Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4264 del 22/02/2010

Cassazione civile sez. lav., 22/02/2010, (ud. 11/01/2010, dep. 22/02/2010), n.4264

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BATTIMIELLO Bruno – Presidente –

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

Dott. LA TERZA Maura – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 4080-2009 proposto da:

P.M., C.M., P.O.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE MAZZINI 6, presso lo studio

dell’avvocato VITALE ELIO, che li rappresenta e difende, giusta

delega speciale a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

ENTE MINERARIO SICILIANO – In Liquidazione – in persona del

Commissario Liquidatore e legale rappresentante pro-tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MONTE ZEBIO 37, presso lo

studio dell’avvocato FURITANO MARCELLO, rappresentato e difeso

dall’avvocato BARRESI GIOVANNI, giusta procura speciale a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 677/2007 della CORTE D’APPELLO di CATANIA del

25.10.07, depositata il 07/02/2008;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio

dell’11/01/2010 dal Consigliere Relatore Dott. GIOVANNI MAMMONE;

udito per i ricorrenti l’Avvocato Elio Vitale che si riporta agli

scritti, insistendo per la trattazione del ricorso in pubblica

udienza;

udito per il controricorrente l’Avvocato Marcello Furitano (per

delega avv. Giovanni Barresi) che si riporta agli scritti.

E’ presente il P.G. in persona del Dott. CARLO DESTRO che nulla

osserva rispetto alla relazione scritta.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO E DIRITTO

Con ricorso al giudice del lavoro di Palermo, C.M., P.O. e P.M., premesso di essere dipendenti dell’Ente minerario siciliano, chiedevano fosse loro riconosciuto il diritto agli scatti di anzianità in base all’accordo aziendale 14.11.88, in forza del quale erano stati corrisposti solo acconti. L’Ente si costituiva deducendo che quell’accordo era venuto meno in quanto non approvato dagli organi tutori e chiedeva in riconvenzionale la restituzione delle somme corrisposte in sua attuazione.

Rigettata la domanda e proposto appello dai detti dipendenti, il secondo giudice rigettava l’impugnazione ritenendo nullo l’accordo in questione.

A seguito di ricorso dei dipendenti la Corte di Cassazione cassava l’impugnata sentenza e rinviava alla Corte d’appello di Catania. Il giudice di rinvio rilevava che la Corte di cassazione aveva accolto il primo motivo di impugnazione affermando l’esistenza del giudicato in punto di validità dell’accordo 14.11.88 e che, tuttavia, avrebbero dovuto essere esaminate tutte le questioni inerenti la efficacia, la portata ed i limiti di applicabilità dello stesso.

All’esito di un’articolata disamina della genesi di tale fonte normativa, il giudice di merito riteneva che l’accordo sindacale 14.11.88, pur validamente posto, era stato in realtà superato e successivamente revocato da un successivo accordo sindacale del 2.8.91, dal quale era derivata una regolamentazione della materia oggetto della controversia completamente diversa; pertanto rigettava l’appello.

Proponevano ricorso per cassazione contro la sentenza del giudice di rinvio i predetti deducendo tre motivi: a-b) violazione degli artt. 1173, 1322, 1362, 1363, 1372, 1373, 1965, 2067, 2069, 2070 e 2071 c.c., in quanto la sentenza impugnata sarebbe errata sotto una duplice prospettiva: a.1) per aver violato “tutte le norme che sovrintendono la disciplina normativa della contrattazione collettiva” e b.1) per aver ritenuto che la pretesa dei ricorrenti fosse fondata esclusivamente sulla Delib. Commissariale n. 125 del 1988; c) omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione per avere il giudice di rinvio ritenuto di dover affrontare nuovamente le questioni riguardanti l’efficacia, la portata e l’interpretazione dell’accordo.

L’Ente minerario siciliano in liquidazione si difendeva con controricorso.

Il relatore ha depositato relazione ex art. 380 bis c.p.c., che è stata comunicata al Procuratore generale ed è stata notificata ai difensori costituiti. I ricorrenti hanno depositato memoria.

Il ricorso è inammissibile.

Questa Corte ritiene che ove con il ricorso per Cassazione si facciano valere la violazione di legge o di contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in ossequio al disposto dell’art. 366 bis c.p.c., deve proporsi almeno un quesito per ogni motivo o censura; tuttavia, la frammentazione di un unico motivo in una pluralità di quesiti non determina di per sè l’inammissibilità del ricorso, allorquando il giudice sia in grado di ridurre ad unità i quesiti formulati, attraverso una lettura che sia agevole ed univoca, per la chiarezza del dato testuale (Cass. 21.9.07 n. 19560, la quale precisa che il rapporto corrente fra il motivo ed il relativo quesito è assimilabile a quello intercorrente fra motivazione e dispositivo della sentenza, dovendo la decisione rapportarsi al motivo che sorregge il quesito in termini simili a quelli che caratterizzano la corrispondenza tra motivazione e dispositivo della sentenza; v. anche Cass. 29.1.08 n. 1906).

Con la memoria sopra menzionata i ricorrenti sostengono di essersi adeguati a tale principio in quanto nel ricorso – articolato su tre motivi, ognuno dei quali suddiviso in più censure – sulla base di ogni censura hanno formulato, in ossequio all’art. 366 bis c.p.c., un quesito di diritto, allo scopo di offrire al Collegio un ordinato iter argomentativo ed una consequenzialità logico-giuridica dei vari passaggi motivazionali fondanti i principi di diritto da enunziare in sentenza.

Osserva il Collegio che nel caso di specie parte ricorrente ha proposto alla Corte tre motivi con cui vengono affrontati in termini generali questioni di diritto della massima importanza (tanto vale anche per il terzo motivo, ove sotto le spoglie del vizio di motivazione si esamina in realtà la complessa questione dei limiti del giudizio di rinvio in relazione al contenuto della sentenza rescindente). Non vengono, tuttavia, formulati puntuali quesiti di diritto, ma viene dedotta una indistinta sequela di interrogativi tra di loro scoordinati – a volte consistenti in mere perifrasi di passaggi delle argomentazioni adottate nei motivi, altre volte strettamente legati a circostanze di fatto non risultanti dalla sentenza impugnata – dai quali risulta impossibile la reductio ad unum delle questioni sottoposte ad giudice di legittimità (gli interrogativi sono trentatre, articolati in circa nove fitte pagine di esposizione).

Tale tecnica espositiva, equivocando circa il contenuto del principio di diritto enunziato dalla sentenza n. 19560 sopra indicata, persegue il risultato opposto a quello che si prefigge l’art. 366 bis c.p.c., che si propone di sintetizzare il contenuto giuridico delle censure sottoposte al giudice in brevi ed efficaci proposizioni di diritto, nonchè di evidenziare con altrettanta sintesi le parti della motivazione della pronunzia impugnata ritenute carenti.

Ritiene, dunque, il Collegio che, in ragione di tale carenza di formulazione, il ricorso sia inammissibile per violazione dell’art. 366 bis c.p.c..

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti alle spese che liquida in Euro 30,00 per esborsi ed in Euro 2.000,00 per onorari, oltre spese generali, Iva e Cpa.

Così deciso in Roma, il 11 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2010

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