Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4322 del 20/02/2020

Cassazione civile sez. I, 20/02/2020, (ud. 27/06/2019, dep. 20/02/2020), n.4322

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – rel. Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17716/2018 proposto da:

H.A., elettivamente domiciliato in Napoli, piazza Cavour 139,

presso l’avvocato Luigi Migliaccio, che lo rappresenta e difende in

virtù di procura speciale apposta in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di BOLOGNA, depositato il

04/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

27/06/2019 dal Consigliere Dott.ssa Paola GHINOY.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Bologna rigettava la domanda proposta da H.A., cittadino (OMISSIS), volta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale.

2. Il Tribunale riferiva che il ricorrente, (OMISSIS) originario di (OMISSIS) nel distretto di (OMISSIS), aveva dichiarato di avere lasciato il paese temendo per la propria incolumità a causa degli eventi verificatisi a partire dal mese di agosto del 2015. Lo stesso aveva, in particolare, riferito che il 25 agosto 2015, durante una cerimonia sciita, a cui aveva partecipato insieme al fratello, si era verificato un attacco da parte di fanatici sunniti in cui erano morte tre persone ed altre 20/40 erano rimaste ferite, fra le quali il fratello, poi deceduto a causa delle ferite riportate; che, in relazione a quell’episodio, aveva presentato denuncia alla polizia il giorno dopo l’attentato; che dopo cinque giorni era stato aggredito da altri fanatici (sempre sunniti) e dagli stessi minacciato e che quindi, intimorito dalle minacce, era fuggito dal paese il 9 ottobre 2015, giungendo in Italia il 20 gennaio 2016.

3. Riteneva che il racconto non fosse credibile: il richiedente infatti non aveva compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda, la narrazione aveva subito diverse modifiche nelle diverse sedi in cui era stata resa ed era generica in ordine alle modalità delle minacce che riferiva di avere subito sia prima che dopo l’episodio del 25 agosto 2015; inoltre, conteneva discrasie anche rispetto alla copia della denuncia alla Polizia che aveva prodotto.

4. La scarsa credibilità del richiedente impediva ad avviso del Tribunale di riconoscere sia lo status di rifugiato, sia la protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b).

5. In merito alla valutazione richiesta ai fini dell’applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) argomentava che l’esame delle più recenti d’accreditate country of origin informations (C.O.I.), che richiamava, non evidenziavano l’attuale esistenza nel Punjab di una situazione di violenza indiscriminata derivante dal conflitto armato idonea ad esporre la popolazione civile ad un grave pericolo per la vita l’incolumità fisica per il solo fatto di soggiornarvi, risultando anzi una situazione di episodi di violenza in netta diminuzione rispetto al passato, e ciò anche grazie all’intervento delle forze di sicurezza governativa disposto dopo gli attentati di (OMISSIS) del 27 marzo 2016 che aveva portato ad eseguire circa 180 operazioni di sicurezza contro i militanti radicalizzati.

6. Neppure poteva essere riconosciuta la protezione umanitaria, che postula la sussistenza di una specifica situazione di vulnerabilità, sicchè non poteva avere rilievo di per sè la raggiunta integrazione in Italia (contratto di lavoro a tempo determinato), considerato anche che il richiedente ha ancora legami familiari nel paese di origine.

7. Per la cassazione del decreto H.A. ha proposto ricorso, affidato a quattro motivi, cui il Ministero dell’Interno non ha opposto attività difensiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

8. Con il primo motivo il richiedente deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, aqrt. 8, comma 3 nonchè del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis e art. 737 c.p.c.. Lamenta che il Tribunale abbia violato le disposizioni citate che impongono al giudice della protezione di svolgere un ruolo attivo dell’istruzione della domanda, disancorato dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario mediante l’esercizio di poteri doveri ufficiosi di ampia indagine e acquisizione documentale tenuto conto che il richiedente, cittadino sciita vittima di gravi violenze minacce di carattere religioso, aveva fornito dichiarazioni coerenti credibili ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, comma 5.

9. Come secondo motivo deduce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti relativo al rischio di danno grave rilevante ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria dell’ipotesi indicata al D.Lgs. n. 251 del 2000, art. 14, lett. b.

10. Come terzo motivo deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. g), artt. 3,4,5,6 e art. 14, lett. b), del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e lamenta che il Tribunale abbia ritenuto l’estrema genericità e incoerenza delle dichiarazioni del ricorrente che pure denunciava una situazione idonea ad essere ricompresa nei presupposti per la protezione sussidiaria.

11. Come quarto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e art. 5, comma 6 t.u. immigrazione e lamenta il mancato riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria alla luce della situazione di vulnerabilità denunciata.

12. I primi tre motivi del ricorso non sono fondati.

13. Ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, la situazione socio politica o normativa del paese di provenienza del richiedente protezione è rilevante solo se correlata alla specifica posizione del richiedente stesso, e più specificamente al suo fondato timore di una persecuzione personale e diretta, per l’appartenenza ad un’etnia, associazione, credo politico o religioso, ovvero in ragione delle proprie tendenze e stili di vita e quindi alla sua personale esposizione al rischio di specifiche misure sanzionatorie a carico della sua integrità psico-fisica (cfr. Cass. n. 10177 del 2011, e sulla personalizzazione del rischio, Cass. n. 14157 del 2016, e Cass.n. 30105 del 2018).

