Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4310 del 18/02/2021

Cassazione civile sez. trib., 18/02/2021, (ud. 25/02/2020, dep. 18/02/2021), n.4310

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PERRINO Angelina Maria – Presidente –

Dott. CATALLOZZI Paolo – rel. Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. CHIESI Gian Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 24392/2012 R.G. proposto da

Smecal s.a.s. di L.C., in persona del legale

rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Ganino

Bruno, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Bava

Raffaele, sito in Roma, via Flaminia, 213;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

la quale è domiciliati in Roma, via dei Portoghesi, 12

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Calabria, n. 56/4/11, depositata il 18 luglio 2011.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 25 febbraio

2020 dal Consigliere Catallozzi Paolo.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

– la Smecal s.a.s. di L.C. propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Calabria, depositata il 18 luglio 2011, di reiezione dell’appello dalla medesima proposto avverso la sentenza di primo grado che aveva respinto il ricorso per l’annullamento dell’avviso di accertamento con cui era stata rettificata la dichiarazione resa ai fini dell’1.v.a. per l’anno 2000, recuperata l’imposta non versata e irrogate le relative sanzioni;

– dall’esame della sentenza impugnata si evince che con tale atto impositivo era stata contestata l’omessa contabilizzazione di operazioni imponibili;

– il giudice di appello ha respinto il gravame della contribuente evidenziando, tra le altre circostanze, che l’atto impositivo era adeguatamente motivato, che sussistevano i presupposti per il ricorso all’accertamento analitico-induttivo e che la mancata autorizzazione dell’autorità giudiziaria per la trasmissione di documenti acquisiti nell’ambito di un procedimento penale non era causa di illegittimità dell’avviso di accertamento;

– il ricorso è affidato a quattro motivi;

– resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

– con il primo motivo di ricorso la società denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 56, per aver la sentenza impugnata erroneamente escluso che l’atto impositivo impugnato fosse illegittimo per motivazione carente;

– evidenzia, in proposito, che tale atto recepisce acriticamente i rilievi mossi dalla Guardia di Finanza in un processo verbale di constatazione notificato nei confronti del sig. P.A., nella qualità di amministratore di fatto della società, non allegato all’atto impositivo;

– il motivo è inammissibile per difetto di specificità, in quanto la mancata riproduzione dell’atto impugnato non consente a questa Corte di esprimere la sua valutazione in merito all’adeguatezza della motivazione e, dunque, di valutare la corretta applicazione del parametro normativo invocato da parte della Commissione regionale la quale, sul punto, ha concluso nel senso che “tale avviso era da considerare ampiamente motivato”, per cui la contribuente aveva potuto esercitare compiutamente il suo diritto di difesa;

– nè la parte ha offerto puntuali indicazioni necessarie ai fini della relativa individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte Suprema di Cassazione, con precisazione (anche) dell’esatta collocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, e se essi siano stati rispettivamente acquisiti o prodotti pure in sede di giudizio di legittimità;

– infatti, si è limitata ad affermare, nel corpo del ricorso, di aver allegato a questo l’avviso di accertamento (sub 1), senza, tuttavia, dare conto dell’allegazione nel relativo foliario (non presente agli atti) e senza provvedere all’effettiva produzione del documento in questo giudizio;

– sotto altro aspetto, si osserva che l’avviso di accertamento può essere motivato per relationem anche con il rinvio pedissequo alle conclusioni contenute in un atto istruttorio e che il rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza nell’esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima, per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’Ufficio degli elementi da quella acquisiti, poichè significa semplicemente che l’Ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura, inidonea ad arrecare alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio (così, Cass. 14 gennaio 2020, n. 435; Cass. 20 dicembre 2017, n. 30560; Cass. 13 ottobre 2011, n. 21119);

– con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, per aver il giudice di appello escluso l’illegittimità dell’atto impugnato benchè emanato prima della scadenza del termine di sessanta giorni previsto da tale disposizione normativa e senza che ricorresse una situazione di particolare immotivata urgenza;

– il motivo è inammissibile;

– la parte omette di riprodurre, quanto meno per le parti salienti, il contenuto dell’atto di appello, necessario, in assenza di utili indicazioni ricavabili dalla sentenza, al fine di verificare che la questione sottoposta con il motivo in esame sia stata oggetto di motivo di gravame e, dunque, non sia “nuova” e di valutare la rilevanza e la fondatezza del motivo stesso senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte (cfr. Cass., sez. un., 28 luglio 2005, n. 15781; in tal senso, successivamente, Cass. 20 agosto 2015, n. 17049);

– in tal modo non ha assolto all’onere imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e ha, dunque, violato il principio di specificità ivi contemplato, non offrendo gli elementi indispensabili per consentire di effettuare un giudizio positivo in ordine all’ammissibilità e alla fondatezza della questione prospettata;

– si osserva, in ogni caso, che le garanzie previste dalla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, operano esclusivamente in relazione agli accertamenti conseguenti ad accessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuate nei locali ove si esercita l’attività imprenditoriale o professionale del contribuente, mentre nel caso in esame non vi è evidenza di una siffatta circostanza (cfr., in tema, Cass., Sez. Un., 9 dicembre 2015, n. 24823);

– in assenza di tali presupposti e considerato che si è in presenza di una ripresa fiscale per i.v.a. (ossia per un tributo armonizzato), deve concludersi nel senso che nullità dell’atto per violazione del principio del contraddittorio endoprocedimentale possono assumere rilevanza solo laddove il contribuente assolve all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non proponga un’opposizione mera mente pretestuosa;

