Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4319 del 20/02/2020

Cassazione civile sez. I, 20/02/2020, (ud. 27/06/2019, dep. 20/02/2020), n.4319

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – rel. Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11650/2018 proposto da:

H.A., elettivamente domiciliato in Firenze, via Antonio

Gramsci n. 22, presso lo studio dell’avv. Rosa Vignali, che lo

rappresenta e difende in virtù di procura speciale apposta in calce

al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, elettivamente domiciliato in Roma Via Dei

Portoghesi 12 presso l’Avvocatura Generale Dello Stato, che lo

rappresenta e difende ex lege;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di BOLOGNA, depositato il

08/03/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

27/06/2019 dal Consigliere Dott.ssa Paola GHINOY.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Bologna rigettava la domanda proposta da H.A., proveniente dal (OMISSIS), volta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale.

2. Il Tribunale riferiva che il richiedente aveva dichiarato di essere nato nella regione del (OMISSIS), distretto di (OMISSIS), villaggio di (OMISSIS), ove aveva vissuto con la famiglia. Aveva contratto debiti per pagare l’affitto e per mangiare perchè l’unico che lavorava era lui mentre il padre stava male. Non riuscendo a pagare il debito, erano andati davanti al giudice per chiedere un pò di tempo per pagare i creditori, ma non essendo riusciti a pagare i creditori avevano fatto denuncia alla polizia che successivamente aveva arrestato il padre, rimasto per quattro giorni negli uffici della polizia prima di essere liberato e di tornare a casa. I creditori poi li minacciavano perchè volevano i soldi e li disturbavano e li picchiavano. Erano andati a fare la denuncia ma la polizia voleva soldi e loro non avevano pagato, quindi la polizia non aveva fatto nulla. Da quel giorno egli era scappato ed era andato a Islamabad per lavorare, ma i creditori avevano saputo dove lavorava e si recavano ogni giorno a casa sua. Successivamente era scappato dal (OMISSIS) passando per l’Iran per giungere finalmente in Italia.

3. Il Tribunale riteneva innanzitutto che il racconto non fosse credibile, essendo generico e privo dei riscontri in particolare in merito alle asserite minacce e violenze dei creditori.

4. Il racconto era poi contraddittorio in ordine alla mancanza di protezione da parte della Polizia, alla quale in un primo momento il richiedente aveva negato di essersi rivolto, mentre successivamente aveva detto di essersi rivolto senza esito. Non plausibili erano altresì le dichiarazioni laddove riferiva che i creditori lo avevano trovato dopo che si era trasferito ad Islamabad.

5. La mancanza di credibilità del richiedente escludeva il riconoscimento dello status di rifugiato nonchè di una situazione tale da determinare la protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b).

6. In merito alla valutazione richiesta ai fini dell’applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) il Tribunale argomentava che l’esame delle più recenti d’accreditate country of origin informations (C.O.I.), che richiamava, non evidenziavano nella regione del (OMISSIS) alcun tipo di conflitto armato in corso, tale da poter porre in serio pericolo l’incolumità della popolazione civile.

7. Neppure poteva essere riconosciuta la protezione umanitaria, che richiede la sussistenza di una specifica situazione di vulnerabilità, non potendo il reperimento di un’attività lavorativa di per sè solo rappresentare il fattore ostativo al rimpatrio, considerata anche la breve permanenza in Italia che esclude un effettivo radicamento nel territorio.

8. Per la cassazione del decreto H.A. ha proposto ricorso, affidato a tre motivi, cui il Ministero dell’Interno ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

9. Il richiedente deduce come primo motivo la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e lamenta che il Tribunale non abbia applicato il principio dell’onere della prova attenuato così come affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 27310 del 2008 e non abbia valutato la sua credibilità alla luce dei parametri stabiliti dalle norme richiamate.

10. Come secondo motivo deduce la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 14 in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7 e lamenta che la situazione privata e familiare ivi denunciata non sia stata considerata idonea a accordare la protezione internazionale richiesta, essendo egli vittima di comportamenti violenti da parte dei privati a fronte dei quali l’apparato di potere non ha inteso reagire o comunque reagire adeguatamente.

11. Come terzo motivo deduce la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2005, art. 32 in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6. Lamenta che il Tribunale non abbia valorizzato la situazione di difficoltà derivante dalla precaria situazione ambientale della zona di provenienza, che al ritorno in patria lo esporrebbe ad una situazione di vulnerabilità sradicandolo dall’Italia e togliendogli la fonte di sostentamento.

