Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4284 del 17/02/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 17/02/2017, (ud. 05/12/2016, dep.17/02/2017),  n. 4284

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 26524 – 2015 R.G. proposto da:

D.C.C., – c.f. ((OMISSIS)) – R.M. – c.f.

((OMISSIS)) – A.M. – c.f. ((OMISSIS)) – S.M. –

c.f. ((OMISSIS)) – N.A. – c.f. ((OMISSIS))- elettivamente

domiciliate in Roma, al piazzale delle Belle Arti, n. 8, presso lo

studio dell’avvocato Antonino Pellicanò che le rappresenta e

difende in virtù di procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO della GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

Avverso il decreto dei 3/21.3.2015 della corte d’appello di

Catanzaro, assunto nel procedimento iscritto al n. 18/2015 R.V.G.;

Udita la relazione della causa svolta all’udienza pubblica del 5

dicembre 2016 dal consigliere dott. Luigi Abete;

Udito l’avvocato Antonino Pellicanò per le ricorrenti.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ricorso ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 3 alla corte d’appello di Catanzaro depositato in data 19.9.2014 D.C.C., R.M., A.M., S.M. ed N.A. si dolevano per l’eccessiva durata, pari a quindici anni, nove mesi e ventiquattro giorni, del giudizio da loro promosso, con separati ricorsi poi riuniti depositati 1’11.4.1997, dinanzi al pretore del lavoro di Palmi e proseguito dinanzi alla sezione lavoro della corte di appello di Reggio Calabria, che con sentenza n. 1880 depositata il 4.2.2013 aveva rigettato il gravame con compensazione delle spese.

Chiedevano che si ingiungesse al Ministero della Giustizia di corrisponder loro un equo indennizzo, da determinarsi secondo i parametri di legge, a ristoro dei danni tutti subiti oltre interessi e spese.

Con decreto del 13.12.2014 la corte d’appello di Catanzaro, in persona del giudice designato, accoglieva il ricorso ed ingiungeva al Ministero resistente di pagare a D.C.C. la somma di Euro 1.349,93, a R.M. la somma di Euro 979,18, a A.M. la somma di Euro 1.382,93, a S.M. la somma di Euro 501,76 ed a N.A. la somma di Euro 514,39, oltre interessi legali e spese, liquidate in Euro 972,00.

Avverso tale decreto D.C.C., R.M., A.M., S.M. ed N.A. proponevano opposizione ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 5 ter.

Resisteva il Ministero.

Con decreto dei 3/21.3.2015 la corte d’appello di Catanzaro rigettava l’opposizione, condannava il Ministero resistente, a correzione del decreto opposto, in ogni altra parte confermato, a pagare al difensore anticipatario delle ricorrenti le somme già liquidate nello stesso decreto e l’ulteriore somma di Euro 27,00 a titolo di rimborso delle spese vive; compensava fino a concorrenza di 1/3 le spese del giudizio di opposizione e condannava in solido le ricorrenti a pagare al Ministero i residui 2/3 liquidati in Euro 900,00, oltre accessori.

Esplicitava – la corte – nel segno della previsione della L. n. 89 del 2001, dell’art. 2 bis, comma 3 che si imponeva senz’altro la deroga agli ordinari parametri di liquidazione dell’indennizzo; che invero l’applicazione dei ordinari parametri avrebbe condotto al riconoscimento di un indennizzo superiore al valore della causa o del diritto accertato, segnatamente al quantum dell’importo riconosciuto a titolo di adeguamento “Istat”.

Avverso tale decreto hanno proposto ricorso sulla scorta di tre motivi D.C.C., R.M., A.M., S.M. ed N.A.; hanno chiesto che questa Corte ne disponga la cassazione con ogni conseguente statuizione anche in ordine alle spese – da attribuirsi al difensore antistatario – del giudizio di merito e di legittimità; in via subordinata hanno chiesto sollevarsi questione di legittimità costituzionale della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 3 in relazione agli artt. 3 e 117 Cost..

Il Ministero della Giustizia non ha svolto difese.

