Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4321 del 18/02/2021

Cassazione civile sez. trib., 18/02/2021, (ud. 04/11/2020, dep. 18/02/2021), n.4321

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

Dott. PANDOLFI Catello – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 8107/2015 R.G. proposto da:

F.L., rappresentata e difesa, giusta procura in calce al

ricorso, dall’Avv. Alessandro Giovannini e dall’Avv. Valerio Cioni,

unitamente ma con poteri disgiunti, elettivamente domiciliata presso

lo studio del secondo, in Roma, Via degli Scipioni n. 268/a;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Distrettuale dello

Stato e presso i cui uffici domicilia in Roma, alla Via dei

Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Toscana, n. 1614/23/2014, depositata il 2 settembre 2014.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 4 novembre

2020 dal Consigliere Luigi D’Orazio.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. La Commissione tributaria regionale della Toscana, sezione distaccata di Livorno, rigettava sia l’appello principale di F.L., che gestiva un bar-ristorante self service, in affitto di azienda, all’interno di uno stabilimento balneare, sia l’appello incidentale della Agenzia delle entrate, avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Livorno (82/1/2013), che aveva accolto solo in parte il ricorso della contribuente contro l’avviso di accertamento emesso, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), nei suoi confronti dalla Agenzia delle entrate, per l’anno 2006, con cui erano stato determinati maggiori ricavi in base all’applicazione del listino prezzi della Confcommercio, avendo la F. dichiarato nel 2005 un reddito di appena Euro 6.066,00, a fronte di ricavi per Euro 211.380,00 e nel 2006 una perdita di Euro 22.666,00 a fronte di un volume di affari di Euro 266.038,00. Il primo giudice aveva ritenuto che l’autoconsumo, pure considerato dalla Agenzia delle entrate, doveva essere calcolato per intero e non nella misura della metà, mentre occorreva tenere conto anche dei pasti riservati al personale dello stabilimento, sulla base della fattura emessa a fine stagione dalla ditta N., gestore dello stabilimento, con aumento dei costi e riduzione del volume di affari. Il giudice di appello, poi, rigettava entrambi gli appelli, in quanto il reddito dichiarato dalla contribuente non era congruo, in relazione al fatto che la stessa svolgeva in maniera fissa e continuativa l’attività all’interno di una azienda con notevole volume di affari e numerosi dipendenti, sicchè non era credibile che l’unico soggetto a non percepire sostanzialmente redditi fosse proprio l’imprenditore. Era stata, comunque, raggiunta la prova dei pasti forniti sia per autoconsumo sia ai dipendenti dello stabilimento.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la contribuente.

3. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Con il primo motivo di impugnazione la contribuente deduce la “violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, nonchè dell’art. 132 c.p.c.: per illegittima motivazione per relationem alla sentenza di primo grado, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, in quanto il giudice di appello si sarebbe limitato a richiamare la sentenza di prime cure, senza alcun vaglio critico delle risultanze processuali.

1.1. Tale motivo è infondato.

1.2. Invero, la sentenza della Commissione regionale, non si è limitata a richiamare la decisione di prime cure, ma ha spiegato in modo sufficiente le ragioni per cui rigettava l’appello della contribuente, che chiedeva l’annullamento integrale dell’avviso di accertamento. In particolare, il giudice di appello ha chiarito che sulla base delle risultanze processuali il reddito dichiarato dalla contribuente negli anni 2005 (Euro 6.066,00) e 2006 (perdita per Euro 22.666,00) era inconciliabile con lo svolgimento della sua attività di bar-ristorante self service, svolta in affitto di azienda e posta all’interno di uno stabilimento balneare, in presenza di un notevole volume di affari e di numerosi dipendenti. Pertanto, “non è minimamente credibile che l’unico soggetto a non percepire di fatto un reddito fosse proprio l’imprenditore”.

Aggiunge il giudice di appello che non era credibile che l’imprenditore non fosse riuscito a rintracciare il listino prezzi della Confcommercio, anche perchè la contribuente non era stato in grado di indicare il listino prezzi applicato nel suo locale. La Commissione regionale aggiunge che l’Agenzia delle entrate, per precauzione, ha applicato le massime percentuali di scarto dei prodotti e non ha considerato i ricavi provenienti dalla vendita di affettati, contorni, frutta, aperitivi, dolci, patatine, alcolici e superalcolici, pur presenti in notevole quantità nella fatture di acquisto.