12. Il ricorso non è fondato.

13. La domanda diretta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (Cass. n. 19197 del 28/09/2015, n. 27336 del 29/10/2018). Il ricorso al Tribunale costituisce atto introduttivo di un giudizio civile, retto dal principio dispositivo: principio che, se nella materia della protezione internazionale viene derogato dalle speciali regole di cui al cit. D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e al D.Lgs. n. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, che prevedono particolari poteri-doveri istruttori (anche) del giudice, non trova però alcuna deroga quanto alla necessità che la domanda su cui il giudice deve pronunciarsi corrisponda a quella individuabile in base alle allegazioni dell’attore. I fatti costitutivi del diritto alla protezione internazionale devono dunque necessariamente essere indicati dal richiedente, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli in giudizio d’ufficio, secondo la regola generale. In difetto di allegazioni circa la sussistenza di ragioni tali da comportare alla stregua della normativa sulla protezione internazionale – per il richiedente un pericolo di un grave pregiudizio alla persona, in caso di rientro in Patria, la vicenda narrata deve considerarsi di natura strettamente privata, come tale al di fuori dai presupposti per l’applicazione, sia dello status di rifugiato, sia della protezione sussidiaria, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b) del (cfr. Cass. 15/02/2018, n. 3758).

14. Nel caso, il Tribunale si è attenuto al principio secondo il quale le liti tra privati per ragioni economiche non possono essere addotte come causa di persecuzione o danno grave, nell’accezione offerta dal D.Lgs. n. 251 del 2007, trattandosi di “vicende private” estranee al sistema della protezione internazionale, non rientrando nè nelle forme dello “status” di rifugiato, (art. 2, lett. e), nè nei casi di protezione sussidiaria, (art. 2, lett. g), atteso che i c.d. soggetti non statuali possono considerarsi responsabili della persecuzione o del danno grave ove lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, comprese le organizzazioni internazionali, non possano o non vogliano fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi. Nel caso peraltro, il Tribunale ha ritenuto non credibile il racconto nella parte in cui il richiedente assumeva di avere di fatto richiesto protezione agli organi pubblici e che questa fosse stata negata.

15. Le circostanze fattuali tali da determinare il pericolo di coinvolgimento in atti di persecuzione nel paese di origine avrebbe dunque dovuto essere dedotto in giudizio dall’attuale ricorrente, che però non vi ha adeguatamente provveduto, come risulta dallo stesso ricorso per cassazione, in cui si allega, al più, la compatibilità del racconto con tale situazione.

16. Nella parte in cui i motivi si sostanziano in una censura di merito all’accertamento di fatto compiuto dal Tribunale e nella prospettazione di una diversa lettura e interpretazione delle sue dichiarazioni essi sono poi inammissibili, considerato che il vizio di motivazione rappresentato dal travisamento di fatti decisivi non è riconducibile al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e la motivazione posta a base della decisione del giudice di merito non è meramente apparente, ma si fonda su un nucleo argomentativo logico che ha evidenziato con coerenza le ragioni dell’inattendibilità della narrazione del ricorrente stesso.

17. Infondato è parimenti il motivo nella parte in cui lamenta il mancato riconoscimento della protezione umanitaria, secondo la normativa anteriore alla modifica operata con il decreto L. 4 ottobre 2018 n. 113, convertito in L. n. 132 del 2018.

18. E’ evidente infatti che l’attendibilità e la rilevanza della narrazione dei fatti che hanno indotto lo straniero a lasciare il proprio Paese svolge un ruolo rilevante anche ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, atteso che ai fini di valutare se il richiedente abbia subito nel paese d’origine una effettiva e significativa compromissione dei diritti fondamentali inviolabili, pur partendo dalla situazione oggettiva del paese d’origine, questa deve essere necessariamente correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza, secondo le allegazioni del richiedente (Cass. 4455/2018), la cui attendibilità soltanto consente l’attivazione dei poteri officiosi. La rilevanza e l’attendibilità di quanto narrato dall’istante sono state, peraltro, escluse, nel caso di specie, per i motivi suesposti.

19. Nessuna rilevanza può, inoltre, attribuirsi di per sè al percorso di integrazione in Italia, in difetto di elementi di comparazione di segno negativo, che evidenzino una compromissione dei diritti umani che attenderebbe l’immigrato in caso di ritorno in patria. Questa Corte ha infatti chiarito (v. Cass.23/02/2018, n. 4455 e successive conformi) che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza.

20. Non può essere dunque riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza, atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (Cass. 28/06/2018, n. 17072).

21. Segue coerente il rigetto del ricorso.

22. Le spese seguono la soccombenza.

23. Non sussistono i presupposti per l’applicazione del doppio contributo di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, risultando il richiedente ammesso al patrocinio a spese dello Stato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alle spese del giudizio, liquidate in complessivi Euro 2.100,00 per compensi, oltre alle spese generali nella misura del 15% e alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto dell’insussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 27 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2020

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