Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4283 del 17/02/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 17/02/2017, (ud. 05/12/2016, dep.17/02/2017),  n. 4283

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 19595 – 2015 R.G. proposto da:

P.P., – c.f. (OMISSIS) – elettivamente domiciliata in

Roma, al piazzale delle Belle Arti, n. 8, presso lo studio

dell’avvocato Antonino Pellicanò che la rappresenta e difende in

virtù di procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO della GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

Avverso il decreto dei 9.1/4.2.2015 della corte d’appello di

Catanzaro, assunto nel procedimento iscritto al n. 653/2014 R.V.G.;

Udita la relazione della causa svolta all’udienza pubblica del 5

dicembre 2016 dal consigliere dott. Luigi Abete;

Udito l’avvocato Antonino Pellicanò per la ricorrente.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ricorso ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 3 alla corte d’appello di Catanzaro depositato in data 11.2.2014 P.P. si doleva per l’eccessiva durata del giudizio da ella promosso con ricorso depositato il 12.4.1997 dinanzi al pretore del lavoro di Palmi, proseguito dinanzi alla sezione lavoro della corte di appello di Reggio Calabria, dinanzi alla sezione lavoro di questa Corte ed, in sede di rinvio, dinanzi alla sezione lavoro della corte d’appello di Catanzaro, che aveva liquidato in Euro 289,22 le spese del giudizio di primo grado, in Euro 1.099,50 le spese del giudizio di appello, in Euro 665,00 le spese del giudizio di legittimità ed in Euro 768,00 le spese del giudizio di rinvio, condannando l’I.N.P.S. al relativo pagamento.

Chiedeva che si ingiungesse al Ministero della Giustizia di corrisponderle un equo indennizzo, da determinarsi secondo i parametri di legge, a ristoro dei danni tutti subiti, oltre interessi e spese.

Con decreto del 12.9.2014 la corte d’appello di Catanzaro, in persona del giudice designato, accoglieva il ricorso ed ingiungeva al Ministero resistente di pagare alla ricorrente la somma di Euro 1.200,00, oltre interessi legali e spese, liquidate in Euro 27,00 per spese ed in Euro 210,00 per compensi, da attribuirsi al difensore anticipatario.

Il giudice designato determinava in Euro 200,00 l’indennizzo dovuto per ciascuno dei sei anni di irragionevole durata.

Avverso tale decreto P.P. proponeva opposizione ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 5 ter.

Resisteva il Ministero.

Con decreto dei 9.1/4.2.2015 la corte d’appello di Catanzaro rigettava l’opposizione e condannava l’opponente alle spese di lite.

Esplicitava – la corte – che la previsione della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 3, “che pone un interscindibile legame tra il valore della causa ed equa riparazione, stabilendo che il primo rappresenta un limite per il secondo, è espressione di una convinzione di comune buon senso particolarmente avvertita per le cause bagattellari” (così decreto impugnato, pag. 2); che il giudice designato aveva correttamente determinato il valore della causa con esclusivo riferimento “al valore del bene della vita richiesto con l’atto introduttivo del giudizio presupposto, senza che in esso possa altresì computarsi l’ammontare delle spese processuali liquidate” (così decreto impugnato, pag. 3); che la richiesta formulata dalla ricorrente nel giudizio di primo grado era pari ad euro 1.108,09, sicchè l’indennizzo doveva necessariamente essere contenuto entro tale limite.

Avverso tale decreto ha proposto ricorso sulla scorta di cinque motivi P.P.; ha chiesto che questa Corte ne disponga la cassazione con ogni conseguente statuizione anche in ordine alle spese – da attribuirsi al difensore antistatario – del giudizio di merito e di legittimità; in via subordinata ha chiesto sollevarsi questione di legittimità costituzionale della L. n. 89 de 2001, art. 2 bis, comma 3 in relazione agli artt. 3 e 117 Cost..

Il Ministero della Giustizia non ha svolto difese.

La ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 3.

Deduce che la corte di merito, mercè l’illegittima applicazione del criterio del valore della causa, ha sostanzialmente “svuotato” i principi dettati da questa Corte e dalla Corte E.D.U. in tema di quantificazione dell’indennizzo in materia di controversie di natura assistenziale e previdenziale, principi correlati alla veste di soggetto “debole” di colui che ha agito in giudizio.

Con il secondo motivo la ricorrente in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 2, lett. d), in combinato disposto con l’art. 10 c.p.c.; vizio assoluto di motivazione; motivazione illogica e apparente.

