Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4312 del 24/02/2014


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Civile Ord. Sez. 6 Num. 4312 Anno 2014
Presidente: MAMMONE GIOVANNI
Relatore: MAROTTA CATERINA

ORDINANZA
sul ricorso 24283-2012 proposto da:
AZIENDA OSPEDALIERO UNIVERSITARIA CONSORZIALE
POLICLINICO DI BARI 04846410720, in persona del Direttore
Generale pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA
BARBERINI 12, presso lo studio dell’avvocato UGO PATRONI
GRIFFI, rappresentata e difesa dall’avvocato ALESSANDRO
DELLE DONNE giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente contro
SALOMONE ANTONIO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA
RAFFAELE CAVERNI, 6, presso lo studio dell’avvocato MICHELE
DI CARLO, rappresentato e difeso dall’avvocato FABIO
CANDALICE giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controrkorrente –

Data pubblicazione: 24/02/2014

avverso la sentenza n. 1167/2012 della CORTE DI APPELLO di
BARI del 21/02/2012, depositata il 17/04/2012;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
16/01/2014 dal Consigliere Relatore Dott. CATERINA MAROTTA;
udito l’Avvocato ALESSANDRO DELLE DONNE difensore della

udito l’Avvocato FABIO CANDALICE difensore del
controricorrente che si riporta agli scritti.
1 – Considerato che è stata depositata relazione del seguente
contenuto:
“Con ricorso al Tribunale di Bari, Antonio Salomone, dipendente
dell’Azienda Ospedaliera “Ospedale Policlinico Consorziale di Bari”,
chiedeva il riconoscimento del proprio diritto al pagamento, a titolo
risarcitorio, di una somma per la mancata fruizione del servizio mensa
o di adeguate modalità sostitutive del medesimo, per le giornate di
effettivo servizio prestate dalla data di istituzione dell’Azienda e fino
all’1/5/2001 e cioè fino a quando era stata prevista la possibilità di una
fruizione del servizio mensa in convenzione presso una mensa
pubblica esterna. Il Tribunale rigettava la domanda. A seguito di
impugnazione da parte del lavoratore, la Corte di appello di Bari, in
riforma della sentenza di primo grado, riconosceva in favore del
ricorrente e per un determinato periodo temporale una somma
quantificata sulla base di una consulenza tecnica di parte e con
l’applicazione parametrica ed equitativa dei criteri di cui ad un accordo
sindacale sottoscritto dall’azienda in data 29/3/2001. Riteneva la Corte
barese non meritevole di considerazione l’eccepito difetto di
giurisdizione, infondata l’eccezione di prescrizione e, in quanto
sussistente il diritto alla mensa, legittima la pretesa risarcitoria con

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ricorrente che si riporta agli scritti e chiede l’accoglimento del ricorso;

riguardo alle giornate in cui era risultata espletata l’attività lavorativa
nelle fasce orarie indicate in sede del citato accordo sindacale.
Propone ricorso per cassazione l’Azienda Ospedaliero
Universitaria Consorziale affidando l’impugnazione a sei motivi.
Resiste con controricorso il Salomone.

applicazione dell’art. 33 d.P.R. n. 270/1987, dell’art. 37 cod. proc. civ.,
in relazione all’art. 360, nn. 1, 3 e 4, cod. proc. civ.. Si duole della
ritenuta sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario senza che
si tenesse conto del fatto che affermare la sussistenza di un diritto
soggettivo perfetto, la cui lesione sarebbe risarcibile per equivalente,
aveva determinato il superamento dei limiti interni imposti dall’art. 4
della legge n. 2248/1865, all. E. Evidenzia che l’introduzione del
servizio mensa rientra nell’ambito dei poteri organizzativi del datore di
lavoro pubblico e ciò pur a seguito della privatizzazione del rapporto
di lavoro e che con riguardo all’esercizio di poteri provvedimentali e
discrezionali (collegati alla disponibilità di risorse, ovvero all’assetto
organizzativo dell’Azienda), è tutt’al più configurabile una violazione di
interessi legittimi, giammai di diritti soggettivi.
2.

