Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4323 del 20/02/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 20/02/2017,  n. 4323

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 18880/2011 proposto da:

S.T., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA CICERONE 44, presso lo studio dell’avvocato AMEDEO POMPONIO, che

la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIUSEPPINO BOSSO,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, C.F. (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 401/2011 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 04/04/2011 R.G.N. 806/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/11/2016 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, il che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. La Corte di Appello di Torino con la sentenza n. 401 del 2011, depositata il 4 aprile 2011, rigettava l’appello proposto da S.T. nei confronti del Ministero dell’economia e delle e finanze, avverso la sentenza emessa tra le parti dal Tribunale di Torino il 22 gennaio-27 gennaio 2010.

2. La S., con ricorso depositato il 1 dicembre 2009, aveva adito, dinanzi al Tribunale di Torino, il Ministero dell’economia e delle finanze per l’annullamento del provvedimento 2 novembre 2009, da quest’ultimo adottato tramite la direzione territoriale di Torino.

Come si legge nel ricorso la direzione territoriale, con racc. del 2 novembre 2009, dopo avere comunicato alla S. che a suo carico si era formato un indebito di Euro 33.684,25 “per assegni ridotti del 10 per cento dal 30 dicembre 1999 al 27 marzo 2000, assegni ridotti del 50 per cento dal 28 marzo 2000 al 26 settembre 2000, e senza assegni dal 27 settembre 2000 al 5 dicembre 2001”, invitava la stessa a restituire la somma entro trenta giorni a mezzo o di conto corrente postale o di versamento contanti o di bonifico di tesoreria, con la precisazione che ove la stessa “non si trovasse nella possibilità di effettuare il versamento in unica soluzione” avrebbe potuto inviare apposita istanza intesa ad ottenere una rateizzazione del debito.

Come ricorda la Corte d’Appello, la ricorrente nel ricorso introduttivo del giudizio sosteneva il diritto all’irripetibilità delle somme indebitamente percepite sul presupposto di avere agito in buona fede e di trovarsi in condizioni economiche tali da non vedere garantita una vita dignitosa in relazione al suo stato sociale, anche facendo ricorso al pagamento rateale, richiamando in proposito la giurisprudenza della Corte dei Conti.

3. Il Tribunale rigettava la domanda, affermando, tra l’altro che a smentita della buona fede non poteva ignorarsi la consapevolezza da parte della S. di avere continuato a percepire il normale stipendio nonostante le previsioni legali di cui non poteva non essere a conoscenza in materia di trattamento in caso di aspettativa, con che sarebbe stato per lei doveroso informare il proprio istituto scolastico datore di lavoro.

Neppure poteva dirsi fondata la doglianza circa l’incompatibilità del massimo di rateizzazione possibile (sessanta rate con conseguente importo mensile da corrispondere di Euro 561,40) a fronte della capacità reddituale, da valutarsi non soltanto in base all’ammontare della pensione, bensì anche alla luce delle proprietà immobiliari (due immobili a (OMISSIS) e un immobile a (OMISSIS)).

4. La Corte d’Appello rigettava l’impugnazione, confermando le statuizioni del giudice di primo grado e affermando quanto segue.

4.1. Il giudice di secondo grado affermava il diritto delle Amministrazioni al recupero dell’indebito ex art. 2033 c.c., che prevede la rilevanza della buona fede ai fini della ripetibilità solo con riguardo agli interessi e ai frutti.

Riteneva che la giurisprudenza contabile si era formata con riguardo a fattispecie diverse, in quanto riferita ad indebiti in materia previdenziale, per i quali diversamente che in materia civilistica veniva riconosciuta un’incidenza, ai fini della irripetibilità, alla buona fede (errore non riconoscibile da parte dell’interessato) e all’affidamento consolidato dal trascorrere del tempo.

Rilevava il limite al recupero nei confronti del percettore in buona fede costituito dall’esercizio della ripetizione, da parte dell’Amministrazione, con modalità tali da non incidere significativamente sulle esigenze di vita del lavoratore, che nella specie risultavano garantire dalla facoltà di rateizzazione massima.

Affermava che, nella specie, dai documenti sulla capacità reddituale patrimoniale dell’appellante, titolare di tre immobili, richiamati nella sentenza di primo grado, non era dato concludere per la sussistenza di una compromissione irreparabile a fronte di un esborso rateizzato.