Deduce che la corte distrettuale ha erroneamente determinato il valore del giudizio “presupposto”, giacchè ha escluso “la domanda volta alla corretta liquidazione delle spese processuali, oggetto dei successivi gradi di appello, cassazione e rinvio” (così ricorso, pag. 13); che invero con l’atto di appello avverso la pronuncia del tribunale del lavoro di Palmi aveva impugnato la statuizione in ordine alle spese ed aveva provveduto in tal guisa a formulare una domanda ulteriore, sì che il giudice di rinvio ha riconosciuto per spese processuali del complessivo giudizio l’ulteriore credito di Euro 2.821,72.

Deduce dunque che l’effettivo valore del giudizio “presupposto”, ai sensi dell’art. 10 c.p.c., era pari ad Euro 3.929,81, così ottenuto all’esito della somma di Euro 1.108,09 e di Euro 2.821,72.

Con il terzo motivo la ricorrente in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, denuncia la violazione ed errata applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 3; carenza assoluta di motivazione.

Deduce che, contrariamente all’assunto della corte territoriale, la previsione della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 3 in alcun modo porta deroga ai parametri annuali dell’indennizzo, di cui al comma 1 stesso art..

Deduce ulteriormente che l’interpretazione, quale patrocinata dalla corte di Catanzaro, renderebbe patentemente incostituzionale la previsione della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 3 per violazione degli artt. 3 e 117 Cost..

Con il quarto motivo la ricorrente in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, denuncia la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 in combinato disposto con l’art. 6, comma 1, artt. 13 e 41 C.E.D.U. e con gli artt. 2056 e 1226 c.c.; carenza assoluta di motivazione.

Deduce che il decreto impugnato sovverte i principi su cui poggia il diritto all’equa riparazione, in particolare, il principio per cui ci si può discostare dai parametri indennitari, pari ad Euro 750,00 per i primi tre anni di irragionevole durata e ad Euro 1.000,00 per gli anni successivi, a condizione che il giudice, alla stregua delle allegazioni e delle prove fornite dalle parti, ne dia puntuale spiegazione.

Con il quinto motivo la ricorrente in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, denuncia l’illegittimità, l’illogicità, la contraddittorietà, la carenza assoluta di motivazione in relazione all’operata regolamentazione delle spese di lite.

Deduce che la corte calabrese non ha tenuto conto che in materia di equa riparazione la condanna alle spese è subordinata alla temerarietà della lite;

altresì, che il Ministero resistente non ha formulato specifiche contestazioni in ordine all’azionata pretesa.

Deduce che le riferite circostanze avrebbero giustificato l’integrale compensazione delle spese del giudizio di opposizione.

I primi quattro motivi di ricorso presentano significativi profili di comunanza; sono dunque indubbiamente connessi.

Il che ne suggerisce la disamina contestuale.

I medesimi motivi in ogni caso sono destituiti di fondamento.

La corte d’appello in primo luogo ha correttamente interpretato la L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 3 – “la misura dell’indennizzo, anche in deroga al comma 1, non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice” – quale prefigurante un limite assolutamente invalicabile in sede di quantificazione dell’indennizzo, limite che, siccome questa Corte ha già chiarito, ancora in espressa deroga alle previsioni del medesimo art. 2 bis, comma 1 l’indennizzo al valore della causa, onde evitare sovracompensazioni o arricchimenti occasionali, se non insperati (cfr. Cass. 22.12.2015, n. 25804).

L’assoluta – “in ogni caso” – ed incondizionata – “anche in deroga al comma 1” – operatività del limite e la sua connotazione teleologica rendono del tutto ininfluente la natura “previdenziale” del giudizio “presupposto”.

Non si configura pertanto la violazione dell’art. 2 bis, comma 3 cit..

La corte di merito in secondo luogo ha correttamente sussunto la fattispecie concreta nella previsione dell’art. 2 bis, comma 3 cit..

Il giudizio, della cui eccessiva durata le ricorrenti si dolgono, aveva in origine ad oggetto l’accertamento del diritto all’adeguamento “Istat” dell’indennità di disoccupazione agricola percepita negli anni 1988, 1991 e 1992 ed ha avuto prosecuzione esclusivamente ai fini della regolamentazione delle spese di lite.

Non si delinea perciò la dedotta errata applicazione dell’art. 2 bis, comma 3 cit. in considerazione, appunto, dell’assoluta modestia della “posta in gioco”, del valore della controversia.

Nè in pari tempo il valore della controversia si eleva significativamente all’esito dell’addizione all’originario quantum – Euro 1.108,09 – del complessivo importo delle spese processuali – Euro 2.821,72.

