Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4329 del 20/02/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 20/02/2017, (ud. 01/12/2016, dep.20/02/2017),  n. 4329

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28253/2013 proposto da:

DUSSMANN SERVICE S.R.L., P.I. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

LUNGOTEVERE DEI MELLINI 10, presso lo studio dell’avvocato FILIPPO

CASTELLANI, rappresentata e difesa dall’avvocato FULVIO ANTONIO

CARMINE MOIZO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

N.G., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

TRIONFALE 21, presso lo studio dell’avvocato FEDERICA CASAGNI,

rappresentata e difesa dall’avvocato ANDREA AVOLA, giusta delega in

atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1798/2013 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 17/07/2013, R.G. N. 1037/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

01/12/2016 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;

udito l’Avvocato FULVIO ANTONIO CARMINE MOIZO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Palermo, con la sentenza n. 1798 del 2013, depositata il 17 luglio 2013, riformando la sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Palermo tra le parti, n. 4360 del 2011, accoglieva l’appello proposto da N.G. nei confronti della società datrice di lavoro Dussmann service srl e dichiarava l’illegittimità del licenziamento con preavviso irrogato alla lavoratrice con nota del 18 maggio 2009, ordinando la reintegra della lavoratrice nel posto di lavoro, e condannando la datrice di lavoro al risarcimento del danno subito determinato in una indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dalla data del licenziamento all’effettiva reintegra, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla maturazione di ogni rata di credito al pagamento, nonchè al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali con la medesima decorrenza.

2. La società datrice di lavoro aveva licenziato la lavoratrice per i seguenti addebiti disciplinari accaduti la mattina del 9 aprile 2009:

il primo consisteva nell’essersi rifiutata di ritirare e firmare la lettera con l’indicazione delle mansioni, consegnatale da L.V.;

il secondo consisteva nell’ essersi rifiutata di ricevere la nuova divisa aziendale di colore rosso;

il terzo consisteva nel non aver preso servizio alle h. 6.00, per l’espletamento delle mansioni.

3. La Corte d’Appello accoglieva il motivo di impugnazione con cui si censurava che i giudici di primo grado (vi era fase cautelare e di merito) avessero ritenuto dimostrati i fatti contestati, affermando che difettava la prova idonea dell’intento di insubordinazione o di inadempimento ai propri obblighi contrattuali in capo alla lavoratrice incolpata.

Il giudice di secondo grado, riteneva fondamentale per ricostruire l’accaduto la testimonianza resa da V.L. sindacalista presente ai fatti per aver accompagnato la lavoratrice ad un incontro con il rappresentante aziendale L.V..

Sul primo addebito la CdA affermava che non vi era stato riscontro del fatto.

Sul secondo, che risultava provato che la divisa non era stata indossata perchè di taglia diversa da quella della lavoratrice.

Sul terzo, che la lavoratrice si era allontanata su invito della V. e senza dissenso del L. per evitare che il confronto si facesse aspro.

4. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre la società Dussmann service srl, prospettando quattro motivi di ricorso.

5. Resiste la lavoratrice con controricorso.

6. La ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la censura di violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all’art. 2104 c.c. e della L. n. 804 del 1966, art. 3, circa l’obbligo di diligenza del prestatore di lavoro.

Deduce la lavoratrice che la diligenza del prestatore di lavoro, a cui va ricondotta l’obbedire alle istruzioni impartite dall’imprenditore, è un dovere primario di ogni dipendente, che deve fungere da guida per l’attività dello stesso.

Il comportamento tenuto dalla N. era stato lesivo del dovere di obbedienza.

La Corte d’Appello aveva erroneamente interpretato il dovere di diligenza, non considerando neanche l’elemento intenzionale che aveva animato la lavoratrice, la quale si poneva in aperto contrasto con l’azienda datrice di lavoro.

I comportamenti della ricorrente consistenti nel rifiuto di indossare la divisa rossa assegnatale, nell’abbandonare il luogo di lavoro o nel non presentarsi al lavoro senza addurre giustificazione alcuna o facendola pervenire con ritardo, non erano giustificabili ed erano indici di grave e notevole inadempimento. Nè il conflitto nascente dalla rivendicazione di presunte mansioni superiori poteva giustificare la condotta in questione.

