).

3. Con il secondo motivo il ricorrente censura la sentenza evidenziando l’assenza di motivazione quanto alla rilevanza nella determinazione del danno delle attività (cessione di ramo di azienda; “fatturazione”) a esso ricorrente imputate come le uniche svolte dopo la riduzione del capitale sociale; avendo invece la sentenza determinato il danno sulla base di criteri (con particolare riferimento alla misura del passivo prima della riduzione del capitale) di cui è ignoto il dato temporale alla base del calcolo.

4. Con il terzo motivo la sentenza di appello è censurata perché, dopo avere affermato che incombeva al curatore dimostrare esistenza e consistenza del danno e nesso di causalità fra questo e l’attività di cattiva gestione imputata all’amministratore, “nulla aggiunge sull’esistenza del nesso causale tra il danno e la mala gestio dell’amministratore, né evidenzia le prove eventualmente offerte dalla Curatela a dimostrazione di tale elemento”. Dal momento che l’affermata responsabilità si fonda sulla violazione del divieto di intraprendere le nuove operazioni sopra indicate, “la Corte avrebbe dovuto valutare non solo l’utilizzabilità dei valori di tali operazioni, ma verificare anche l’incidenza degli stessi nei parametri utilizzati ai fini della quantificazione del danno, nonché il nesso causale”.

5. I due motivi, da esaminare congiuntamente in ragione della loro stretta connessione, sono fondati nel senso di seguito precisato.

Al riguardo è da rimarcare che la sentenza impugnata ha espressamente affermato che, nel caso di azione di responsabilità esercitata da curatore di fallimento L. Fall., ex art. 146, chi agisce è tenuto a dimostrare quanto meno il danno e il nesso di causalità tra esso e la mala gestio dell’amministratore e che quando, come nella specie, l’azione di responsabilità trova fondamento nel divieto di intraprendere nuove operazioni di cui all’art. 2449 c.c., non è giustificata la liquidazione del danno in misura pari alla differenza tra l’attivo e il passivo accertati in sede fallimentare, non essendo configurabile l’intero passivo come conseguenza delle nuove operazioni compiute dall’amministratore, potendosi ricondurre parte di tale passivo a perdite derivate da operazioni compiute in epoca anteriore a quella in cui si sarebbero dovute adottare le iniziative di cui agli artt. 2447 e 2448 c.c..

Da tale premessa, la sentenza, alla luce dei contenuti della consulenza tecnica d’ufficio, determina il danno risarcibile da parte del ricorrente in misura pari alla differenza aritmetica, fra: differenza “tra attivo e passivo fallimentare, pari ad Euro 381.319,21” e ammontare del “passivo relativo ad operazioni compiute prima della riduzione al disotto del minimo legale, pari ad Euro 314.770,30” (pag. 19 sentenza).

Gli ordini di concetti sviluppati dalla sentenza impugnata sono, in linea di astrazione, non contrastanti con i principi di diritto sviluppati dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. S.U., n. 9100 del 2015), secondo cui nell’azione di responsabilità promossa dal curatore a norma della L. Fall., art. 146, comma 2, la mancata (o irregolare) tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, sempreché il ricorso ad esso sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo.

Detti principi sono stati, in particolare, ribaditi anche in riferimento all’azione di responsabilità promossa dal curatore di fallimento contro l’ex amministratore di una società, poi fallita, che abbia violato il divieto di compiere nuove operazioni sociali dopo l’avvenuta riduzione, per perdite, del capitale sociale al di sotto del minimo legale, dovendo il giudice, ove, nella quantificazione del danno risarcibile, si avvalga, ricorrendone le condizioni, del criterio equitativo della differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, indicare le ragioni per le quali, da un lato, l’insolvenza sarebbe stata conseguenza delle condotte gestionali dell’amministratore e, dall’altro, l’accertamento del nesso di causalità materiale tra queste ultime ed il danno allegato sarebbe stato precluso dall’insufficienza delle scritture contabili sociali (in questo senso, cfr. Cass. n. 19733 de 2015; in senso conforme, in riferimento al precetto di cui all’art. 2486 c.c., nel testo oggi vigente, espressivo di un divieto analogo a quello recato dall’abrogato art. 2449 c.c., per come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, cfr. Cass. n. 9983 del 2017)

Nel caso di specie, però, la sentenza impugnata indica, quali operazioni vietate dall’art. 2449 c.c., all’odierno ricorrente imputabili: una cessione di ramo di azienda avvenuta il (OMISSIS); una “fatturazione” relativa a “forniture per ricariche telefoniche” non temporalmente collocata.