Ciò ben vero a prescindere dal rilievo per cui questa Corte ha avuto modo di puntualizzare che le spese processuali cumulabili alla domanda, ai fini della determinazione del valore di essa, sono soltanto quelle occorse per procedimenti autonomi dal processo introdotto con la domanda stessa, non anche quelle (per dattilografia, copie fotostatiche, studio, consultazioni e simili) sostenute prima di tale processo e ai fini della sua instaurazione (cfr. Cass. 17.12.2009, n. 26592).

La corte distrettuale in terzo luogo ha dato ampia ragione del suo dictum alla stregua della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 3 (la corte di Catanzaro – pag. 2 – ha in termini più che condivisibili posto in risalto che “sarebbe, infatti, inimmaginabile oltre che illogico che per l’eccessiva durata di un processo nel quale tuttavia si controverta di beni o somme per un valore di poche centinaia o addirittura poche decine di euro, possa mai presumersi una sofferenza morale o patema d’animo tale da meritare indennizzi di Euro 750 o anche solo 500 per ogni anno di ritardo”).

Non sussiste quindi l’asserito assoluto difetto di motivazione.

L’ineccepibile e congrua applicazione al caso di specie della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 3 qualifica come del tutto ingiustificato l’assunto della ricorrente secondo cui la statuizione della corte calabrese “stravolge il funzionamento e l’impostazione teorica dei fondamenti e della natura del diritto all’equa riparazione e tradisce lo spirito della Corte E.D.U.” (così ricorso, pag. 22).

Questa Corte del resto ha già da tempo chiarito che, ai fini della liquidazione dell’indennizzo del danno non patrimoniale conseguente alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ai sensi della L. n. 89 del 2001, non può ravvisarsi un obbligo di diretta applicazione dell’orientamento della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui va riconosciuta una somma forfettaria nel caso di violazione del termine nei giudizi aventi particolare importanza, fra cui anche la materia previdenziale; da tale principio, infatti, non può derivare automaticamente che tutte le controversie di tal genere debbano considerarsi di particolare importanza, posto che il risarcimento non può essere ragguagliato alla tipologia dei diritti per cui si procede o alla situazione di maggiore o minore necessità dell’accipiens, bensì al disagio avvertito in relazione al ritardo della decisione, che in relazione a somme modeste non può certamente essere sopravvalutato (cfr. Cass. 11.9.2009, n. 19691).

Patentemente infondato è, d’altro canto, il dubbio di costituzionalità che la ricorrente ha prospettato, allorchè ha assunto che l’interpretazione patrocinata dalla corte d’appello “creerebbe una ingiustificata discriminazione tra chi ha subito un’irragionevole durata del processo ed è risultato vincitore e chi ha avuto una irragionevole durata del processo ed è risultato soccombente ovvero ha avuto liquidata una somma modesta nel giudizio presupposto” (così ricorso, pag. 20), allorchè ha assunto che non è costituzionalmente legittimo non commisurare l’indennizzo “al ritardo effettivo subito dal processo” (così ricorso, pag. 20) ed allorchè ha assunto che l’esegesi patrocinata dalla corte territoriale pone la previsione dell’art. 2 bis, comma 3 cit. in contrasto con l’art. 6, par. 1, della Convenzione E.D.U..

Al riguardo si rimarca quanto segue.

Innanzitutto, che questa Corte ha già avuto cura di puntualizzare che, in tema di equa riparazione da eccessiva durata processuale, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale per irragionevolezza della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 3, in quanto tale norma, garantendo una più stretta relazione tra il significato economico della domanda giudiziale e il patema d’animo che la parte subisce in attesa della definizione, persegue la ratio di evitare sovracompensazioni (cfr. Cass. 8.7.2016, n. 14047).

Segnatamente, che l’irragionevole durata del processo non rileva di per sè, sibbene in dipendenza del “patema d’animo” che ha generato, “patema” a sua volta da correlare inesorabilmente al “valore patrimoniale”, acclarando o acclarato, oggetto della controversia in relazione alla quale il “ritardo” si è registrato: opinar diversamente significherebbe, pur nel quadro delle istanze solidaristiche recepite dalla Costituzione del ‘48, avallare soluzioni propense all’acquisizione di indebite posizioni di vantaggio a scapito della “generalità” in un sistema costituzionale che viceversa ha elevato il “lavoro” ad essenziale fattore di crescita – anche economica – individuale e collettiva.