Disattendeva l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 2033 c.c., per violazione degli artt. 3 e 38 Cost., atteso che l’interpretazione della Corte dei Conti mira a tutelare, con riferimento a situazioni eccezionali, condizioni reddituali di significativa debolezza, non suscettibili di interpretazione in via analogica nel campo retributivo; non sussisteva disparità di trattamento tra la posizione di chi, trovandosi in situazione di attesa protratta negli anni, versi in una condizione di obiettiva incertezza sul quantum della prestazione pensionistica (nel passaggio dalla liquidazione provvisoria a quella definitiva), rispetto a chi tale incertezza non può e non deve avere attesa la conoscenza dell’ammontare della retribuzione ordinaria e la legittimità della decurtazione in presenza di eventi prestabiliti e disciplinati dalla legge.

5. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre S.T. prospettando un articolato motivo di impugnazione.

6. Il Ministero dell’economia e delle finanze è rimasto intimato.

7. La ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo di ricorso, articolato in più doglianze, è dedotta: violazione e falsa applicazione dell’art. 2033 c.c., in relazione all’art. 2697 c.c., e con esplicito riferimento agli indebiti di tipo retributivo formatisi a carico dei dipendenti pubblici già pensionati al momento della richiesta di restituzione della somma (art. 360 c.p.c., n. 3);

omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5);

insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5);

incostituzionalità dell’art. 2033 c.c., (per contrasto con gli artt. 3 e 38 Cost., e per irragionevolezza) laddove viene interpretato in maniera difforme a seconda che si tratti di indebito pensionistico ovvero di indebiti retributivi, allorchè anche in quest’ultimo caso venga richiesta la restituzione quando il pubblico dipendente è già in quiescenza (art. 360 c.p.c., n. 3).

2. La ricorrente, dopo avere ricordato le vicende in fatto, ripercorre le fasi del giudizio.

Deduce, quindi, che la giurisprudenza di legittimità richiamata dalla Corte d’Appello attiene a fattispecie diverse da quella in esame, attinendo ad ipotesi di parasubordinazione di carattere privatistico, o a rapporti di lavoro diritto privato.

Ricorda che la giurisprudenza del Consiglio di Stato non esclude il rilievo della buona fede, ed attribuisce rilievo alle ricadute del recupero sulle esigenze di vita del dipendente e al tempo trascorso tra percezione dell’indebito e richiesta di restituzione.

Tali principi avrebbero dovuto trovare applicazione nel caso di specie, atteso che essa ricorrente:

aveva documentato la propri patologia e la persistenza della stessa e si era assentata dal lavoro in ragione della decisione del Collegio medico; era, pertanto, convinta che le competesse l’integrale retribuzione;

si era poi dimessa e aveva avuto la liquidazione del trattamento di fine rapporto senza obiezioni e riserve;

non aveva avuto richieste di restituzione per lungo tempo.

Erroneamente, così violando l’art. 2033 cc, la Corte d’Appello aveva escluso la buona fede della ricorrente, atteso che nulla essa aveva posto in essere per indurre in errore l’Amministrazione, e il giudice di secondo grado non aveva spiegato perchè dovesse essere a conoscenza delle decurtazioni.

Avrebbero dovuto, altresì, trovare applicazione i principi enunciati dalla Corte dei Conti (Sezioni Riunite n.8/2008/QM), secondo la quale a fronte della buona fede non devono essere restituite le somme indebite trascorso oltre un anno tra la data di conoscenza dell’indebito e la richiesta di restituzione.

Infine, la ricorrente prospetta questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 3 Cost., e art. 38 Cost., comma 2, in relazione alla diversa interpretazione dell’art. 2033, con riguardo all’indebito retributivo e a quello pensionistico.

Le diverse censure vanno esaminate congiuntamente attesa la loro connessione, nonchè la riconduzione sotto un unico motivo di impugnazione.

3. Appare opportuno, in via preliminare, ricordare che la S. aveva insegnato come docente di ruolo dal 10 settembre 1983.

Nell’ottobre 1998 aveva subito un’operazione chirurgica per carcinoma alla mammella, ed era poi stata in malattia regolarmente documentata dai certificati medici prodotti all’Istituto scolastico datore di lavoro, con reiterazione dei periodi fino al 2001.

La docente era stata dichiarata inidonea alle mansioni proprie della qualifica e ricollocabile in mansioni amministrative all’esito della visita 21 settembre 2001 USL (OMISSIS) (come da comunicazione del Ministero 5 novembre 2011), e in conseguenza aveva risolto il rapporto di impiego per inidoneità fisica a decorrere dal 6 dicembre 2001.

Aveva ottenuto la liquidazione del trattamento di fine rapporto il 4 settembre 2009 dall’INPDAP, e aveva ricevuto la richiesta di restituzione per cui era causa nel 2009.