Le ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo le ricorrenti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, denunciano la violazione ed errata interpretazione ed applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 3; il difetto assoluto di motivazione.

Deducono che la corte di merito per ciascun anno di ritardo ha riconosciuto indennizzi del tutto simbolici, ovvero a D.C.C. un indennizzo di circa Euro 150,00, a R.M. un indennizzo di circa Euro 108,00, a A.M. un indennizzo di circa Euro 153,00, a S.M. un indennizzo di circa Euro 55,00 e ad N.A. un indennizzo di circa Euro 57,00; che siffatti indennizzi sono illegittimi tanto più attesa la natura previdenziale del giudizio “presupposto”.

Deducono ulteriormente che la corretta interpretazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 3, induce ad escludere che la medesima disposizione porti deroga agli ordinari parametri annuali di liquidazione dell’indennizzo.

Con il secondo motivo le ricorrenti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, denunciano la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 in combinato disposto con l’art. 6, comma 1, artt. 13 e 41 C.E.D.U. e gli artt. 2056 e 1226 c.c.; carenza assoluta di motivazione.

Deducono che il decreto impugnato sovverte i principi su cui poggia il diritto all’equa riparazione.

Deducono che l’interpretazione, quale patrocinata dalla corte distrettuale, renderebbe patentemente incostituzionale la previsione della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 3 per violazione degli artt. 3 e 117 Cost..

Con il terzo motivo le ricorrenti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, denunciano l’illogicità, la contraddittorietà, la carenza assoluta di motivazione in relazione all’operata regolamentazione delle spese del giudizio di opposizione.

Deducono che la corte d’appello non ha tenuto conto che in materia di equa riparazione la condanna alle spese è subordinata alla temerarietà della lite; altresì, che il Ministero resistente non ha formulato specifiche contestazioni in ordine all’azionata pretesa.

Deducono che le riferite circostanze avrebbero giustificato l’integrale compensazione delle spese del giudizio di opposizione.

Destituito di fondamento è il primo motivo di ricorso.

La corte di merito in primo luogo ha correttamente interpretato la L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 3 – “la misura dell’indennizzo, anche in deroga al comma 1, non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice” – quale prefigurante un limite assolutamente invalicabile in sede di quantificazione dell’indennizzo, limite che, siccome questa Corte ha già chiarito, ancora in espressa deroga alle previsioni del medesimo art. 2 bis, comma 1 l’indennizzo al valore della causa, onde evitare sovracompensazioni o arricchimenti occasionali, se non insperati (cfr. Cass. 22.12.2015, n. 25804).

L’assoluta – “in ogni caso” – ed incondizionata – “anche in deroga al comma 1” – operatività del limite e la sua connotazione teleologica rendono del tutto ininfluente la natura “previdenziale” del giudizio “presupposto”.

A tal ultimo riguardo, del resto, questa Corte ha già da tempo avuto cura di chiarire che, ai fini della liquidazione dell’indennizzo del danno non patrimoniale conseguente alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ai sensi della L. n. 89 del 2001, non può ravvisarsi un obbligo di diretta applicazione dell’orientamento della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui va riconosciuta una somma forfettaria nel caso di violazione del termine nei giudizi aventi particolare importanza, fra cui anche la materia previdenziale; da tale principio, infatti, non può derivare automaticamente che tutte le controversie di tal genere debbano considerarsi di particolare importanza, posto che il risarcimento non può essere ragguagliato alla tipologia dei diritti per cui si procede o alla situazione di maggiore o minore necessità dell’accipiens, bensì al disagio avvertito in relazione al ritardo della decisione, che in relazione a somme modeste non può certamente essere sopravvalutato (cfr. Cass. 11.9.2009, n. 19691).

Non si configura pertanto la violazione dell’art. 2 bis, comma 3 cit..

La corte distrettuale in secondo luogo ha correttamente sussunto la fattispecie concreta nella previsione dell’art. 2 bis, comma 3 cit..

