Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4268 del 17/02/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 17/02/2017, (ud. 22/11/2016, dep.17/02/2017),  n. 4268

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. NEGRI DELLE TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 29439-2014 proposto da:

P.C. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

PANAMA 74, presso lo studio dell’avvocato GIANNI EMILIO IACOBELLI,

che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

KOCH GLITSCH ITALIA S.R.L. già MOLIPAK S.R.L. p.i. (OMISSIS), in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR 19, presso lo studio legale De

Luca Tamajo Toffoletto e soci, rappresentata e difesa degli avvocati

FRANCO TOFFOLETTO, PAOLA PUCCI, FEDERICA PATERNO’, RAFFAELE DE LUCA

TAMAJO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 271/2013 della CORTE D’APPELLO di CAMPOBASSO,

depositata il 09/12/2013 R.G.N. 119/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/11/2016 dal Consigliere Dott. MANNA ANTONIO;

udito l’Avvocato IACOBELLI GIANNI EMILIO;

udito l’Avvocato GAROFALO BENEDETTA per delega verbale Avvocato DE

LUCA TAMAJO RAFFAELE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI RENATO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza depositata il 9.12.13 la Corte d’appello di Campobasso rigettava il gravame di P.C. contro la sentenza del Tribunale della stessa sede che – per quel che rileva nella presente sede – aveva respinto l’impugnativa del licenziamento per giusta causa intimatogli il 9.11.06 da Molipak S.r.l. (alle cui dipendenze P.C. lavorava come direttore di stabilimento) per aver autorizzato l’irregolare esecuzione d’una commessa consistente nella produzione di 57 pannelli di spessore inferiore al prescritto.

I giudici di merito respingevano, altresì, ogni domanda risarcitoria e la richiesta di pagamento di somme scaturenti dal patto di non concorrenza in essere tra le parti.

Per la cassazione della sentenza ricorre P.C. affidandosi a cinque motivi.

Koch-Glitsch Italia S.r.l. (già Molipak S.r.l.) resiste con controricorso.

Le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Il difensore del ricorrente ha depositato osservazioni scritte ex art. 379 c.p.c., u.c., alle conclusioni del PG.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1. Preliminarmente deve osservarsi che l’eccezione di inammissibilità del ricorso è infondata, perchè il protocollo di intesa richiamato nella memoria della controricorrente, oltre ad essere successivo alla proposizione del ricorso in oggetto, di per sè non è vincolante ai fini del giudizio di ammissibilità o meno dell’impugnazione. Quanto ai profili di non autosufficienza, essendo ravvisabili soltanto in relazione al quinto motivo di ricorso (v. meglio infra) non sono tali da invalidare l’intero atto.

2.1. Il primo motivo denuncia omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione in corso di causa, fatti relativi alla presunta conoscenza, da parte del ricorrente, della difformità dei pannelli al momento della loro produzione, alla presunta autorizzazione, sempre da parte di P.C., a completare la fornitura di pannelli diversi da quelli commissionati, al ruolo e alle responsabilità del ricorrente nel controllo dell’attività produttiva, alla mancata attivazione della procedura di gestione delle non conformità, alla non riconducibilità al direttore di stabilimento della documentazione allegata alla fornitura difforme, nonchè alla prassi aziendale.

2.2. Doglianza sostanzialmente analoga viene fatta valere con il secondo motivo, sotto forma di denuncia di violazione e falsa applicazione dell’art. 1455, 2104, 2106 e 2119 c.c., L. n. 604 del 1966, artt. 1, 3 e 5, L. n. 300 del 1970, art. 7, artt. 115 e 116 c.p.c. e del principio di non contestazione, degli artt. 2727 e 2697 c.c., e degli artt. 1362 e ss. c.c..