La Corte d’Appello nello svalutare l’inadempimento, faceva riferimento alla grave lesione del vincolo fiduciario, con evidente riferimento alla nozione di giusta causa di cui all’art. 2119 c.c., mentre nella specie si verteva in ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 3.

1.1. Il motivo è inammissibile. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare con la sentenza n. 26307 del 15 dicembre 2014: il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ex art. 360 c.p.c., n. 3, ricorre (o non ricorre) a prescindere dalla motivazione posta dal giudice a fondamento della decisione (“id est”: del processo di sussunzione), rilevando solo che, in relazione al fatto accertato, la norma non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata male applicata, poichè il ricorrente è tenuto, in ogni caso, a prospettare l’erronea interpretazione di una norma da parte del giudice che ha emesso la sentenza impugnata e ad indicare, a pena d’inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 4, i motivi per i quali chiede la cassazione.

La prospettazione della ricorrente non censura la specifica ratio decidendi della sentenza di appello che ha escluso, in ragione degli esiti dell’istruttoria svolta, la sussistenza delle condotte, nel primo caso per mancanza di riscontro del fatto, negli altri due casi, perchè, come riferito dalla teste presente ai fatti ( V.L.), rispetto ad altri testi ( C.A. e M.S.), da un lato la divisa era della taglia non corretta (in precedenza la lavoratrice usava altra divisa di colore diverso), e dall’altro l’allontanamento era stato suggerito dalla V. per evitare che il confronto con il rappresentante aziendale si facesse aspro, e ciò escludeva insubordinazione o inadempimento.

Le considerazioni sulla gravità delle condotte e sulla idoneità delle stesse a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario, qualora fossero state sussistenti, costituiscono un mero obiter dictum, mentre la ratio decidendi va ravvisata nella mancata prova del primo fatto e nella ragionevole spiegazione delle altre due condotte, senza che venga, dunque, in rilievo un vaglio di proporzionalità e adeguatezza, sul quale, invece, si incentra la censura.

2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotto omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5), quale il comportamento complessivamente tenuto dalla sig.ra N. nei confronti della Dussmann.

La ricorrente ricorda come le numerose sanzioni disciplinari intervenute rispetto alla ricorrente, come esposto nella narrazione dei fatti di causa, dimostravano che il rapporto di lavoro non fosse più improntato al rispetto delle direttive impartite dal datore di lavoro e dell’organigramma aziendale.

La ricorrente si rifiutava di ricevere lettere e comunicazioni dall’azienda, si rifiutava di indossare la divisa rossa corrispondente al proprio livello di inquadramento, si rifiutava di riconoscere in capo al sig. M. di rappresentare la Dussmann.

La Corte d’Appello ometteva di considerare tali comportamenti che risultavano non solo dall’istruttoria, ma venivano rivendicati dalla ricorrente negli scritti giudiziari e stragiudiziali presenti nel processo di primo grado. La Corte d’Appello non aveva valutato la totalità dei comportamenti della N., atteso che le motivazioni ed i comportamenti scorretti della N. avevano radici lontane, in ragione di un presunto demansionamento, rispetto al quale la lavoratrice instaurava un precedente giudizio.

La Corte d’Appello, ometteva di valutare il quadro complessivo della vicenda, non teneva conto delle contestazioni disciplinari intervenute nel 2008, e di quanto sostenuto dai giudici di primo grado in fase cautelare e di merito.

2.1. Il motivo è in parte inammissibile e in parte non fondato.

Da un lato, occorre considerare che l’immutabilità della contestazione preclude al datore di lavoro di far poi valere, a sostegno della legittimità del licenziamento stesso, circostanze nuove rispetto a quelle contestate, tali da implicare una diversa valutazione dell’infrazione (Cass., sentenza n. 6499 del 22 marzo 2011), per cui, nella specie, la ricorrente non può introdurre ulteriori circostanze a sostegno del licenziamento quali, tra l’altro, precedenti sanzioni disciplinari, non richiamate nella contestazione.

