Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4264 del 20/02/2013


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Civile Sent. Sez. 2 Num. 4264 Anno 2013
Presidente: FELICETTI FRANCESCO
Relatore: FALASCHI MILENA

SENTENZA

Data pubblicazione: 20/02/2013

comuni di edificio
di cooperativa Accertamento

sul ricorso (iscritto al N.R.G. 31150/06) proposto da:
MARINUZZI GINO, rappresentato e difeso, in forza di procura speciale in calce al ricorso,
dall’Avv.to Dino Valenza del foro di Roma ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in
Roma, via Giuseppe Ferrari n. 11;
– ricorrente contro
COOPERATIVA LA FRECCIA BANCA a r.I., in persona del liquidatore pro tempore,
rappresentata e difesa dall’Avv.to Pierluigi Winkler del foro di Roma, in virtù di procura speciale
apposta a margine del controricorso, ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Roma,
via Crescenzio n. 43;
– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 2275 depositata il 17 maggio 2006.

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 9 novembre 2012 dal
Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;

uditi gli Avv.ti Dino Valenza, per parte ricorrente, e Pierluigi Winkler, per parte resistente;

Pratis, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso, in subordine per il rigetto.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato in data 30 novembre 1992 la Cooperativa LA FRECCIA BIANCA a
r.l. in liquidazione evocava, dinanzi al Tribunale di Roma, Gino MARINUZZI esponendo che il
giorno 25.4.1964 Andreina Giacon aveva effettuato la prenotazione dell’appartamento posto al
piano attico dello stabile sito in Roma, via del Vicario n. 96, costruito dalla medesima cooperativa
e che successivamente aveva occupato abusivamente il piano superattico destinato a locale
comune lavatoio e locale da sgombero, trasformandolo in appartamento; aggiungeva che il
20.5.1988 la Giacon aveva dato le proprie dimissioni in relazione alla quota dell’appartamento
posto ai piani attico e superattico, recedendo da ogni rapporto con la cooperativa e che deceduta
la ex socia 18.2.1992 nei rapporti gli era subentrato per successione il figlio, Gino MARINUZZI, al
quale, con lettera del 10.1.1992, era stato comunicato l’invito a restituire l’immobile, mai
assegnato ad alcuno, ma questi non vi aveva provveduto; tanto premesso, chiedeva la condanna
del convenuto all’immediato rilascio dell’immobile ed al pagamento dell’indennità di occupazione
da determinarsi in corso di causa.
Instaurato il contraddittorio, nella resistenza del MARINUZZI, il quale eccepiva l’intervenuta
usucapione ventennale dell’appartamento per avere la madre posseduto l’appartamento interno
14 ininterrottamente dal 25.4.1964 alla data del decesso, avvenuto 1’8.2.1989, e per avere egli,
quale unico erede, continuato nel possesso, per cui spiegava riconvenzionale in tal senso, il

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udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Pierfelice

giudice adito, espletata istruttoria, accoglieva la domanda attorea — e per l’effetto respingeva
quella riconvenzionale — condannando il convenuto all’immediato rilascio dell’immobile.
In virtù di rituale appello interposto dal MARINUZZI, con il quale lamentava l’erroneità della
decisione del giudice di primo grado per non avere ritenuto provata l’interversione del possesso,

Corte di appello di Roma, nella resistenza della cooperativa appellata, respingeva il gravame.
A sostegno della decisione adottata la corte distrettuale evidenziava la correttezza della
valutazione dei fatti e della normativa applicata dal giudice di prime cure, stante la prova offerta a
fondamento delle ragioni attoree dalla copia del libro soci della cooperativa ove risultavano la
prenotazione alla data del 25.4.1964 “di appartamento attico e superattivo” e dalla data del
20.5.1986 le dimissioni della Giacon quale socia.
Aggiungeva che seppure il MARINUZZI aveva precisato che la Giacon non avrebbe potuto
prenotare i locali adibiti a servizi, non spiegava però la prenotazione del superattico a quale
consistenza immobiliare potesse riferirsi, atteso che il piano attico si identificava negli interni 12 e
13, il superattico costituiva l’interno 14; del resto la lettura delle ripartizioni delle spese
condominiali inerenti all’anno 1986 confermavano l’identificazione del piano superattico con
l’appartamento interno 14, immobile che nella scheda della visura catastale del 30.6.1987
risultava, nella attuale consistenza, essere intestato alla cooperativa. Da quanto sopra la corte di
merito traeva il convincimento che la Giacon nel dimettersi dalla qualità di socia prenotata ria di
appartamento posto al piano attico e superattico rinunciava alle quote prenotate, in ordine alle
quale si era instaurato un rapporto di mera detenzione e non di possesso, per cui il MARINUZZI
per dare prova dell’intervenuta usucapione dell’appartamento avrebbe dovuto dimostrare
l’interversio possessionis, non deponendo in tal senso la concessione in locazione del bene a
terzi, temporalmente inidonea perché manifestazione recettizia solo nel 1986, né la presentazione