2.3. Con il terzo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 e 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., degli artt. 1175 e 1375 c.c., degli artt. 1455, 2104, 2106 e 2119 c.c., L. n. 604 del 1966, artt. 1, 3 e 5, per avere la sentenza impugnata ritenuto proporzionata all’addebito la sanzione disciplinare del licenziamento per giusta causa, omettendo di considerare in maniera unitaria e sistematica ogni aspetto concreto della vicenda sotto il profilo oggettivo e soggettivo, con particolare riferimento alla lunga durata del rapporto di lavoro, all’assenza di recidiva e al comportamento complessivo delle parti.

2.4. Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli art. 2095 c.c., L. n. 300 del 1970, art. 18, artt. 115 e 116 c.p.c., 2697 c.c., artt. 2087 e 2043 c.c. e art. 112 c.p.c., per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto assorbita, in forza del riconoscimento d’una giusta causa di recesso, la questione della natura meramente convenzionale della qualifica dirigenziale attribuita al ricorrente.

2.5. Il quinto motivo deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2125 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., del principio di non contestazione e dell’art. 2697 c.c., degli artt. 123 e 437 c.p.c., degli artt. 1362 e ss. c.c., nella parte in cui la sentenza impugnata ha negato, in base ad un’erronea traduzione del contratto, il diritto alle somme spettanti come corrispettivo del patto di non concorrenza e a titolo di compartecipazione agli utili, nonostante che in appello il ricorrente avesse espressamente chiesto, anche ex art. 437 c.p.c., di essere autorizzato a depositare una traduzione giurata del contratto di assunzione; inoltre conclude il ricorso – la sentenza ha invertito l’onere della prova imputando al ricorrente la mancanza dei presupposti contrattuali cui sarebbe stata subordinata tale richiesta economica.

3.1. I primi due motivi – da trattarsi congiuntamente perchè connessi – sono inammissibili perchè, ad onta dei richiami normativi contenuti nel secondo di essi, sostanzialmente sollecitano una rivisitazione nel merito della vicenda e delle risultanze istruttorie affinchè se ne fornisca un diverso apprezzamento.

Si tratta di operazione vietata in sede di legittimità, ancor più ove si consideri che in tal modo il ricorso finisce con il riprodurre (peraltro in maniera irrituale: cfr. Cass. S.U. n. 8053/14) sostanziali censure ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, a monte non consentite nel caso di specie dall’art. 348 ter c.p.c., commi 4 e 5, essendosi in presenza di doppia pronuncia conforme di merito basata sulle medesime ragioni di fatto.

3.2. Il terzo motivo è infondato.

Per costante giurisprudenza, il giudice di merito deve valutare se vi è proporzione tra l’infrazione commessa dal lavoratore e la sanzione irrogatagli, a tal fine tenendo conto anche delle circostanze oggettive e soggettive della condotta e di tutti gli altri elementi idonei a verificare se il disposto dell’art. 2119 c.c. – richiamato dalla L. n. 604 del 1966, art. 1, – sia adeguato alla fattispecie concreta (cfr., ex aliis, Cass. n. 8456/11; Cass. n. 736/02; Cass. n. 1144/2000).

In altre parole, il giudice investito della domanda con cui si chieda l’invalidazione d’un licenziamento disciplinare, accertatane in primo luogo la sussistenza in punto di fatto, deve controllare che l’infrazione contestata sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di recesso (ossia che costituisca notevole inadempimento degli obblighi del dipendente) e, in caso di esito positivo di tale delibazione, deve poi apprezzare in concreto (e non semplicemente in astratto) la gravità della condotta. Infatti, è pur sempre necessario che essa rivesta il carattere di grave negazione dell’elemento essenziale della fiducia e sia idonea a ledere irrimediabilmente l’affidamento circa la futura correttezza nell’eseguire la prestazione dedotta in contratto, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del dipendente rispetto agli obblighi che gli fanno carico (cfr., ex aliis, Cass. n. 15058/15; Cass. n. 2013/12; Cass. n. 2906/05; Cass. n. 16260/04; Cass. n. 5633/01).