Dall’altro, come si è già affermato nel vagliare il primo motivo di ricorso, l’esclusione della prova delle condotte contestate ha fatto venir meno il giudizio di adeguatezza e proporzionalità, rispetto al quale viene invocato la valutazione di un più ampio quadro complessivo, peraltro delineato in modo generico, intendendosi attribuire valenza anche all’incardinamento di un autonomo precedente giudizio per demansionamento, concluso nelle fasi di merito con il rigetto della domanda.

3. Con il terzo motivo di ricorso è dedotto omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5), quale il rifiuto di ricevere la lettera con l’indicazione delle mansioni e le motivazioni di tale rifiuto.

Il rifiuto di ricevere la lettera si doveva, per la ricorrente, evincere dalle giustificazioni rese dalla lavoratrice in ordine agli addebiti contestati. La Corte d’Appello, tuttavia, non esaminava tale decisivo aspetto.

3.1. Il motivo è inammissibile. La stessa ricorrente afferma di non essersi costituita in appello e quindi, con l’odierna censura introduce una doglianza che anche solo come eccezione, essendo parte vittoriosa in primo grado, avrebbe dovuto sottoporre al giudice di secondo grado, non potendo pertanto in detta sede denunciare il vizio di omessa pronuncia in relazione all’omesso esame di documentazione, di cui peraltro, non trascrive il contenuto ai fini del vaglio di rilevanza e autosufficienza del motivo.

4. Con il quarto motivo di ricorso è prospettato omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5), in relazione all’escussione dei testi C.A., M.S. e V.L..

I testi C. e M. avevano riferito di atteggiamenti ostili della lavoratrice nei confronti di Dussamnn, nonchè trascuratezza nell’espletamento delle proprie mansioni. La stessa V. rappresentante sindacale, espone la ricorrente, confermava l’atteggiamento ostile, nonchè i rifiuti della lavoratrice giustificandoli per un presunto demansionamento e confermava che la ricorrente il 9 aprile del 2009 si era allontanata senza fare rientro al lavoro.

La ricorrente censura la statuizione secondo cui i testi C. e M., in quanto dipendenti, sarebbero stati verosimilmente interessati a non rendere dichiarazioni sfavorevoli al datore di lavoro. La loro inattendibilità sarebbe dipesa, altresì, espone la ricorrente, dalla circostanza di avere entrambi affermato di essere presenti al colloquio del 9 aprile 2009, mentre la teste V. avrebbe parlato di un colloquio avvenuto solo tra la N., la V. stessa ed il L..

4.1. Il motivo è inammissibile. Come già si è osservato, la ricorrente si duole del mancato rilievo attribuito ad atteggiamenti che, a prescindere dalla genericità della deduzione, sono distinti rispetto alle condotte oggetto della contestazione.

Nè la ricorrente censura l’affermazione della Corte d’Appello che la V. aveva riferito che la N. si era allontanata dal posto di lavoro su proprio invito per evitare un acceso confronto con il L. che non si era opposto. Quanto agli altri due testi, occorre precisare che la Corte d’Appello, con specifica motivazione, ha dato prevalenza alla testimonianza della V., in quanto gli stessi, che avevano confermato la ricostruzione fattuale oggetto di contestazione, apparivano inattendibili nella misura in cui non era chiaro come avessero potuto conoscere i fatti, dato che non avevano precisato di essere stati presenti al colloquio, mentre la V. aveva riferito che lo stesso si era svolto esclusivamente tra la medesima, il L. e la N..

La censura, per come formulata in modo assertivo e senza riportare il contenuto delle testimonianze C. e M., risulta generica, non autosufficiente e pertanto inammissibile.

5. Il ricorso deve essere rigettato.

6. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

7. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

La Corte rigetta ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese che liquida in Euro tremilacinquecento per compensi professionali, Euro duecento per esborsi, oltre spese generali in misura del 15 per cento e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 1 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2017

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