di istanza di sanatoria ai fini edilizi che poteva essere prodotta da chiunque.

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riconducendo la fattispecie nell’ambito dell’art. 1141 comma 2, c.c. anziché nel primo comma, la

Concludeva affermando che l’atto di recesso della Giacon alle quote dell’attico e del superattico
costituivano prova dell’inequivoca volontà della stessa di rinunciare tacitamente all’usucapione,
per cui solo successivamente avrebbe potuto essere computato un nuovo periodo ai fini della
maturazione del tempo occorrente per l’acquisizione del bene a titolo originario.

MARINUZZI, articolato su un unico motivo, al quale ha resistito la cooperativa con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Va preliminarmente esaminata l’eccezione di tardività del ricorso dedotta da parte
controricorrente.
EssQ è destituito di fondamento posto che la richiesta di notifica a mezzo posta del ricorso venne
depositata presso l’Ufficio Unico U.G. della Corte di Roma e da questo inviato ex ad. 149 c.p.c. il
20.11.2006 e quindi certamente in tempo utile rispetto al decorso dei sessanta giorni dalla notifica
della sentenza di appello del 21.9.2006 (ex multis, Cass. n. 21409 del 2004 e n. 13216 del 2009);
che, poi, la consegna al destinatario sia stata eseguita solo il giorno successivo è dato imputabile
alla organizzazione dell’Ufficio postale, organizzazione che è del tutto indifferente ai fini della
tempestività della consegna per la notifica.
Si può quindi venire all’esame dell’unico motivo del ricorso, con il quale il ricorrente
denuncia la violazione o errata interpretazione degli artt. 1140, 1141 e 1158 c.c., oltre a
insufficiente o contraddittoria motivazione, per avere la corte di merito ritenuto risolutiva ai fini
della decisione l’annotazione sul libro soci della cooperativa della prenotazione in cui veniva
indicato “di appartamento attico e superattivo”, affermazione in contraddizione con la lettura delle
ripartizioni delle spese condominiali inerenti l’anno 1986, dove risultano per l’int. 14 sia il nome
della Giacon sia quello del conduttore, in virtù delle quali la stessa non poteva considerarsi mera
detentrice dell’int. 14 al superattico, appartamento abusivamente occupato, per cui nessuna

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Avverso la indicata sentenza della Corte di appello di Roma ha proposto ricorso per cassazione il

conseguenza doveva farsi discendere dalle dimissioni della socia relativamente all’int. 14. Il
motivo culmina nel seguente quesito: “Dica la Suprema corte se l’occupazione abusiva di locali
servizi comuni da parte del socio di una cooperativa edilizia costituisca possesso o mera
detenzione, in conseguenza delle dimissioni relativamente ad appartamenti prenotati”.

conformità all’art. 366 bis c.p.c., secondo periodo (introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40,
art. 27, comma 2; in tal senso, Cass. 22 giugno 2007 n. 14682; Cass. 19 dicembre 2006 n.
27130; Cass. 28 febbraio 2007 n. 4640; Cass. 1° ottobre 2007 n. 20603).
Ciò posto, con l’unico motivo il MARINUZZ1 denuncia, nel medesimo contesto, la violazione di
legge ed il vizio di motivazione della sentenza impugnata.
Al riguardo si ricorda che le Sezioni unite civili di questa Corte hanno affermato (sentenza 1°
ottobre 2007 n. 20603) che il quesito dell’impugnazione di legittimità, conclusivo di qualsiasi
motivo addotto nel ricorso per cassazione, è da concepire quale istituto di genere, di cui si danno
le due specie del quesito di diritto, previsto dall’art. 366 bis c,p.c., primo periodo, e del quesito
motivazionale, previsto dall’ad. 366 bis c.p.c., comma 1, secondo periodo. La formulazione del
primo è richiesta espressamente dal legislatore, mentre l’altrettanto necessaria formulazione del
secondo è desunta implicitamente dal fondamento dell’istituto del quesito dell’impugnazione di
legittimità. Tale fondamento risiede nel bilanciamento o coniugazione dell’interesse personale e
specifico del ricorrente ad una decisione della lite diversa (e più favorevole)” con “quello generale
all’esatta osservanza ed all’uniforme interpretazione della legge”, onde alle parti è “imposto
l’onere della sintetica ed esplicita enunciazione del nodo essenziale della questione giuridica di
cui egli auspica una soluzione più favorevole da quella adotta dalla sentenza impugnata”. Detta
interpretazione esige che il ricorrente formuli i motivi di ricorso secondo il metodo della
spiegazione dei fatti attraverso l’analisi d& loro elementi. Ciò significa, alla stregua della