Il giudizio, della cui eccessiva durata le ricorrenti si dolgono, aveva in origine ad oggetto l’accertamento del diritto all’adeguamento “Istat” dell’indennità di disoccupazione agricola percepita negli anni dal 1986 al 1992 ed ha avuto prosecuzione esclusivamente ai fini della regolamentazione delle spese di lite (il pretore di Palmi di già con sentenza n. 1140/2005 aveva dichiarato la cessazione della materia del contendere).

Non si delinea perciò la dedotta errata applicazione dell’art. 2 bis, comma 3 cit. in considerazione, appunto, dell’assoluta modestia della “posta in gioco”, del valore della controversia.

La corte territoriale in terzo luogo ha dato ampia ragione del suo dictum alla stregua della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 3.

Non sussiste quindi l’asserito assoluto difetto di motivazione.

Destituito di fondamento è del pari il secondo motivo di ricorso.

L’ineccepibile e congrua applicazione al caso di specie della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 3 qualifica come del tutto ingiustificato l’assunto delle ricorrenti secondo cui la statuizione della corte calabrese “stravolge il funzionamento e l’impostazione teorica dei fondamenti e della natura del diritto all’equa riparazione e tradisce lo spirito della Corte E.D.U.” (così ricorso, pag. 14).

Al contempo, patentemente infondato è il dubbio di costituzionalità che le ricorrenti hanno prospettato, allorchè hanno assunto che l’interpretazione patrocinata dalla corte d’appello “crea una ingiustificata discriminazione tra chi ha subito un’irragionevole durata del processo ed è risultato vincitore e chi ha avuto una irragionevole durata del processo ed è risultato soccombente ovvero ha avuto liquidata una somma modesta nel giudizio presupposto” (così ricorso, pag. 17), allorchè hanno assunto che non è costituzionalmente legittimo non commisurare l’indennizzo “al ritardo effettivo subito dal processo” (così ricorso, pag. 17) ed allorchè hanno assunto che l’esegesi patrocinata dalla corte di merito pone la previsione dell’art. 2 bis, comma 3 cit. in contrasto con l’art. 6, par. 1, della Convenzione E.D.U.

Al riguardo si rimarca quanto segue.

Innanzitutto, che questa Corte ha già avuto cura di puntualizzare che, in tema di equa riparazione da eccessiva durata processuale, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale per irragionevolezza della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 2 in quanto tale norma, garantendo una più stretta relazione tra il significato economico della domanda giudiziale e il paterna d’animo che la parte subisce in attesa della definizione, persegue la ratio di evitare sovracompensazioni (cfr. Cass. 8.7.2016, n. 14047).

Segnatamente, che l’irragionevole durata del processo non rileva di per sè, sibbene in dipendenza del “paterna d’animo” che ha generato, “paterna” a sua volta da correlare inesorabilmente al “valore patrimoniale”, acclarando o acclarato, oggetto della controversia in relazione alla quale il “ritardo” si è registrato: opinar diversamente significherebbe, pur nel quadro delle istanze solidaristiche recepite dalla Costituzione del ‘48, avallare soluzioni propense all’acquisizione di indebite posizioni di vantaggio a scapito della “generalità” in un sistema costituzionale che viceversa ha elevato il “lavoro” ad essenziale fattore di crescita – anche economica – individuale e collettiva.

Evidentemente, che alla luce della suindicata connotazione teleologica del “ristoro” dell’irragionevole durata per nulla rileva la presunta veste di soggetti “deboli” – “braccianti agricoli” – delle ricorrenti: il valore dell’eguaglianza “sostanziale” ex art. 3 Cost., comma 2 non ha, pur in proiezione solidaristica, ragione di esplicarsi, allorchè varrebbe a determinate l’acquisizione di indebite posizioni di vantaggio e risulterebbe – contraddittoriamente – menomata la stessa esigenza di riequilibrio delle posizioni di disfavore cui si pretenderebbe di porre rimedio.