A tal fine, sempre secondo costante giurisprudenza di questa S.C., bisogna tener conto dei connotati oggettivi e soggettivi del fatto, vale a dire del danno arrecato, dell’intensità del dolo o del grado della colpa, dei precedenti disciplinari etc.

In breve, la proporzionalità della condotta va indagata sia in astratto (rispetto alle previsioni pattizie e alla nozione legale di giusta causa o giustificato motivo) sia in concreto (in relazione alle singole circostanze oggettive e soggettive che l’hanno caratterizzata), cosa che l’impugnata sentenza non ha trascurato di fare nel momento in cui ha motivatamente posto l’accento sulla gravità della condotta addebitata e sulla sua intenzionalità, avendo il ricorrente ammesso di aver consapevolmente provato a nascondere i pannelli difettosi nel novero di quelli oggetto della commessa, invano cercando di fare in modo che il committente non se ne accorgesse.

Sono – queste ultime – valutazioni in punto di fatto, in quanto tali insindacabili in sede di legittimità (cfr., ex aliis, Cass. n. 7948/11).

3.3. Il quarto motivo è infondato.

Accertare, nella controversia in oggetto, la natura meramente convenzionale della qualifica dirigenziale attribuita al ricorrente avrebbe potuto incidere solo sul regime di tutela applicabile in caso di invalidità del licenziamento, invalidità che – però – è stata esclusa, essendosi confermata l’esistenza d’una giusta causa di recesso.

3.4. Anche il quinto motivo è da disattendersi.

Si premetta che in esso si deducono, in sostanza, due vizi di fondo: un error in procedendo (nella parte in cui ci si duole della mancata acquisizione d’una traduzione giurata del contratto diversa da quella depositata dalla società) e uno in iudicando (là dove si lamenta la violazione dei canoni ermeneutici codicistici e del criterio di ripartizione dell’onere della prova).

In ordine al primo profilo, deve osservarsi che la censura si rivela non autosufficiente quanto a decisività.

E’ pur vero che sarebbe stato possibile acquisire un’altra traduzione giurata del documento già in atti, non ostandovi il disposto dell’art. 437 c.p.c., comma 2, perchè tecnicamente non si sarebbe trattato di prova nuova; tuttavia, per consentire di apprezzare la decisività del denunciato error in procedendo, parte ricorrente avrebbe dovuto trascrivere le due (in ipotesi) differenti traduzioni della clausola 9.5 del contratto per evidenziarne il diverso tenore sul punto oggetto dell’interpretazione censurata, il che non ha fatto, essendosi limitata a trascrivere solo la propria versione del testo.

Per quanto concerne, poi, il denunciato error in iudicando, il mezzo si limita ad invocare l’applicazione del prioritario canone dell’interpretazione letterale di cui all’art. 1362 c.c., ossia chiede non l’applicazione d’un canone diverso od ulteriore rispetto a quello già seguito dai giudici di merito, ma soltanto un’interpretazione alternativa a quella fornita in sentenza attraverso il medesimo criterio ermeneutico.

In altre parole, si tratta d’una censura non deducibile mediante ricorso ex art. 360 c.p.c., essendo l’interpretazione di una dichiarazione negoziale riservata al giudice del merito, il cui convincimento è insindacabile in sede di legittimità se immune da violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale (cfr., ex aliis, Cass. n. 2396/02), ovvero del loro rapporto gerarchico, in forza del quale i criteri strettamente interpretativi prevalgono su quelli interpretativi – integrativi (cfr., ex aliis, Cass. n. 6852/10).

Infine, quanto all’onere di dimostrare l’esistenza dei presupposti contrattuali cui sarebbe stata subordinata la richiesta economica, è indubbio che esso ricade – ex art. 2697 c.c., comma 1 – sull’attore, trattandosi di fatti costitutivi della pretesa azionata.

4.1. In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 3.600,00 di cui Euro 100,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre al 15% di spese generali e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 22 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 201717 febbraio 2017

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