3.1. Occorre, quindi, procedere ad un corretto inquadramento giuridico della fattispecie in esame, rilevando che l’indebito retributivo, per cui è causa, deve essere ricondotto nell’ambito dell’art. 2033 c.c., disposizione che non disciplina l’indebito pensionistico, atteso che come affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2006 il regime dell’indebito previdenziale è derogatorio dell’art. 2033 c.c..

3.2. In particolare, per i dipendenti pubblici, la disciplina dell’indebito pensionistico, a cui pure fa riferimento la ricorrente (in ragione della giurisprudenza contabile che richiama), va rinvenuta nel D.P.R. n. 1092 del 1973.

Il D.P.R. n. 1092 del 1973, art. 162, comma 7, stabilisce: “Qualora l’importo della pensione definitiva diretta o di riversibilità risultante dal decreto di concessione registrato alla Corte dei conti non sia uguale a quello attribuito in via provvisoria, la direzione provinciale del tesoro provvede alle necessarie variazioni, facendo luogo al conguaglio a credito o a debito”, e il medesimo D.P.R. n. 1092 del 1973, art. 206, comma 1, sancisce, con riguardo al provvedimento definitivo di pensione: “Nel caso in cui, in conseguenza del provvedimento revocato o modificato, siano state riscosse rate di pensione o di assegno ovvero indennità, risultanti non dovute, non si fa luogo a recupero delle somme corrisposte, salvo che la revoca o la modifica siano state disposte in seguito all’accertamento di fatto doloso dell’interessato”.

3.3. La Corte costituzionale ha ritenuto che al legislatore, che si sia allontanato dal principio civilistico della totale ripetibilità dell’indebito oggettivo (art. 2033 c.c.), deve riconoscersi un ambito di discrezionalità nell’individuazione degli strumenti più idonei a garantire ai pensionati a basso reddito un congruo livello di tutela, in un generale quadro di compatibilità, e fra essi può ben essere annoverata la scelta di collegare la ripetibilità ad un criterio meramente reddituale.

3.4. La stessa Corte dei Conti (Sezioni riunite con la decisione 2/7/2012 n 2/2012/QM) ha chiarito che il potere dell’amministrazione di ripetere l’indebito ai sensi della disciplina del D.P.R. n. 1092 del 1973, deve ritenersi attenuato dal principio del legittimo affidamento del percipiente, e che va, altresì, puntualizzato che il principio dell’affidamento non può ritenersi, a sua volta, affievolito dal potere dell’amministrazione di ripetere l’indebito ai sensi dell’art. 2033 cc, atteso che, sulla base della giurisprudenza della Corte Costituzionale, la regolamentazione della ripetizione dell’indebito pensionistico è tendenzialmente sottratta a quella generale del codice civile, sicchè il suddetto art. 2033 cc non si applica al sottosistema delle pensioni, sia private che pubbliche.

4. Quanto precisato, pone in evidenza che non vi è un’interpretazione difforme dell’art. 2033 c.c., a seconda che si abbia riguardo all’indebito retributivo o all’indebito pensionistico, come prospettato dalla ricorrente sollevando il dubbio di costituzionalità in relazione agli artt. 3 e 38 Cost., ma sussiste l’applicazione di due diversi sistemi di disciplina che regolano fattispecie diverse, atteso che l’art. 2033 c.c., non trova applicazione in materia di recupero pensionistico.

5. Con la sentenza n. 166 del 1996 la Corte costituzionale ha affermato che l’art. 2033 c.c., per se stesso, non è censurabile in riferimento ad alcun parametro costituzionale (nella specie erano invocati l’art. 3 Cost., e art. 38 Cost., comma 2), essendo improntato al principio di giustizia che vieta l’arricchimento senza causa a detrimento altrui. Nel diritto previdenziale questo principio è mitigato da disposizioni ispirate a criteri di equità e di solidarietà, sicchè l’art. 2033, si riduce alla funzione di norma di chiusura, operante nei soli casi non soggetti a discipline speciali.

6. L’art. 2033 c.c., stabilisce “Chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato. Ha inoltre diritto ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno della domanda”.

7. La giurisprudenza di legittimità (Cass., n. 8338 del 2010) ha affermato che “in materia di impiego pubblico privatizzato, nel caso di domanda di ripetizione dell’indebito proposta da una amministrazione nei confronti di un proprio dipendente in relazione alle somme corrisposte a titolo di retribuzione, qualora, risulti accertato che l’erogazione è avvenuta sine titulo, la ripetibilità delle somme non può essere esclusa ex art. 2033 c.c., per la buona fede dell’accipiens, in quanto questa norma riguarda, sotto il profilo soggettivo, soltanto la restituzione dei frutti e degli interessi”.