Come si vede, la motivazione chiarisce il proprio percorso argomentativo in piena autonomia rispetto alla decisione di prime cure.

2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduca la “violazione dell’art. 111 Cost., per avere la sentenza un ingiustificato carattere equitativo rispetto all’oggetto del contendere con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, in quanto il giudice di appello al termine della motivazione, nella parte riservata alla decisione sulle spese di lite, ha affermato che il processo tributario “presenta elementi, insieme, di sommarietà e di equità”. Il rinvio ad un generico principio di equità minerebbe alla base la sentenza di appello, non avendo la stessa fondato la sua decisione su concreti elementi di fatto. Non sarebbe ravvisabile il passaggio dalla parte “statica” della motivazione, cioè dal giudizio come risultato dell’attività di acquisizione della conoscenza intorno all’oggetto, alla parte “dinamica”, ossia la nassazione del passaggio del giudice dalla condizione iniziale di ignoranza alla condizione finale di conoscenza espressa nel giudizio.

2.1. Tale motivo è infondato.

2.2. Invero, come detto, la motivazione della Commissione regionale, pur se sintetica, chiarisce in modo limpido le ragioni del rigetto dell’appello della contribuente che avrebbe voluto conseguire l’annullamento integrale dell’avviso di accertamento.

Il giudice di appello ha, però, congruamente evidenziato che era poco credibile che la contribuente, che gestiva un bar-ristorante self service, all’interno di uno stabilimento balneare di rilevanti dimensioni e con numerosi dipendenti, potesse dichiarare un reddito inferiore a quello degli stessi dipendenti. Il giudice di appello ha anche messo in evidenza che già l’Agenzia delle entrate aveva svolto un accertamento “equilibrato”, non avendo conteggiato una serie di prodotti rinvenuti all’interno del bar e riportati nelle fatture di acquisto.

Il riferimento all’equità è limitato solo alla decisione in ordine alle spese di lite e, quindi, non ha costituito la guida del giudice per giungere alla decisione della controversia.

3. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “violazione dell’art. 115 c.p.c., e dell’art. 2697 c.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto la Commissione tributaria nell’affermare che il “reddito non sarebbe stato provato” sarebbe incorsa in errore, perchè l’incombenza dell’onere probatorio nel processo tributario non si discosta da quello che regola il processo civile, e cioè che al convenuto (ossia al contribuente) spetta l’allegazione dei fatti impediti, modificativi ed estintivi della pretesa azionata dall’Ufficio. In particolare, non spetta al contribuente fornire la prova in ordine al proprio reddito come invece erroneamente affermato dal giudice di merito. Inoltre, il giudice di appello avrebbe violato l’art. 115 c.p.c., non avendo tenuto conto dell’allegato bollettino meteo, atto a dimostrare che “quando piove le persone non vanno al mare”.

3.1. Tale motivo è infondato.

Invero, a prescindere dalla imprecisione terminologica contenuta nella motivazione della sentenza (“sulla base delle risultanze processuali acquisite in atti il reddito dichiarato dalla sig. F. non risulta congruamente provato posto che la stessa svolgeva in maniera fissa e continuativa l’attività all’interno di un’azienda con notevole volume di affari e numerosi dipendenti”), nel corpo della motivazione v’è stata una corretta applicazione del regime di riparto dell’onere della prova.

In realtà, la parte di motivazione in cui il giudice di appello scrive che il reddito della contribuente “non risulta congruamente provato” va collegata a quella immediatamente successiva, sicchè il termine “provato”, va inteso come reddito “congruo”, in relazione alla posizione della sua attività commerciale, sita all’interno di uno stabilimento balneare di rilevanti dimensioni, con notevole volume di affari e numerosi dipendenti.