A fortiori, che la surriferita connotazione teleologica del “ristoro” dell’irragionevole durata si impone nel quadro dei valori, essenzialmente di salvaguardia delle libertà e dei diritti fondamentali della Convenzione E.D.U., cui l’art. 117 Cost., comma 1 vincola la potestà legislativa statale e regionale.

Infine, che con ordinanza n. 280/2014 la Consulta ha reputato manifestamente infondata, per erroneità del presupposto interpretativo, la questione di legittimità costituzionale della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 3 in riferimento all’art. 117 Cost., comma 1 (in relazione all’art. 6, par. 1, della C.E.D.U.), nella parte in cui, col disporre che “la misura dell’indennizzo, anche in deroga al comma 1, non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice”, comporterebbe “l’impossibilità di liquidare in alcuna misura un’equa riparazione in favore della parte che, nel processo presupposto, sia risultata interamente soccombente”.

Specificamente, che la Corte Costituzionale ha precisato che la disposizione censurata deve essere intesa nel senso che essa si riferisce ai soli casi in cui il giudice accerta l’esistenza del diritto fatto valere in giudizio dall’attore, il cui valore accertato costituisce un dato oggettivo, che non muta in ragione della posizione che la parte aveva nel processo presupposto; e che non risulta, pertanto, esclusa la possibilità di liquidare un indennizzo a titolo di equa riparazione della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo in favore di chi, attore o convenuto, sia risultato, nello stesso, soccombente.

Destituito di fondamento è parimenti il terzo motivo di ricorso.

Si rappresenta, per un verso, che i giudizi di equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo, proposti ai sensi della L. n. 89 del 2001, non si sottraggono all’applicazione delle regole poste, in tema di spese processuali, dagli artt. 91 c.p.c. e ss., trattandosi di giudizi destinati a svolgersi dinanzi al giudice italiano, secondo le disposizioni processuali dettate dal codice di rito (Cass. 22.1.2010, n. 1101).

Al riguardo, in particolare, si rappresenta che questo Giudice ha specificato che l’opposizione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 5 ter non introduce un autonomo giudizio di impugnazione del decreto che ha deciso sulla domanda, ma realizza una fase a contraddittorio pieno di un unico procedimento, avente ad oggetto la medesima pretesa fatta valere con il ricorso introduttivo; sennonchè, ove detta opposizione sia proposta dalla parte privata rimasta insoddisfatta dall’esito della fase monitoria e, dunque, abbia carattere pretensivo, le spese di giudizio vanno liquidate in base al criterio della soccombenza, a misura dell’intera vicenda processuale, solo in caso di suo accoglimento, mentre, ove essa venga rigettata (è esattamente il caso di specie), fatta salva l’ipotesi di opposizione incidentale da parte dell’amministrazione, le spese vanno regolate in maniera del tutto autonoma e poste, pertanto, anche a carico integrale della parte privata opponente, ancorchè essa abbia diritto a ripetere quelle liquidate nel decreto, in quanto il Ministero opposto, avendo prestato acquiescenza al decreto medesimo, affronta un giudizio che non aveva interesse a provocare e del quale, se vittorioso, non può sopportare le spese (cfr. Cass. 22.12.2016, n. 26851).

Si rappresenta, per altro verso, che il Ministero della Giustizia ha comunque invocato dinanzi alla corte di Catanzaro il rigetto dell’opposizione.

Si rappresenta, per altro verso ancora, che, in tema di regolamento delle spese processuali, il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa; pertanto, esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altri giusti motivi (cfr. Cass. 19.6.2013, n. 15317).

Il Ministero della Giustizia non ha svolto difese.

Nonostante il rigetto del ricorso, pertanto, nessuna statuizione va assunta in ordine alle spese del presente giudizio.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 10 non è soggetto a contributo unificato il giudizio di equa riparazione ex lege n. 89 del 2001. Il che rende inapplicabile il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (comma 1 quater introdotto dala L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, a decorrere dall’1.1.2013) (cfr. Cass. sez. un. 28.5.2014, n. 11915).

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sez. sesta civ. – 2 della Corte Suprema di Cassazione, il 30 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2017

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