Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4286 del 22/02/2011

Cassazione civile sez. II, 22/02/2011, (ud. 01/02/2011, dep. 22/02/2011), n.4286

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente –

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – rel. Consigliere –

Dott. GOLDONI Umberto – Consigliere –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 18794-2005 proposto da:

P.C. (OMISSIS), P.P.

(OMISSIS), P.S. (OMISSIS), A.

R., deceduta nelle more, (OMISSIS), questi ultimi tre

quali eredi di P.G., tutti difesi dall’avvocato VESTITO

FRANCESCO, anch’egli deceduto, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

PRINCIPE AMEDEO 126, presso lo studio dell’avvocato D’ELIA PAOLA, la

quale, con procura speciale notarile, depositata in udienza, del

27.1.2011 Rep. n. 3230 per Dott.ssa MOBILIO EMILIA notaio in Ginosa,

rappresenta e difende P.S. e P.P. unitamente

all’avvocato MOTOLESE GIOVANNI;

– ricorrenti –

contro

PA.GI. (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 108/2005 della SEZ. DIST. CORTE D’APPELLO di

TARANTO, depositata il 12/04/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

01/02/2011 dal Consigliere Dott. LUCIO MAZZIOTTI DI CELSO;

udito l’Avvocato PAOLA D’ELIA che si costituisce con l’Avvocato

GIOVANNI MOTOLESE per P.S. e P.P.

depositando in udienza procura speciale notarile, che dichiara e

produce certificato di morte di A.M.R. e del

difensore Avvocato FRANCESCO VESTITO, deceduto anch’egli, e che ha

chiesto di riportarsi al ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUCCI COSTANTINO che ha concluso per il rigetto della causa.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Pa.Gi. chiedeva al tribunale di Taranto di condannare i germani C. e P.G. a eliminare le installazioni e i manufatti realizzati nel 1983 nelle loro abitazioni di (OMISSIS) contigue alla propria consistenti: a) nell’abusivo allacciamento alla fogna pubblica dei loro servizi a mezzo di un raccordo collocato nella sua proprietà e senza il suo consenso: b) nella costruzione di una canna fumaria, di una copertura con solaio e delle tubazioni per riscaldamento, il tutto interessante una muratura di sua esclusiva proprietà.

I convenuti, costituitisi, sollevavano numerose eccezioni in fatto e in diritto e, in via riconvenzionale, chiedevano riconoscersi costituita una servitù in favore delle proprie unità immobiliari atteso che la realizzazione delle opere menzionate dall’attore erano state autorizzate anche perchè non era praticabile altra soluzione tecnica. I convenuti evidenziavano inoltre che Pa.Gi.

aveva realizzato le opere illegittime (nel dettaglio descritte) per cui chiedevano la rimozione di dette opere con la conseguente condanna dell’attore al risarcimento dei danni provocati.

Al giudizio veniva riunito quello promosso da P.C. e G. per domandare – la prima – la condanna di Pa.Gi.

a effettuare lavori di ripristino del muro interno della sua abitazione che aveva abbattuto creando lesioni alla soprastante abitazione di essa C. e – il secondo – a rimuovere le tubazioni di scarico poste a distanza illegale dalla sua proprietà.

Con sentenza 20/9/2000 il tribunale di Taranto accoglieva la domanda di Pa.Gi. e condannava C. e P.G. – le cui richieste rigettava – a realizzare i lavori indicati e le demolizioni specificate.

Avverso la detta sentenza C. e P.G. proponevano appello al quale resisteva Pa.Gi..

Con sentenza 12/4/2005 la corte di appello di Lecce rigettava il gravame osservando: che non potevano essere ammesse le richieste istruttorie formulate dagli appellanti nel giudizio di secondo grado non potendo la costituzione di una servitù reale essere provata oralmente ma solo per atto scritto; che era ininfluente la richiesta di un supplemento di consulenza: che il tribunale, sulla scorta delle indagini del c.t.u. aveva individuato le ragioni della lite nei contrasti sorti tra i germani dopo un periodo di pacifica convivenza tra loro segnata da una armonia tale da consentire la costruzione in terreno comune di un pozzetto di scarico unico con diversi allacci:

che ciò non consentiva di ritenere creata una servitù passiva di scolo a carico di Pa.Gi. il quale, pur se aveva permesso ai fratelli di convogliare gli scarichi nel pozzetto ubicato per la maggior parte nella sua proprietà, ben poteva esercitare l’actio negatoria servitutis alla quale i convenuti dovevano opporre l’acquisto della servitù di mantenere lo scolo in quel pozzetto per usucapione o per atto scritto, ma non a mezzo di prova per testi non consentita e neppure invocando il principio dell’accessione, mai reclamato in primo grado e comunque inidoneo a sostenere la tesi; che peraltro gli appellanti non avevano provato di non poter in alcun modo scaricare le acque nere e bianche se non attraverso la proprietà del fratello G.; che la condanna alla rimozione della canna fumaria era stata limitata al tratto in cui essa poggiava sul muro di proprietà di Pa.Gi. e non per il tratto in cui poggiava su muro di proprietà di P.L.; che la rimozione di tale canna era stata chiesta non perchè a distanza illegale, bensì perchè posta sulla proprietà di Pa.Gi.

per cui non era pertinente il richiamo operato dagli appellanti all’art. 889 c.c. in tema di distanze: che analoghe considerazioni valevano anche per l’obbligo degli appellanti di rimuovere le tubazioni del riscaldamento e il piccolo solaio che si trovavano o si appoggiavano all’interno o su murature costruite dell’attore- appellato delle quali dalla controparte non era stata rivendicata la proprietà per accessione invocata solo nei giudizio di secondo grado: che era domanda nuova quella proposta nell’atto di appello per ottenere la rimozione del vano garage costruito dall’appellato a distanza illegale dalla proprietà di P.C.; che, come acclarato dal c.t.u., l’impianto di riscaldamento di Pa.

G. non presentava aspetti di pericolo e la mancanza della certificazione della installazione a regola d’arte era un fatto che aveva solo rilevanza amministrativa; che il c.t.u. non aveva trovato traccia di fessurazioni nella costruzione della P. ed aveva escluso la riferibilità del lamentato fenomeno a fatto dell’attore alla pari dell’umidità in casa di P.G.: che le tubazioni idriche e fognanti del servizio igienico di Pa.Gi.

risultavano posizionate sulla parete ovest ed a distanza regolamentare dalla proprietà di P.G..

La cassazione della sentenza della corte di appello di Lecce è stata chiesta da P.C., A.R., P.S. e P.P. (gli ultimi tre quali eredi del defunto P. G.) con ricorso affidato a sei motivi. L’intimato Pa.

G. non ha svolto attività difensiva in sede di legittimità.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo A.R., C., S. e P.P. denunciano violazione dell’art. 345 c.p.c. e art. 934 c.c. nonchè vizi di motivazione, deducendo che il (fondato e rilevante) richiamo all’istituto dell’accessione fatto da essi ricorrenti in sede di gravame costituisce non una richiesta o eccezione nuova – come erroneamente ritenuto dalla corte di appello – ma una diversa prospettazione giuridica degli stessi fatti posti sia a fondamento del diritto a far confluire le tubazioni di scarico delle acque poste a servizio dei propri rispettivi appartamenti nel pozzetto fognario realizzato da Pa.Gi., sia per affermare la legittimità dell’esecuzione da parte di essa P.C. di una canna fumaria e di un piccolo solaio su una delle pareti esterne racchiudenti il vano garage di Pa.Gi.. La corte di appello ha escluso qualsiasi diritto di essa P.C. e del defunto P.G. sul pozzetto – malgrado gli accordi di cui alla scrittura privata del 20/8/1981 e la prodotta documentazione dell’EAAP – ed ha incongruamente disposto la rimozione della canna fumaria e del solaio che, pur poggiando per un tratto sul vano garage di Pa.Gi., sono posizionati su una struttura muraria di proprietà di essa P.C. in virtù del principio dell’accessione. Inoltre la corte di merito non ha considerato che gli appartamenti di proprietà delle parti in lite sono sorti su una proprietà originariamente unica con varie pertinenze, ivi compreso un pozzo su cui venivano convogliate le acque piovane e poi trasformato in pozzo nero nel quale confluivano i liquami degli immobili di tutte le dette pani. Tale situazione di comunione è durata oltre trenta anni e nei vari atti di trasferimento sono state sempre fatte salve le servitù attive e passive così come esistenti.

Il pozzo realizzato da Pa.Gi. è stato poi modificato e ampliato da tutti i germani P.. Di questa comunione dei luoghi e di questa servitù non ha tenuto in alcun conto la corte di appello.