– nel caso in esame, la parte non ha assolto ad un siffatto onere, omettendo persino l’allegazione dei relativi elementi di valutazione;

– con il terzo motivo la contribuente si duole della violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54 e ss., allegando che l’atto impositivo impugnato era privo dell’indicazione del tipo di accertamento cui l’Ufficio aveva fatto ricorso e si fondava su presunzioni prive del carattere della precisione, gravità e concordanza;

– il motivo è infondato;

– la Commissione regionale, dopo aver implicitamente dato atto che l’accertamento operato dall’Ufficio era di tipo analitico-induttivo, ha ritenuto immune da censure l’atto impugnato in considerazione del fatto che la rettifica della dichiarazione, con contestuale determinazione del maggiore imponibile accertato, fosse conseguenza delle risultanze delle movimentazioni rilevate sul conto corrente bancario di un parente del contribuente (recte, del predetto sig. Papaianni, coniuge della socia amministratrice, L.C.) in relazione alle quali la società non aveva offerto alcuna giustificazione;

– orbene, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 2, , introduce una presunzione che consente di riferire i movimenti bancari all’attività svolta in regime i.v.a. e di qualificare gli accrediti come ricavi e gli addebiti come corrispettivi degli acquisti;

– a tal fine possono assumere rilevanza anche le movimentazioni dei conti bancari intestati a soggetti legati da stretto rapporto familiare, in quanto tale rapporto di contiguità rappresenta un elemento indiziario della loro riferibilità alla gestione dell’attività imprenditoriale (cfr. Cass. 16 giugno 2017, n. 15003; Cass. 1 ottobre 2014, n. 20668);

– tale presunzione può essere superata unicamente con la prova specifica della non imponibilità dei movimenti finanziari, prova che va fornita dal contribuente;

– pertanto, la decisione impugnata, nel fare riferimento alla presunzione legale richiamata e nel ritenere che la contribuente non avesse offerto prova contraria, si sottrae alla censura prospettata;

– con l’ultimo motivo di ricorso la società lamenta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, nonchè l’insufficiente e illogica motivazione su fatti controversi e decisivi per il giudizio, evidenziando, da un lato, che l’acquisizione dei dati bancari era avvenuta in violazione dell’iter procedimentale previsto dalla legge, con particolare riguardo al suo mancato coinvolgimento delle operazioni di verifica e di accertamento e alla mancanza dell’autorizzazione del comandante regionale della zona, e, dall’altro, il difetto di argomentazione in ordine alle giustificazioni offerte a sostegno della non imponibilità dei movimenti finanziari rilevati sul conto del sig. Papaianni;

– il motivo è, quanto alla formulata violazione di legge, infondato;

– la legittimità della ricostruzione della base imponibile mediante l’utilizzo delle movimentazioni bancarie acquisite non è subordinata al contraddittorio con il contribuente, anticipato alla fase amministrativa, in quanto l’invito a fornire dati, notizie e chiarimenti in ordine alle operazioni annotate nei conti bancari, atteso che la legge tributaria lo prevede come mera facoltà dell’amministrazione tributaria e non già come obbligo, sicchè dal mancato esercizio di tale facoltà non deriva alcuna illegittimità della rettifica operata in base ai relativi accertamenti (cfr. Cass. 10 gennaio 2013, n. 446; Cass. 2 dicembre 2005, n. 26293);

– la mancanza di autorizzazione alle indagini bancarie rende le stesse illegittime solo ove, traducendosi in un concreto pregiudizio per il contribuente, vengano ad inficiare il risultato finale del procedimento e, quindi, l’accertamento medesimo (cfr. Cass., ord., 28 maggio 2018, n. 13353; Cass., ord., 18 aprile 2018; n. 9480; Cass. 10 febbraio 2017, n. 3628);

– ciò in conformità alla concezione sostanzialistica dell’interesse del privato alla legittimità del provvedimento amministrativo, espressa, in via generale, dall’art. 21 octies della L. n. 241 del 1990;

– nel caso in esame, non risulta essere stato dedotto un siffatto pregiudizio;

– quanto alla doglianza per vizio motivazionale, la stessa è inammissibile;

– l’argomentazione della Commissione regionale, la quale ha, sia pure con motivazione implicita, escluso che il contribuente abbia dimostrato la provenienza degli accrediti rilevati sui conti correnti intestati all’amministratore di fatto, si presenta idonea e adeguata a far comprendere dell’iter motivazionale seguito dal giudice;

– la censura si risolve, in realtà, nella contestazione della valutazione operata dal giudice di appello in ordine alla inidoneità delle giustificazioni offerte dalla contribuente a superare la presunzione legale di imponibilità delle movimentazioni bancarie rilevate;

– una siffatta censura non può trovare ingresso in questa sede in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale e non può riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa (cfr. Cass. 28 novembre 2014, n. 25332; Cass., ord., 22 settembre 2014, n. 19959);

– sotto altro profilo, la parte omette di indicare quali siano i fatti – e quando e dove siano stati dedotti nei precedenti gradi di merito -, astrattamente idonei a condurre ad una diversa soluzione, che la motivazione del giudice di appello avrebbe obliterato;

– per le suesposte considerazioni, dunque, il ricorso non può essere accolto;

– le spese processuali seguono il criterio della soccombenza e si

liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidano in Euro 5.600,00, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 25 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 febbraio 2021

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