Il motivo è manifestamente inammissibile in quanto

inconferente con il decisum della Corte territoriale basato sulla
intervenuta preclusione della questione della giurisdizione. Ciò ha fatto
correttamente applicando il principio, più volte espresso da questa
Corte, secondo cui, allorché il giudice di primo grado abbia
pronunciato nel merito affermando, anche implicitamente, la propria
giurisdizione e le parti abbiano prestato acquiescenza, non contestando
la relativa sentenza sotto tale profilo, non è consentito al giudice della
successiva fase impugnatoria rilevare d’ufficio il difetto di
giurisdizione, trattandosi di questione ormai coperta dal giudicato
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1. Con il primo motivo l’Azienda lamenta la violazione e la falsa

implicito (così Cass. 20 marzo 2013, n. 6966; id. 28 settembre 2011 n.
19792). Peraltro, allorché il giudice di primo grado abbia pronunciato
nel merito, affermando, anche implicitamente, la propria giurisdizione,
come pure correttamente ritenuto dalla Corte territoriale la parte che
intende contestare tale riconoscimento è tenuta a proporre appello sul

parte vittoriosa (così Cass. Sez. Un. 28 gennaio 2011, n. id. 23 febbraio
2012 n. 2752). In mancanza, l’esame della relativa questione è precluso
in sede di legittimità, essendosi formato il giudicato implicito sulla
giurisdizione.
3. Con il secondo motivo l’Azienda lamenta la violazione e la falsa
applicazione dell’art. 69 del d.lgs. n. 165/2001, dell’art. 37 cod. proc.
civ., degli artt. 2968 e 2969 cod. civ. in relazione all’art. 360, nn. 1, 3 e
4, cod. proc. civ.. Rileva che i fatti posti dal ricorrente a base della
domanda risalgono prevalentemente al 1995 e quindi ad epoca
anteriore al 30/6/1998, il che inibisce al giudice ordinario di conoscere
nel merito della controversia de qua.
4. Il motivo, oltre ad essere inammissibile per quanto evidenziato
al punto sub 2, è anche manifestamente infondato alla luce del
principio espresso da questa Corte a sezioni unite (Cass., Sez. Un., 23
novembre 2012, n. 20726; id. 23 marzo 2013 n. 7524) secondo cui in
tema di pubblico impiego contrattualizzato, nel regime transitorio di
devoluzione del contenzioso alla giurisdizione del giudice ordinario, il
disposto dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001 – secondo cui
sono attribuite al giudice ordinario le controversie di cui all’art. 63 del
decreto medesimo relative a questioni attinenti al periodo del rapporto
di lavoro successivo al 30 giugno 1998 e restano attribuite alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie
relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore
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punto, eventualmente in via incidentale condizionata, trattandosi di

a tale data – stabilisce, come regola, la giurisdizione del giudice
ordinario, per ogni questione che riguardi il periodo del rapporto
successivo al 30 giugno 1998 o che parzialmente investa anche il
periodo precedente, ove risulti essere sostanzialmente unitaria la
fattispecie dedotta in giudizio, e lascia residuare, come eccezione, la

riguardino unicamente il periodo del rapporto compreso entro la data
suddetta.
5. Con il terzo motivo l’Azienda lamenta la violazione e la falsa
applicazione dell’art. 33 d.P.R. n. 270/1987, dell’art. 2697 cod. civ., in
relazione all’art. 360, n. 3 cod. proc. civ.. Si duole della erronea
interpretazione del citato art. 33 che non riconosce sic et simpliciter il
diritto alla mensa per il solo fatto di espletare la propria attività
lavorativa ma attribuisce lo stesso solo se vi sia stata una “particolare”
articolazione dell’orario di lavoro. Si duole, altresì, dell’avvenuto
riconoscimento del diritto in contestazione senza che il dipendente
avesse fornito la prova della ricorrenza dei relativi presupposti, con
particolare riferimento all’articolazione dell’orario di lavoro prestato.
6. Il motivo è manifestamente infondato alla luce di quanto da
questa Corte già evidenziato nella decisione a sezioni unite del 9
novembre 2012, n. 19388, resa in analoga vicenda. Si consideri, infatti,
che la Corte territoriale, a mezzo del richiamo all’accordo sindacale del
29/3/2001 ed alle fasce orarie ivi specificate, ha circoscritto il diritto
alle ipotesi di particolare articolazione dell’orario di lavoro. Inoltre
nella sentenza impugnata si fa riferimento al contenuto dei prospetti
mensili prodotti in sede di giudizio di appello (a fronte di una iniziale
inottemperanza da parte della datrice di lavoro di fornire la suddetta
documentazione al lavoratore deducente in tempo utile a consentirne il
deposito in uno con il ricorso introduttivo del giudizio) ed alla verifica,
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giurisdizione del giudice amministrativo, per le sole questioni che