Il motivo è infondato in quanto la corte di appello ha correttamente applicato il principio pacifico nella giurisprudenza di legittimità secondo cui a deduzione della cosiddetta accessione invertita ex art. 938 c.c. non da luogo ad una mera difesa od eccezione, bensì ad una vera e propria domanda (principale o riconvenzionale) intesa a conseguire un provvedimento giudiziale costitutivo del diritto di proprietà a favore dei costruttore medesimo e coevamente estintivo del diritto del proprietario dell’area occupata nonchè impositiva del pagamento del doppio valore dell’area stessa (il tutto previo accertamento della buona fede del costruttore e della mancata opposizione dell’altro entro i tre mesi dall’inizio della costruzione): essa, pertanto è soggetta alle preclusioni di cui agli art. 183 e 184 c.p.c. e non è proponibile per la prima volta in appello sussistendo il divieto sancito dall’art. 345 c.p.c.. In particolare qualora l’attore (come appunto verificato nei caso in esame) agisca per l’eliminazione di opere costruite dal vicino – alcune delle quali costituenti invasione del suolo o appoggio al muro – la richiesta di trasferimento della proprietà del suolo occupato e la contestuale determinazione dell’obbligo di corrispondere l’indennità relativa deve essere avanzata in via riconvenzionale dal convenuto, non potendo siffatta statuizione essere adottata d’ufficio. Nè tale domanda è ammissibile, ai sensi dell’art. 345 c.p.c. se formulata dal convenuto per la prima volta in appello, non escludendo la novità della stessa la circostanza che l’attore – in primo grado – abbia formulalo una tale richiesta in via alternativa alla precisata domanda principale (nei sensi suddetti, tra le tante, sentenze 18/8/1997 n. 7686; 17/6/1994 n. 5868; 17/3/1993 n. 3158;

5/11/1990 n. 10615).

Va altresì segnalato che l’istituto dell’accessione non è di certo applicabile con riferimento ai permanere delle tubazioni di raccordo in un vano di proprietà di Pa.Gi..

Va aggiunto che la corte di appello – al contrario di quanto sostenuto dai ricorrenti nella seconda parte del motivo in esame – ha puntualmente fatto riferimento al particolare stato dei luoghi ed alla armonia tra i germani P. che aveva consentito di costruire di comune accordo il pozzetto di scarico del liquami “con diversi allacci”. Il giudice di appello ha però precisato – come sopra riportato nella parte narrativa che precede – che da ciò non poteva derivare la creazione di una “servitù coattiva di scolo a carico di Pa.Gi.” (con il passaggio delle tubazioni di raccordo in un locale di proprietà esclusiva di quest’ultimo) e che per paralizzare l’actio negaloria servitutis esercitata dall’attore Pa.Gi. “i convenuti dovevano opporre l’acquisto della servitù di mantenere lo scolo in quel pozzetto per usucapione o per atti scritto” e non limitarsi a chiedere sul punto una prova per testi.

Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano violazione degli artt. 244 e 345 c.p.c. lamentando l’errore commesso dalla corte di appello nel non ammettere la rilevante prova testimoniale articolata da essi ricorrenti in sede di gravame – diretta a dimostrare l’avvenuta costituzione in loro favore della servitù di scolo delle acque luride attraverso il pozzetto fognario realizzato in parte su proprietà di Pa.Gi. ed in parte su proprietà di P. G. – sulla base dell’affermazione secondo cui l’esistenza del diritto reale non era dimostrabile con la prova orale. Al contrario la prova della costituzione di una servitù può essere data anche per testimoni specie quando se ne affermi l’acquisizione a titolo originario per usucapione.

L’infondatezza della censura emerge con immediatezza da quanto sopra esposto esaminando il primo motivo di ricorso con riferimento alla parte della sentenza impugnata con la quale la corte di appello ha posto in evidenza la mancata proposizione da parte di P.C. e G. di una domanda (principale o riconvenzionale) volta ad ottenere il riconoscimento (anche in via di eccezione riconvenzionale al fine di paralizzare la domanda di controparte) dell’avvenuta acquisizione della servitù di scolo a titolo originario per usucapione. E’ quindi ineccepibile la decisione del giudice di secondo grado di non ammettere una prova volta a sostegno di una domanda non proposta o di una eccezione non sollevata.

La corte territoriale non ha omesso di rilevare che gli appellanti C. e P.G. avevano solo invocato la costituzione di una servitù coattiva senza però provare di non poter scaricare te acque nere e bianche se non attraversando la proprietà del fratello Gi..