Con la recente sentenza n. 24835 del 2015 (si cfr. anche le sentenze n. 4230 del 2016 e n. 4086 del 2016, che richiamano il principio sia pure per rilevare il mancato esame di tale profilo da parte del ricorrente) questa Corte ha riaffermato i principi enunciati nella giurisprudenza di legittimità sopra richiamata e ha affermato che “in caso di pubblico impiego privatizzato nel caso di domanda proposta da una amministrazione nei confronti di un proprio dipendente in relazione alle somme corrisposte a titolo di retribuzione, qualora, risulti accertato che l’erogazione sia avvenuta sine titulo, è consentita la ripetibilità delle somme ex art. 2033 c.c., e tale ripetibilità non è esclusa per la buona fede dell’accipiens, in quanto questa norma riguarda, sotto il profilo soggettivo, soltanto la restituzione dei frutti e degli interessi.

8. Ai fini di un compiuto vaglio delle censure della ricorrente, è altresì opportuno ripercorre in breve la giurisprudenza della Corte dei Conti e del Consiglio di Stato, in materia, atteso che a tali orientamenti la ricorrente assume debba conformarsi il giudice ordinario.

9. La Corte dei Conti a Sezioni Riunite, con la sentenza n. 7/2007/QM del 7 agosto 2007, dando primario rilievo al principio dell’affidamento e ai principi affermati dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, in materia di termini del procedimento, aveva affermato il principio di massima secondo cui “in assenza di dolo dell’interessato, il disposto contenuto nel D.P.R. n. 1092 del 1973, art. 162, concernente il recupero dell’indebito formatosi sul trattamento pensionistico provvisorio, deve interpretarsi nell’ambito della disciplina sopravvenuta contenuta nella L. n. 241 del 1990, per cui, a decorrere dall’entrata in vigore della L. n. 241 del 1990, decorso il termine posto per l’emanazione del provvedimento definitivo sul trattamento di quiescenza, non può più effettuarsi il recupero dell’indebito per il consolidarsi della situazione esistente, fondato sull’affidamento riposto nell’Amministrazione”.

Con la successiva sentenza n. 7/2011/QM del 26 maggio 2011, le Sezioni riunite hanno in parte rivisitato il proprio precedente orientamento, ribadendo la vigenza delle norme che consentono all’amministrazione il recupero dei pagamenti non dovuti.

Sulla questione, a seguito di un novellato contrasto, si è nuovamente espressa la Corte dei Conti a Sezioni riunite con la decisione 2/7/2012 n 2/2012/QM. Nella stessa, la Corte dei Conti ha ribadito il diritto-dovere (rectius: il potere) dell’amministrazione di ripetere l’indebito anche dopo la scadenza dei termini del procedimento.

Ciò posto, e ferma restando la sussistenza di tali poteri in capo all’amministrazione anche dopo la scadenza dei termini regolamentari di settore per l’adozione del provvedimento pensionistico definitivo, la Corte dei Conti ha rilevato che va, tuttavia, considerato che, nel rapporto Pubblica amministrazione-cittadino (in specie: cittadino pensionato), alla situazione giuridica di potere dell’amministrazione si contrappone, in capo al pensionato, la situazione giuridica di legittimo affidamento, fondato sull’assenza di dolo e sulla buona fede del percipiente, oltre che sul lungo decorso del tempo.

In considerazione di ciò deve ritenersi che il diritto – dovere (recte: potere) dell’amministrazione di procedere, in sede di conguaglio fra trattamento di pensione provvisoria e trattamento di pensione definitiva, al recupero delle somme indebitamente erogate a titolo provvisorio, anche dopo la scadenza dei termini regolamentari di settore per l’adozione del provvedimento pensionistico definitivo, può essere attenuato dalla situazione di legittimo affidamento del privato consolidatasi attraverso un lungo decorso del tempo, e cioè, la plausibile convinzione, da parte del pensionato, di avere titolo ad un vantaggio conseguito in un arco di tempo tale da persuadere il beneficiario stesso della sua stabilità.

Le Sezioni Riunite hanno ritenuto che il legittimo affidamento del percettore in buona fede dell’indebito matura e si consolida con il protrarsi nel tempo, ed è opponibile dall’interessato, a seconda delle singole fattispecie, sia in sede amministrativa che giudiziaria.

Tale legittimo affidamento, caratterizzato dalla buona fede, secondo la giurisprudenza contabile, consta di tre elementi costitutivi, e precisamente: un elemento oggettivo, consistente in un vantaggio del privato identificabile in maniera chiara ed univoca; un elemento soggettivo, idoneo a rendere l’affidamento “legittimo”, nel senso che il privato deve mostrare una plausibile convinzione di avere titolo all’utilità ottenuta; un elemento temporale, che consente all’affidamento legittimo di diventare pieno e di consolidarsi.