sulla base degli stessi, delle articolazioni orarie di cui al citato accordo
sindacale. La doglianza, sul punto, si risolve nella richiesta di un nuovo
sindacato in fatto, inammissibile in questa sede. Ed infatti, a fronte
dell’articolata motivazione, in base alla quale il giudice a quo ha dato
conto della ricorrenza delle condizioni del diritto controverso

puntuale lettura della disposizione di cui all’art. 33 del d.P.R. n.
270/1987) e della prova dei relativi presupposti (anche in relazione
all’articolazione dell’orario di lavoro) con gli indicati motivi di ricorso,
l’Azienda Ospedaliera, pur apparentemente prospettando violazioni di
legge e carenze di motivazione, tende, in realtà, a rimettere in
discussione, contrapponendovene uno difforme, l’apprezzamento in
fatto del giudice di merito, che, in quanto basato sull’analitica disamina
degli elementi di valutazione disponibili ed espresso con motivazione
immune da lacune o vizi logici, si sottrae al giudizio di legittimità.
Nell’ambito di tale giudizio, non è conferito il potere di riesaminare e
valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il
profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la
valutazione fatta dal giudice del merito, restando a questo riservate
l’individuazione delle fonti del proprio convincimento e, all’uopo, la
valutazione delle prove, il controllo della relativa attendibilità e
concludenza nonché la scelta, tra le risultanze probatorie, di quelle
ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr. Cass. 22901/05,
15693/04, 11936/03).
7. Con il quarto motivo l’Azienda lamenta la violazione e la falsa
applicazione dell’art. 345 cod. proc. civ., muta/io libelli, in relazione
all’art. 360, n. 3 e 5 cod. proc. civ.. Si duole del mancato esame da
parte della Corte territoriale della eccezione formulata dall’azienda in

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(ricostruendo la posizione giuridica soggettiva sulla base di una

sede di giudizio di appello della intervenuta mutatio libelli ad opera
dell’appellante.
8. Il motivo è manifestamente inammissibile per difetto di
auto sufficienz a.
La ricorrente non riproduce né il contenuto dell’atto di

costituzione dell’azienda appellata impedendo a questa Corte la
valutazione della decisività del rilievo che, come è noto, deve essere
svolta sulla base delle sole deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune
non è possibile sopperire con indagini integrative.
9. Con il quinto motivo l’Azienda lamenta la violazione e la falsa
applicazione degli artt. 2113 e 1362 cod. civ., in relazione all’art. 360, n.
3 e 5 cod. proc. civ. nonché insufficiente motivazione circa un punto
decisivo della controversia (validità della rinuncia e della transazione).
10. Il motivo è manifestamente infondato.
La Corte territoriale ha compiutamente esposto le ragioni in base
alle quali ha ritenuto che, nella specie, il lavoratore avesse determinato
l’automatica caducazione dell’atto di rinuncia con l’impugnativa della
stessa e la notifica del ricorso interruttivo del giudizio, atti intervenuti
in costanza del rapporto di lavoro e, quindi, nella irrilevanza del
termine decadenziale di cui al secondo comma dell’art. 2113 cod. civ..
Ciò ha fatto innanzitutto correttamente considerando rientrante nella
tutela di cui a tale norma il diritto in questione, in quanto derivante,
come ivi previsto, “dalla legge o dal contratto collettivo”. Si ricorda, al
riguardo, che diritti di natura retributiva o risarcitotia indisponibili da
parte del lavoratore non devono ritenersi soltanto quelli correlati alla
lesione di diritti fondamentali della persona, atteso che la ratio dell’art.
2113 cod. civ. consiste nella tutela del lavoratore, quale parte più
debole del rapporto di lavoro, la cui posizione in via ordinaria viene
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transazione, né quello del ricorso in appello e della comparsa di