Non v’è stato un ribaltamento dell’onere della prova a carico della contribuente, tanto che nel prosieguo il giudice di appello rileva che l’Agenzia delle entrate, nel dimostrare i redditi maggiori della F., non ha, a titolo di precauzione, tenuto conto di vari prodotti, pure rinvenuti nel bar e risultanti dalle fatture di acquisto. Sempre, in via precauzionale l’Agenzia ha tenuto conto dei beni destinati ad autoconsumo ed al personale dello stabilimento.

Pertanto, è evidente che l’onere della prova di dimostrare la sussistenza di redditi maggiori rispetto a quelli dichiarati è stato posto a carico della Agenzia delle entrate.

Quanto alla prospettata violazione del principio di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c., il motivo è inammissibile, non avendo indicato in alcun modo la ricorrente il contenuto preciso del bollettino meteo pure richiamato; sicchè non si comprende in alcun modo la rilevanza del documento, nè si è chiarito in quale momento della controversia sia stato prodotto nè l’atteggiamento processuale della controparte a fronte della produzione dello stesso.

Infatti, per questa Corte il principio di non contestazione opera in relazione a fatti che siano stati chiaramente esposti da una delle parti presenti in giudizio e non siano stati contestati dalla controparte che ne abbia avuto l’opportunità: pertanto, la parte che lo deduca in sede di impugnazione è tenuta ad indicare specificamente in quale atto processuale il fatto sia stato esposto, al fine di consentire al giudice di verificarne la chiarezza e se la controparte abbia avuto occasione di replicare (Cass., sez. 5, 6 dicembre 2018, n. 31619).

4. Con il quarto motivo di impugnazione la ricorrente deduce la “violazione dell’art. 112 c.p.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, in quanto il giudice di appello non ha tenuto conto del “preciso calcolo numerico” prodotto dalla contribuente, teso a dimostrare l’erroneità dei ricavi ricostruiti dall’ufficio. La ricorrente trascrive il prospetto corretto dei calcoli, con il quale, tra l’altro, varia il valore dell’autoconsumo, portato da Euro 12.500,00 (nel prospetto redatto dalla Agenzia delle entrate), ad Euro 25.000,00 ed aggiunge, come costo aggiuntivo, la somma di Euro 7.428,00 relativa alla “Convenzione stabilimento balneare”, non contenuta nel prospetto dell’Ufficio. Inoltre, con lo stesso prospetto riduce tutte le voci dei ricavi. Il giudice di appello avrebbe omesso qualsiasi tipo di pronuncia sulla questione, incorrendo nel vizio di infrapetizione.

4.1. Tale motivo è infondato.

Invero, vi è omessa pronuncia quando il giudice omette di decidere su una domanda presentata dalla parte, ma non quando il giudice ometta di valutare un documento prodotto dalle parti in giudizio. In tal caso, infatti, dovrebbe essere dedotto un vizio di motivazione, ovviamente nel solo caso in cui l’omesso esame attenga ad un documento decisivo per il giudizio.

Infatti, per questa Corte il vizio di omessa pronuncia che determina la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., rilevante ai fini di cui all’art. 360 cit. codice, n. 4, si configura esclusivamente con riferimento a domande, eccezioni o assunti che richiedano una statuizione di accoglimento o di rigetto, e non anche in relazione ad istanze istruttorie per le quali l’omissione è denunciabile soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione (Cass., sez. L., 18 marzo 2013, n. 6715; Cass., sez. 6-1, 5 luglio 2016, n. 13716).

Nella specie, la contribuente si è limitata a produrre una foglio di calcolo con l’indicazione di redditi minori e di costi maggiori o aggiuntivi.

Il giudice di appello però, nel confermare la sentenza di prime cure, ha implicitamente rigettato ogni domanda della contribuente; senza contare, come detto, che in questo caso, non vi è stata una omessa pronuncia su una domanda, ma, al più, vi sarebbe stata una mancata valutazione di un documento, che avrebbe richiesto una censura della motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come modulato dopo le modifiche di cui al D.L. n. 83 del 2012, in vigore per le sentenze pubblicate a decorrere dall’11 settembre 2012, ed applicabile quindi al caso in esame, in cui la sentenza della CTR è stata depositata il 2 settembre 2014.

5. Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico della ricorrente, per il principio della soccombenza, e si liquidano come da dispositivo.

PQM

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi Euro 4.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 4 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 febbraio 2021

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