10. Nella giurisprudenza amministrativa, formatasi sui rapporti di lavoro di impiego pubblico non contrattualizzato, accanto ad un orientamento secondo cui il recupero ha carattere di doverosità e costituisce esercizio, ai sensi dell’art. 2033 c.c., di un vero e proprio diritto soggettivo a contenuto patrimoniale, non rinunziabile, in quanto correlato al conseguimento di quelle finalità di pubblico interesse, cui sono istituzionalmente destinate le somme indebitamente erogate, mentre le situazioni di affidamento e di buona fede dei percipienti rileverebbero ai soli fini delle modalità con cui il recupero deve essere effettuato, in modo cioè da non incidere in maniera eccessivamente onerosa sulle esigenze di vita del dipendente (v., ex plurimis, Cons. St., Sez. 3^, 9 giugno 2014, n. 2903), si rinviene altro orientamento (Consiglio di Stato, 6^ sezione, sentenza n. 5315 del 2014, Cons. St., 5^ sezione, 13 aprile 2012, n. 2118) che ha affermato che i suddetti principi giurisprudenziali, pur apparendo condivisibili in linea astratta, non possono essere applicati in via automatica, generalizzata e indifferenziata a qualsiasi caso concreto di indebita erogazione, da parte della pubblica amministrazione, di somme ai propri dipendenti, dovendosi aver riguardo alle connotazioni, giuridiche e fattuali, delle singole fattispecie dedotte in giudizio, tenendo conto della natura degli importi di volta in volta richiesti in restituzione, delle cause dell’errore che aveva portato alla corresponsione delle somme in contestazione, del lasso di tempo trascorso tra la data di corresponsione e quella di emanazione del provvedimento di recupero, dell’entità delle somme corrisposte in riferimento alle correlative finalità.

11. Così ricapitolato il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, si osserva che per la giurisprudenza contabile la non ripetibilità dell’indebito non è connessa al solo decorso del tempo o alla sola buona fede, ma ad una pluralità di fattori che devono concorrere, così come ritiene anche la giurisprudenza amministrativa.

12. Come si è sopra osservato, il motivo di ricorso invoca, in primo luogo, un’interpretazione dell’art. 2033 c.c., che valorizzi i criteri di giudizio messi evidenza dalle altre giurisdizioni. Quindi, si censurano le valutazioni effettuate dalla Corte d’Appello.

13. Il motivo non è fondato.

La motivazione della sentenza di appello, come si è visto, pone in evidenza che il giudice di secondo grado ha operato un accertamento di merito sulla sussistenza della buona fede della ricorrente e sulle condizioni economiche complessive della medesima.

Dunque, il giudice di secondo grado ha fatto un’applicazione dell’art. 2033 c.c., già coerente con i principi invocati dalla ricorrente.

Pertanto, la relativa censura di violazione di legge non è fondata, così come quella di vizio di motivazione in ragione della congruità della stessa.

La Corte d’Appello ha ritenuto, facendole quindi proprie, corrette le argomentazioni del Tribunale che ha escluso la buona fede, in ragione della consapevolezza da parte della ricorrente di avere continuato a percepire il normale stipendio nonostante la stessa si trovasse in aspettativa, situazione in ordine alla quale, secondo criteri certi, la contrattazione collettiva prevede la corresponsione di indennità che è determinata in misura progressivamente ridotta rispetto alla retribuzione, principio quest’ultimo di cui è ragionevole presumere, come assume il giudice di merito, la conoscenza da parte della lavoratrice.

Ha, altresì, rilevato, con accertamento di fatto, che dai documenti sulla capacità reddituale e patrimoniale della ricorrente, in particolare con riguardo alla titolarità di tre immobili, non era dato concludere per la sussistenza di una compromissione irreparabile a fronte di un esborso rateizzato.

Tale accertamento non è stato adeguatamente censurato atteso che la circostanza non è contestata, assumendo la ricorrente che solo due immobili davano reddito, già computato nella dichiarazione dei redditi, mentre quello sito in (OMISSIS) era usato come seconda casa.

In ragione di tali statuizioni, il decorso del tempo, di per sè solo, attesa, peraltro, la disciplina della prescrizione decennale che si applica all’istituto in esame (art. 2946 c.c.), non può rilevare ai fini del legittimo affidamento.

14. Il ricorso deve essere rigettato.

15. Nulla spese in ragione della mancata costituzione dell’Amministrazione.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Nulla spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 23 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2017

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