Va inoltre ribadito che il giudice del merito non è tenuto ad ammettere i mezzi di prova dedotti dalle parti ove ritenga sufficientemente istruito il processo e di essere già in grado di formarsi un convincimento.

La censura in esame non è meritevole di accoglimento anche per la sua genericità avendo i ricorrenti omesso di indicare le specifiche circostanze sulle quali avrebbe dovuto svolgersi la prova testimoniale rifiutata dal giudice di secondo grado e riducendosi la doglianza ad una apodittica affermazione di rilevanza in re ipsa da riconoscere al contenuto dei capitoli di prova come articolati.

Costituisce, invero, jus receptum che il ricorrente il quale, in sede di legittimità, denunci la mancata ammissione, da parte del giudice del merito, di una prova testimoniale, ha l’onere di indicare specificatamente le circostanze che formavano oggetto della prova al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare e, quindi, delle prove stesse che, per il principio di autosufficienza de ricorso per cassazione, la Corte di Cassazione deve essere in grado di compiere solo sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non e consentito sopperire con indagini integrative.

Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano violazione della L. n. 46 del 1990, artt. 1 e ss. e art. 890 c.c. deducendo che l’impianto di riscaldamento a gas rientra nella previsione di cui all’art. 890 c.c. che impone per l’installazione di macchinar pericolosi l’obbligo di osservare le distanze stabilite dai regolamenti e, in mancanza, quelle necessario a preservare i fondi vicini da ogni danno alla solidità, salubrità e sicurezza. Nella specie la corte di appello, pur in mancanza di certificazione di conformità dell’impianto di riscaldamento realizzalo da Pa.Gi. e in mancanza di distanza di tale impianto dalla contigua proprietà, ha concluso per la regolarità di tale situazione sol perchè il c.t.u. aveva escluso ogni pericolosità. Tale conclusione è errata perchè ogni impianto di riscaldamento a gas per essere definito non pericoloso deve essere munito di certificati) di conformità del quale era carente l’impianto realizzato da Pa.Gi..

Il motivo va disatteso.

Occorre in proposito evidenziare che gli impianti di riscaldamento a termosifone per uso domestico, alimentati da nafta, non sono assoggettabili alla disciplina delle distanze delle cisterne, prevista nell’art. 889, comma 1, ma a quella prevista nell’art. 890 cod. civ. il quale stabilisce le distanze per le fabbriche e i depositi nocivi e pericolosi, in base a una presunzione di nocività e pericolosità che è assoluta, nel caso in cui vi sia una norma del regolamento edilizio comunale la quale preveda la distanza medesima, ed è, invece, relativa, quando manchi una norma di tale natura, e può essere, quindi, superata ove si dimostri che, in relazione alla peculiarità della fattispecie e degli eventuali accorgimenti, possa ovviarsi al pericolo e al danno per il fondo vicino.

Ne consegue che, nulla disponendo la normativa speciale in materia in ordine alle distanze da osservarsi dal confine (non rinvenibili in particolare nella L. n. 46 del 1990 richiamata dai ricorrenti) spetta al giudice del merito accertare, secondo il suo prudente apprezzamento ed anche alla luce delle norme tecniche d’uso comune, quale sia la distanza in concreto sufficiente alla tutela del fondo vicino.

Nella specie la corte di appello – alla luce dell’incensurabile accertamento in fatto e con specifico riferimento a quanto acclarato dal c.t.u. – ha affermato che l’impianto di riscaldamento realizzato da Pa.Gi. “non presenta aspetti di pericolo” precisando correttamente che la mancanza di certificazione della installazione a regola d’arte assume rilevanza solo amministrativa e non in relazione al giudizio di pericolosità.

Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano vizi di motivazione sostenendo che le fessurazioni esistenti all’interno dell’appartamento di essa P.C. sono state evidenziate dalla seconda relazione dei c.t.u. e dalle ivi allegate riproduzioni fotografiche. Il c.t.u. ha quindi confermato – e non smentito come affermato nella sentenza impugnata – quanto già rilevato in sede di accertamento tecnico preventivo. Di tali lesioni il c.t.u. non ha dato una spiegazione con conseguente necessità del richiesto supplemento di consulenza tecnica al fine di verificare l’eziologia del fenomeno di fessurazione.