Evidentemente, che alla luce della suindicata connotazione teleologica del “ristoro” dell’irragionevole durata per nulla rileva la presunta veste di soggetto “debole” – “bracciante agricolo” – della ricorrente: il valore dell’eguaglianza “sostanziale” ex art. 3 Cost., comma 2 non ha, pur in proiezione solidaristica, ragione di esplicarsi, allorchè varrebbe a determinate l’acquisizione di indebite posizioni di vantaggio e risulterebbe – contraddittoriamente – menomata la stessa esigenza di riequilibrio delle posizioni di disfavore cui si pretenderebbe di porre rimedio.

A fortiori, che la surriferita connotazione teleologica del “ristoro” dell’irragionevole durata si impone nel quadro dei valori, essenzialmente di salvaguardia delle libertà e dei diritti fondamentali della Convenzione E.D.U., cui l’art. 117 Cost., comma 1 vincola la potestà legislativa statale e regionale.

Infine, che con ordinanza n. 280/2014 la Consulta ha reputato manifestamente infondata, per erroneità del presupposto interpretativo, la questione di legittimità costituzionale della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, comma 3 in riferimento all’art. 117 Cost., comma 1 (in relazione all’art. 6, par. 1, della C.E.D.U.), nella parte in cui, col disporre che “la misura dell’indennizzo, anche in deroga al comma 1, non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice”, comporterebbe “l’impossibilità di liquidare in alcuna misura un’equa riparazione in favore della parte che, nel processo presupposto, sia risultata interamente soccombente”.

Specificamente, che la Corte Costituzionale ha precisato che la disposizione censurata deve essere intesa nel senso che essa si riferisce ai soli casi in cui il giudice accerta l’esistenza del diritto fatto valere in giudizio dall’attore, il cui valore accertato costituisce un dato oggettivo, che non muta in ragione della posizione che la parte aveva nel processo presupposto; e che non risulta, pertanto, esclusa la possibilità di liquidare un indennizzo a titolo di equa riparazione della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo in favore di chi, attore o convenuto, sia risultato, nello stesso, soccombente.

Destituito di fondamento è analogamente il quinto motivo di ricorso.

Si rappresenta, per un verso, che i giudizi di equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo, proposti ai sensi della L. n. 89 del 2001, non si sottraggono all’applicazione delle regole poste, in tema di spese processuali, dall’art. 91 c.p.c. e ss., trattandosi di giudizi destinati a svolgersi dinanzi al giudice italiano, secondo le disposizioni processuali dettate dal codice di rito (Cass. 22.1.2010, n. 1101).

Al riguardo, in particolare, si rappresenta che questo Giudice ha specificato che l’opposizione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 5 ter non introduce un autonomo giudizio di impugnazione del decreto che ha deciso sulla domanda, ma realizza una fase a contraddittorio pieno di un unico procedimento, avente ad oggetto la medesima pretesa fatta valere con il ricorso introduttivo; sennonchè, ove detta opposizione sia proposta dalla parte privata rimasta insoddisfatta dall’esito della fase monitoria e, dunque, abbia carattere pretensivo, le spese di giudizio vanno liquidate in base al criterio della soccombenza, a misura dell’intera vicenda processuale, solo in caso di suo accoglimento, mentre, ove essa venga rigettata (è esattamente il caso di specie), fatta salva l’ipotesi di opposizione incidentale da parte dell’amministrazione, le spese vanno regolate in maniera del tutto autonoma e poste, pertanto, anche a carico integrale della parte privata opponente, ancorchè essa abbia diritto a ripetere quelle liquidate nel decreto, in quanto il Ministero opposto, avendo prestato acquiescenza al decreto medesimo, affronta un giudizio che non aveva interesse a provocare e del quale, se vittorioso, non può sopportare le spese (cfr. Cass. 22.12.2016, n. 26851).

Si rappresenta, per altro verso, che il Ministero della Giustizia ha comunque invocato dinanzi alla corte di Catanzaro il rigetto dell’opposizione.

Si rappresenta, per altro verso ancora, che, in tema di regolamento delle spese processuali, il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa; pertanto, esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altri giusti motivi (cfr. Cass. 19.6.2013, n. 15317).

Il Ministero della Giustizia non ha svolto difese.

Nonostante il rigetto del ricorso, pertanto, nessuna statuizione va assunta in ordine alle spese del presente giudizio.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 10 non è soggetto a contributo unificato il giudizio di equa riparazione ex lege n. 89 del 2001. Il che rende inapplicabile il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (comma 1 quater introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, a decorrere dall’1.1.2013) (cfr. Cass. sez. un. 28.5.2014, n. 11915).

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sez. sesta civ. – 2 della Corte Suprema di Cassazione, il 30 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2017

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