disciplinata attraverso norme inderogabili, salvo che vi sia espressa
previsione contraria (così Cass. 12 febbraio 2004, n. 2734). In modo
egualmente corretto i giudici di appello hanno applicato il principio
espresso da questa Corte secondo cui ai fini dell’impugnativa di cui
all’art. 2113 cod. civ. non è necessaria la richiesta di annullamento

di liberarsi dai vicoli derivanti dall’atto compiuto sulla base di una
semplice manifestazione di volontà, alla quale si collega direttamente
l’effetto di privare di efficacia l’atto dismissorio, attraverso una
pronuncia giudiziale di mero accertamento (così Cass. 14 ottobre 1999,
n. 11616).
11. Con il sesto motivo l’Azienda lamenta la violazione e la falsa
applicazione dell’art. 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, n. 3 e n. 5
cod. proc. civ. nonché insufficiente motivazione circa un altro punto
decisivo della controversia. Si duole dell’avvenuta condanna del
Policlinico al pagamento di una somma a titolo risarcitorio senza che il
lavoratore avesse fornito la prova della “particolare articolazione
dell’orario” di lavoro effettivamente svolto.
12. Il motivo è manifestamente infondato per le stesse ragioni
esaminate al punto sub 6.
13. In conclusione, si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza,
ai sensi dell’art. 375 cod. proc. civ., n. 5″.
2 – Ritiene questa Corte che le considerazioni svolte dal relatore
siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla consolidata
giurisprudenza di legittimità in materia e non scalfite dalle
osservazioni svolte dalla società ricorrente nella memoria depositata ex
art. 378 cod. proc. civ.. In quest’ultima, infatti, l’Azienda insiste nel
dolersi della ritenuta preclusione rispetto alla questione di giurisdizione
con riguardo alla domanda avente ad oggetto una pretesa violazione di
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dell’atto di rinunzia o di transazione, ma al lavoratore viene concesso

interessi legittimi ma non chiarisce in quali termini non equivoci
sarebbe stata – tempestivamente – chiesta al giudice di appello,
ancorché senza l’uso di formule sacramentali, la modifica della
statuizione implicitamente delibativa della sussistenza della
giurisdizione del giudice ordinario. Senza dire che, secondo la

pervenuta, sulla base di una lettura della disposizione di cui all’art. 33
del d.P.R. n. 270 del 1987, poi confluita senza modificazioni sostanziali
nell’art. 29 del c.c.n.l. sanità pubblica del 20/9/2001, all’accertamento
di un obbligo a carico dell’Azienda di garantire l’esercizio del “diritto”
alla mensa – subordinato alla duplice condizione dell’effettiva presenza
giornaliera del dipendente e dello svolgimento dell’attività lavorativa
secondo una particolare attenzione dell’orario di lavoro – con modalità
sostitutive (si fa testualmente riferimento, in un contesto di
privatizzazione del rapporto di lavoro tra amministrazione e
dipendente, alle “espressioni letterali adoperate, in cui il termine diritto
è usato due volte con una non equivocabile qualificazione giuridica
adoperata dallo stesso legislatore”). Tale accertamento – non
specificamente censurato mediante specifiche argomentazioni
intelligibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual
modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza
gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici
della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla
giurisprudenza di legittimità né censurato sotto il profilo della
violazione dei canoni interpretativi – non ha comportato il sindacato su
alcun potere discrezionale dell’Ente, né la valutazione di alcuna attività
discrezionale, avendo avuto esso per oggetto esclusivo la verifica
sull’adempimento delle obbligazioni contrattualmente derivate a carico
dell’Azienda. Per il resto la ricorrente ripropone rilevi già
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ricostruzione di cui alla sentenza impugnata, la Corte territoriale è

compiutamente esaminati nella relazione sopra citata e già oggetto di
valutazione nella decisione di questa Corte a Sez. un. n. 19388 del
9/11/2012.
Ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375, n. 5, cod.
proc. civ. per la definizione camerale del processo.

4 – La regolamentazione delle spese segue la soccombenza.

P.Q.M.
LA CORTE rigetta il ricorso; condanna l’Azienda ricorrente al
pagamento, in favore di Antonio Salomone, delle spese del presente
giudizio di legittimità che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro
2.000,00 per compensi oltre accessori di legge, con distrazione in
favore dell’avv. Fabio Candalice, antistatario.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 gennaio 2013.

3 – Conseguentemente, il ricorso va rigettato.

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