Con il quinto motivo i ricorrenti denunciano vizi di motivazione deducendo di aver posto nei giudizi di primo e di secondo grado il problema della pendenza del solaio realizzato da Pa.Gi.

sul proprio garage e che, facendo defluire le acque meteoriche verso il pluviale realizzato da P.G., causava un ingorgo in tale canale di scorrimento con conseguente fuoriuscita di acqua piovana il che aveva determinato manifestazioni di umido lungo (“immobile di P.G.. Il c.t.u. non ha approfondito le causa di questo problema lasciando senza risposta questa questione tecnica. Pertanto, anche sotto questo proli lo, la sentenza impugnata è priva di valida motivazione.

Con il sesto motivo i ricorrenti denunciano violazione dell’art. 889 c.c. sostenendo che il c.t.u. ha errato nel l’affermare che rimpianto idrico fognario è incassato in muri non di confine con la contigua proprietà di P.G.. Questo risultato è frutto sia di una errata lettura dell’art. 889 c.c. (in base al quale i tubi in questione devono trovarsi ad una distanza di almeno un metro dal confine), sia di un errore di fatto in quanto il muro di confine ove sono posizionate le tubazioni ed i servizi igienici di Pa.

G. appartiene a P.G.. La corte di appello ha omesso di valutare la documentazione acquisita agli atti ed avrebbe dovuto disporre il richiesto supplemento di perizia.

La Corte rileva l’inammissibilità e in parte l’infondatezza delle dette censure che possono essere esaminate congiuntamente risolvendosi tutte quale più, quale meno e pur se titolate come violazione di legge e come vizi di motivazione – essenzialmente nella prospettazione di una diversa analisi del merito della causa ed in una critica dell’apprezzamento delle risultanze istruttorie operata dal giudice del merito incensurabile in questa sede di legittimità perchè sorretto da adeguata motivazione immune da vizi logici e giuridici. Inammissibilmente i ricorrenti prospettano una diversa lettura dei quadro probatorio dimenticando che l’interpretazione e la valutazione delle risultanze probatorie sono affidate al giudice del merito e costituiscono insindacabile accertamento di fatto: la sentenza impugnata non è suscettibile di cassazione per il solo fatto che gli elementi considerati dal giudice del merito siano, secondo l’opinione di parte ricorrente, tali da consentire una diversa valutazione conforme alla tesi da essa sostenuta.

Sono quindi insussistenti gli asseriti vizi di motivazione che presuppongono una ricostruzione dei fatti diversa da quella ineccepibilmente effettuata dal giudice del merito.

La corte di merito, all’esito di quanto accertato in fatto alla luce delle risultanze probatorie acquisite, e pervenuta alle conclusioni sopra riportate nella parte narrativa dai ricorrenti criticate e che hanno formato oggetto delle censure in esame.

La corte di appello ha dato conto delle proprie valutazioni, circa i riportati accertamenti in fatto, esaminando compiutamente le risultanze istruttorie ed esponendo adeguatamente le ragioni del suo convincimento.

Dalla motivazione della sentenza impugnata risulta chiaro che la corte di merito, nel porre in evidenza gli elementi probatori favorevoli alle tesi di Pa.Gi. ha implicitamente espresso una valutazione negativa delle contrapposte tesi dei ricorrenti.

Pertanto, poichè resta istituzionalmente preclusa in sede di legittimità ogni possibilità di rivalutazione delle risultanze istruttorie, non possono i ricorrenti pretendere il riesame del merito so perchè la valutazione delle accertate circostanze di fatto come operata dal giudice di secondo grado non collima con le loro aspettative e confutazioni.

Per quanto poi riguarda in particolare le doglianze relative alla valutazione delle risultanze istruttorie (relazione del c.t.u., documentazione acquisita) deve affermarsi che le stesse non sono meritevoli di accoglimento anche per la loro genericità, oltre che per la loro incidenza in ambito di apprezzamenti riservati al giudice del merito.

Nel giudizio di legittimità il ricorrente che deduce l’omessa o l’erronea valutazione delle risultanze probatorie ha l’onere (in considerazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione) di specificare i contenuto delle prove mal (o non) esaminate, indicando le ragioni del carattere decisivo del lamentalo errore di valutazione: solo così è consentito alla corte di cassazione accertare – sulla base esclusivamente delle deduzioni esposte in ricorso e senza la necessità di indagini integrative – l’incidenza causale del difetto di motivazione (in quanto omessa, insufficiente o contraddittoria) e la decisività delle prove erroneamente valutate perchè relative a circostanze tali da poter indurre ad una soluzione della controversia diversa da quella adottata. Il mancato esame di elementi probatori. contrastanti con quelli posti a fondamento della pronuncia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non o ma esaminate siano tali da invalidare l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento si è formato, onde la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di base.