14. Con riguardo ai presupposti fattuali per il riconoscimento di tale forma di protezione, come anche dei presupposti richiesti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b) la domanda diretta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (Cass. n. 19197 del 28/09/2015, n. 27336 del 29/10/2018). Il ricorso al Tribunale costituisce atto introduttivo di un giudizio civile, retto dal principio dispositivo: principio che, se nella materia della protezione internazionale viene derogato dalle speciali regole di cui al cit. D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e al D.Lgs. n. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, che prevedono particolari poteri-doveri istruttori (anche) del giudice, non trova però alcuna deroga quanto alla necessità che la domanda su cui il giudice deve pronunciarsi corrisponda a quella individuabile in base alle allegazioni dell’attore. I fatti costitutivi del diritto alla protezione internazionale devono dunque necessariamente essere indicati dal richiedente, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli in giudizio d’ufficio, secondo la regola generale. In difetto di allegazioni circa la sussistenza di ragioni tali da comportare – alla stregua della normativa sulla protezione internazionale – per il richiedente un pericolo di un grave pregiudizio alla persona, in caso di rientro in Patria, la vicenda narrata deve considerarsi di natura strettamente privata, come tale al di fuori dai presupposti per l’applicazione, sia dello status di rifugiato, sia della protezione sussidiaria, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b) (cfr. Cass. 15/02/2018, n. 3758).

15. Nel caso, il Tribunale ha ritenuto non credibile il racconto del richiedente operando una specifica valutazione basata su plurimi elementi che rivelavano la contraddittorietà e genericità di quanto riferito, privo dei dettagli che consentissero di ritenere veritiere sia la stessa situazione personale di militante religioso che le subite aggressioni e minacce in virtù dell’appartenenza alla minoranza religiosa sciita, coerente con gli oneri motivazionali e con i parametri legali di giudizio (D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex art. 3, comma 5).

16. Le circostanze fattuali tali da determinare il pericolo concreto di coinvolgimento in atti di persecuzione nel paese di origine avrebbero dunque dovuto essere dedotte in giudizio dall’attuale ricorrente, che però non vi ha adeguatamente provveduto, come risulta dallo stesso ricorso per cassazione, in cui si allega, al più, la compatibilità del racconto con tale situazione.

17. Nella parte in cui si sostanzia in una censura di merito all’accertamento di fatto compiuto dal Tribunale sulla non credibilità del racconto dello straniero e nella prospettazione di una diversa lettura e interpretazione delle sue dichiarazioni il motivo è inammissibile, considerato che il vizio di motivazione rappresentato dal travisamento di fatti decisivi non è riconducibile al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e la motivazione posta a base della decisione del giudice di merito non è meramente apparente, ma si fonda su un nucleo argomentativo logico che ha evidenziato con coerenza le ragioni dell’inattendibilità della narrazione del ricorrente stesso.

18. Il Giudice di merito ha inoltre correttamente tenuto ben distinto il piano della situazione personale del richiedente da quello della situazione complessiva del Paese di provenienza poichè: a) quanto al primo aspetto, con valutazione non sindacabile in questa sede, ha ritenuto che il racconto del ricorrente fosse privo di credibilità sulla base degli elementi dianzi descritti; b) quanto al secondo aspetto, ha esaminato la situazione del (OMISSIS) come evincibile da report ufficiali aggiornati puntualmente citati in motivazione, ed ha escluso sia una situazione di persecuzione generalizzata nei confronti della minoranza sciita, risultando solo episodi di attacchi terroristici, sia l’esistenza di condizioni rilevanti ai sensi dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) dando atto che la violenza dovuta alle forze terroriste risulta limitato ad alcuni territori ed escludendo dunque la sussistenza, nella zona di provenienza del ricorrente, di una situazione di conflitto armato e quindi di violenza indiscriminata;

19. tale valutazione, compiuta sulla base della pertinente documentazione indicata, attiene al merito della controversia e si sottrae al sindacato di legittimità di questa Corte, nè il motivo fa riferimento a circostanze fattuali decisive di segno diverso che sarebbero state ignorate.

20. Infondato è poi il quarto motivo, che lamenta il mancato riconoscimento della protezione umanitaria, secondo la normativa anteriore alla modifica operata con il decreto L. 4 ottobre 2018, n. 113, convertito in L. n. 132 del 2018.

E’ evidente infatti che l’attendibilità e la rilevanza della narrazione dei fatti che hanno indotto lo straniero a lasciare il proprio Paese svolge un ruolo rilevante anche ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, atteso che ai fini di valutare se il richiedente abbia subito nel paese d’origine una effettiva e significativa compromissione dei diritti fondamentali inviolabili, pur partendo dalla situazione oggettiva del paese d’origine, questa deve essere necessariamente correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza, secondo le allegazioni del richiedente (Cass. 4455/2018), la cui attendibilità soltanto consente l’attivazione dei poteri officiosi. La rilevanza e la inattendibilità di quanto narrato dall’istante è stata, peraltro, esclusa, nel caso di specie, per i motivi suesposti.

21. Nessuna rilevanza può, inoltre, attribuirsi di per sè al contratto lavoro e all’integrazione raggiunta in Italia, in difetto di elementi di comparazione di segno negativo, che evidenzino una compromissione dei diritti umani che attenderebbe l’immigrato in caso di ritorno in patria. Questa Corte ha chiarito (v. Cass.23/02/2018, n. 4455 e successive conformi) che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, (nel testo operante ratione temporis) al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza.

22. Non può essere dunque riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza, atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (Cass. 28/06/2018, n. 17072)

23. Segue coerente il rigetto del ricorso.

24. Non vi è luogo a pronuncia sulle spese, in assenza di attività difensiva della parte intimata.

25. Sussistono i presupposti per l’applicazione del doppio contributo di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, non risultando il richiedente ammesso al patrocinio a spese dello Stato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, ove dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 27 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2020

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