Per verificare se il compimento di tali operazioni rientrasse nel divieto sancito dall’art. 2449 c.c., la sentenza impugnata parte dal presupposto (in diritto errato, per quanto evidenziato in risposta al primo motivo di ricorso) che la società di cui il ricorrente era amministratore unico fosse ex lege sciolta quanto meno al tempo in cui lo stesso amministratore predispose il progetto di bilancio relativo all’esercizio dell’anno 2002 poi approvato dall’assemblea della società il 30 giugno 2003.

Orbene, alla luce del principio di diritto sopra indicato è venuto meno il presupposto per qualificare le due operazioni siccome sicuramente rientranti nel divieto sancito dall’art. 2449 c.c. (riferito a quei rapporti giuridici che, svincolati dalle necessità inerenti alla conservazione del patrimonio della società in funzione della liquidazione del relativo patrimonio, sono costituiti dagli amministratori in vista del conseguimento di utili d’impresa con assunzione di ulteriori vincoli per la società; in questo senso, cfr., fra le molte: Cass. n. 17033 del 2008; Cass. n. 3694 del 2007; Cass. n. 1035 del 1995).

Ferma restando dunque la necessità citi verificare se, e quando, la causa di scioglimento di cui all’art. 2448 c.c., comma 1, n. 4), si sia verificata nel periodo compreso fra il 1 gennaio 2003 e il giorno in cui la società fu posta in liquidazione, onde accertare se le due operazioni sopra indicate rientrassero, o meno, fra quelle vietate dal successivo art. 2449, non può farsi a meno di rimarcare che la sentenza impugnata si caratterizza per l’omissione di qualunque indicazione relativa al nesso di causalità fra dette due operazioni e il pregiudizio che il curatore del fallimento allegò essere derivato ai creditori ovvero alla società per effetto del compimento di dette due operazioni.

6. Il quarto motivo, riguardante il capo della sentenza impugnata relativo alla regolamentazione delle spese processuali del giudizio di primo grado e di quello di appello, è assorbito dall’accoglimento dei primi tre motivi.

7. La sentenza impugnata è in conclusione da cassare con rinvio alla Corte di appello di Salerno che, in diversa composizione, dovrà decidere sull’appello proposto dal ricorrente contro la sentenza resa dal Tribunale di Salerno il 24 dicembre 2009 nel rispetto dei seguenti principi di diritto:

“L’art. 2448 c.c., comma 1, n. 4), (nel testo anteriore all’entrata in vigore del D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, ratione temporis applicabile al caso di specie), che prevede lo scioglimento della società di capitali “per la riduzione del capitale al disotto del minimo legale, salvo quanto è disposto dall’art. 2447″, si interpreta nel senso che tale evento: si verifica solo quando la perdita di esercizio di consistenza superiore al terzo del capitale determina la riduzione di questo al disotto del minimo stabilito dalla legge (art. 2327 c.c., per la società per azioni; art. 2474 c.c., per la società a responsabilità limitata); non si verifica quando la perdita di capitale, pur determinando la riduzione di questo al disotto del minimo stabilito dalla legge, sia pari o inferiore al terzo del capitale medesimo”.

“Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore di fallimento ai sensi della L. Fall., art. 146, comma 2, contro l’ex amministratore di una società, poi fallita, che abbia violato il divieto di compiere nuove operazioni sociali dopo l’avvenuta riduzione, per perdite, del capitale sociale al disotto del minimo legale (art. 2449 c.c., nel testo anteriore all’entrata in vigore del D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, ratione temporis applicabile al caso di specie), il giudice, ove, nella quantificazione del danno risarcibile, si avvalga, ricorrendone le condizioni, del criterio equitativo della differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, temperato dalla espunzione da tale differenza del passivo formatosi successivamente al verificarsi dello scioglimento della società, deve indicare le ragioni per le quali, da un lato, l’insolvenza sarebbe stata conseguenza delle condotte gestionali dell’amministratore e, dall’altro, l’accertamento del nesso di causalità materiale tra queste ultime e il danno allegato sarebbe stato precluso dall’insufficienza delle scritture contabili sociali; e ciò sempre che il ricorso a tale criterio equitativo sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo”.

Al giudice di rinvio è rimessa anche la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

in accoglimento dei primi tre motivi di ricorso, assorbito il quarto, cassa la sentenza impugnata con rinvio della causa alla Corte di appello di Salerno, in diversa composizione, cui rimette anche la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte, il 13 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 10 febbraio 2022

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