giurisprudenza di questa code che si è venuta formando nelle prime applicazioni del nuovo

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Il ricorso, poiché attiene a sentenza depositata il 17 maggio 2006, deve essere strutturato in

regime processuale, che non possono più proporsi, come accadeva nel regime precedente,
motivi cumulativi per violazione di legge e per vizi di motivazione e che devono essere tenuti
distinti i motivi per le diverse illegittimità previste nell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1-4; in
particolare, il motivo per violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve evidenziare

proposto differente vizio di motivazione della sentenza impugnata (così, Cass. 19 ottobre 2006 n.
22499; Cass. 19 dicembre 2006 n. 27130; Cass. 5 gennaio 2007 n. 36; Cass. 21 febbraio 2007 n.
4071; Cass. 28 febbraio 2007 n. 4640; Cass. 16 marzo 2007 n. 6278; Cass. 26 marzo 2007 n.
7258; Cass. 7 giugno 2007 n. 13229; Cass. 21 giugno 2007 n. 14385; Cass. 22 giugno 2007 n.
14682; Cass. 11 luglio 2007 n. 15584; Cass. 17 luglio 2007 n. 15949; Cass. 18 luglio 2007 n.
16002; Cass. 27 luglio 2007 n. 16615; Cass. 3 agosto 2007 n. 17108; Cass. 25 settembre 2007
n. 19892; Cass. 1 ottobre 2007 n. 20603; Cass, 22 ottobre 2007 n. 22059; Cass. 29 gennaio
2008 n. 1906).
Nel caso di specie si deve osservare, anzitutto, che la censura è plurima, perché con essa si
denunciano indistintamente la violazione di legge ed il vizio di motivazione della sentenza
impugnata, quest’ultima critica, peraltro, sotto il duplice profilo della insufficienza e della
contraddittorietà. Ora, mentre, in base al precetto dell’art. 366 bis c.p.c., comma 1, n. 2, ci si
dovrebbero attendere tanti diversi corpi argomentativi quante sono le doglianze denunciate
nell’epigrafe del motivo di impugnazione, le argomentazioni del ricorrente, di cui si è qui tentata
una sintesi, si sviluppano unitariamente e si succedono indistintamente.
Questa sola constatazione potrebbe considerarsi sufficiente per comportare l’inammissibilità del
motivo di impugnazione. Tuttavia, volendo effettuare una minuziosa verifica del discostamento
del ricorrente dal principio che ispira l’art. 366 bis, comma 1, n. 2, si osserva che
dall’argomentare del ricorrente si desume, anzitutto, che il quesito non è pertinente o comunque

esaustivo nell’argomentare l’usucapione della madre,

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l’elemento strutturale della norma che si assume violato e deve essere tenuto distinto rispetto al

Inoltre, nessuna specifica doglianza è rivolta a censurare la motivazione della sentenza
impugnata sotto il profilo relativo alla rinuncia della sua dante causa all’usucapione dell’immobile
di cui era socia prenotataria. Al riguardo, infatti, si sarebbero dovute illustrare “le ragioni per le
quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione” (art.

In mancanza di tali specificazioni, si deve ritenere che la denuncia sia inammissibile per
genericità.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato e le spese del giudizio di cassazione regolate sulla
soccombenza.
P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di
Cassazione, che liquida in complessivi €. 6.300,00, di cui €. 200,00 per esborsi, oltre accessori,
come per legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2″ Sezione Civile, il 9 novembre 2012.

366 bis c.p.c., comma 1, n. 2).

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