In proposito va ribadito che per poter configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia è necessario un rapporto di causalità logica tra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla vertenza, sì da far ritenere che quella circostanza se fosse stata considerata avrebbe portato ad una decisione diversa.

Nella specie le censure mosse con il motivo in esame sono carenti sotto l’indicato aspetto in quanto non riportano il contenuto specifico e completo della relazione del c.t.u. e delle prove documentali genericamente indicate in ricorso e non forniscono alcun dato valido per ricostruire, sia pur approssimativamente, il senso complessivo di dette prove. Tale omissione non consente di verificare l’incidenza causale e la decisività dei rilievi al riguardo mossi dai ricorrenti.

Sotto altro aspetto le censure concernenti gli asseriti errori che sarebbero stati commessi dal giudice di secondo grado nel ricostruire i fatti di causa sono inammissibili risolvendosi nella tesi secondo cui l’impugnata sentenza sarebbe basata su affermazioni contrastanti con gli atti del processo e frutto di errore di percezione o di una svista materiale degli atti di causa. Trattasi all’evidenza della denuncia di travisamento dei fatti contro cui è esperibile il rimedio della revocazione. Secondo quanto più volte affermato da questa Corte, la denuncia di un travisamento di fatto, quando attiene ai fatto che sarebbe stato affermato in contrasto con la prova acquisita, costituisce motivo di revocazione e non di ricorso per cassazione importando essa un accertamento di merito non consentito in sede di legittimità.

Va peraltro segnalato che dalla lettura della sentenza impugnata non risulta che nei motivi di appello C. e P.G. abbiano posto il problema della pendenza del solaio realizzato da Pa.

G. sul proprio garage con le conseguenze descritte nel quinto motivo di ricorso nel quale non si fa alcun cenno al vizio di omessa pronuncia di cui all’art. 112 c.p.c. e non si precisano le modalità con le quali la detta questione è stata prospettata in primo e in secondo grado.

Per quanto poi riguarda la censura relativa all’impianto idrico fognario di Pa.Gi. va osservato che la corte di appello ha rigettato la richiesta formulata dai convenuti appellanti – volta ad ottenere la rimozione delle tubazioni e dei servizi igienici realizzati da Pa.Gi. senza il rispetto della distanza imposta dall’art. 889 c.c. – confermando la pronuncia in tal senso del tribunale che aveva ritenuto infondata la detta richiesta per essere stati collocati tali servizi e tubi a distanza regolamentare dalla proprietà di P.G. oltre che in un muro non di confine.

Si tratta anche in questo caso di un accertamento in fatto incensurabile in questa sede di legittimità.

Va peraltro segnalato che questa Corte ha più volte affermato il principio secondo cui la disposizione dell’art. 889 c.c. relativa alle distanze da rispettare per pozzi, cisterne, fossi e tubi è applicabile, anche con riguardo agli edifici in condominio, salvo che si tratti di impianti da considerarsi indispensabili ai fini di una completa e reale utilizzazione dell’immobile, tale da essere adeguata all’evoluzione delle esigenze generali dei cittadini nel campo abitativo e alle moderne concezioni in tema di igiene (sentenze (Ndr:

testo originale non comprensibile) n. 13313, 25/7/2006 n. 16958, 20/8/1999, n. 880).

Deve infine rilevarsi – con riferimento all’asserito errore commesso dalla corte di appello ne non aver disposto l’invocato rinnovo di consulenza tecnica – che, come è noto e come più volte affermato da questa Corte, rientra nei poteri discrezionali de giudice del merito la valutazione di disporre la nomina di un c.t.u. ovvero indagini tecniche suppletive o integrative di quelle già espletate, di sentire a chiarimenti il c.t.u. ovvero di rinnovare le indagini:

l’esercizio (o il mancato esercizio) di tale potere non è censurabile in sede di legittimità. Peraltro la motivazione del diniego della chiesta consulenza è corretta e coerente tenuto conto del contesto generale delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato dalla corte di appello.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato senza necessità di provvedere in ordine alle spese del giudizio di cassazione ne quale l’intimato Pa.Gi. non ha svolto attività di resistenza.

P.Q.M.

La corte rigetta i ricorso.

Così deciso in Roma, il 1 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2011

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