Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4264 del 19/02/2020

Cassazione civile sez. I, 19/02/2020, (ud. 08/11/2019, dep. 19/02/2020), n.4264

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8556/2016 proposto da:

T.A., elettivamente domiciliato in Roma, Via Buccari n. 3,

presso lo studio di Acone Maria Teresa, rappresentato e difeso dagli

avvocati Acone Modestino, Petitto Daniela, giusta procura a margine

del ricorso;

– ricorrente –

contro

V.F., elettivamente domiciliato in Roma, Via M.

Dionigi n. 57, presso lo studio dell’avvocato Antonini Claudio,

rappresentato e difeso dall’avvocato Di Peso Elisa, giusta procura

in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 176/2015 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

depositata il 03/03/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

08/11/2019 dal cons. Dott. FALABELLA MASSIMO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Con atto di citazione notificato il 9 maggio 1991 V.F. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Salerno T.F.. Deduceva di aver costituito una società di fatto con quest’ultimo e con Vi.Um., per la conduzione di un laboratorio di analisi cliniche denominato (OMISSIS). Rilevava che con scrittura privata del 27 dicembre 1982 era stata liquidata la quota spettante al socio uscente Vi. e che successivamente, nel settembre del 1990, T. aveva esercitato il recesso dalla società, a seguito di un contrasto sulle modalità di direzione della laboratorio. L’attore domandava dichiararsi lo scioglimento della società di fatto e di condannare il convenuto al pagamento, in proprio favore, della metà del valore del laboratorio di analisi, con rivalutazione e interessi.

T. si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto dell’avversa domanda; disconosceva la sottoscrizione della scrittura privata del 27 dicembre 1982 prodotta in giudizio da controparte.

Aveva luogo giudizio di verificazione della scrittura privata e il consulente tecnico d’ufficio nominato per l’accertamento dell’autenticità della sottoscrizione accertava che questa era riconducibile al convenuto. Veniva successivamente espletata altra consulenza tecnica finalizzata alla quantificazione della quota spettante a V.. Da ultimo, il giudizio, trasmigrato avanti al Tribunale di Nocera Inferiore, era definito con sentenza con cui veniva dichiarato lo scioglimento della società di fatto e condannato T. al pagamento della metà del valore del compendio aziendale, determinato in Euro 244.035,96, oltre interessi.

2. – Il convenuto soccombente in primo grado proponeva gravame che la Corte di appello di Salerno rigettava con sentenza del 3 marzo 2015.

3. – Lo stesso T.A. ha quindi impugnato per cassazione quest’ultima pronuncia. Il ricorso è articolato in quattro motivi. Resiste con controricorso V.F..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – I motivi di ricorso si riassumono come segue.

1.1.- Primo motivo: nullità del procedimento e della sentenza. E’ lamentato che la decisione di primo grado sia stata pronunciata da un giudice onorario, in violazione del R.D. n. 12 del 1941, art. 43 bis e che, inoltre, la causa non sia stata trattata, in appello, dalla sezione specializzata in materia di impresa, come previsto dal D.Lgs. n. 168 del 2003, art. 3, comma 2, lett. a).

1.2. – Secondo motivo: violazione degli artt. 2702 c.c. ss. e art. 2697 c.c. e ss. e degli artt. 112,115 e 116 c.p.c.. La pronuncia impugnata è censurata per essersi basata sull’erroneo presupposto che la contestazione del contenuto della scrittura privata del 27 dicembre 1982 sarebbe stato possibile solo attraverso il rimedio della querela di falso. Viene rilevato, al riguardo, che l’efficacia probatoria della scrittura privata verificata non si estende al suo contenuto, che il giudice è libero di valutare secondo il suo prudente apprezzamento.

1.3 – Terzo motivo: omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti. Secondo il ricorrente il giudice di appello avrebbe posto in atto una ingiustificata sovrapposizione tra quanto documentato attraverso la scrittura privata e quanto “sarebbe invece risultato dalla prova degli effettivi vincoli negoziali”. E’ dedotto che la sentenza non aveva motivato sulla presunta insufficienza degli elementi documentali atti a contrastare il “tenore testuale della scrittura privata” e che con l’atto di appello era stato opposto che il giudice di primo grado non avesse “considerato il comportamento complessivo delle parti, anteriore e successivo alla sottoscrizione, i dati contrari emergenti, lo scopo pratico giuridico, il tipo di collaborazione apportato dal Dott. V.”. Viene evidenziato che T., e non la società di fatto, aveva esercitato il potere direttivo e disciplinare e che il rapporto di collaborazione della controparte non si sarebbe potuto conciliare “con una presenza gestoria e un rapporto societario”.

1.4. – Quarto motivo: violazione degli artt. 1345 e 1418 c.c. in relazione alla L. n. 1815 del 1939, artt. 2 e 7 e omesso esame di fatti decisivi per il giudizio. L’assunto della Corte di appello, secondo cui la società era stata costituita per offrire un servizio più ampio e un prodotto diverso dal servizio proprio fornito dai singoli professionisti risulterebbe – per il ricorrente – assolutamente apodittico: ciò avendo riguardo alla mancata dimostrazione dell’oggetto della società e del tipo di apporto svolto da V.. Viene evidenziato, al riguardo, che l’opus di tale professionista era circoscritto all’ambito proprio della professione protetta e che non vi era alcuna prova dello svolgimento di un’attività di diversa estensione e natura: in difetto di un riscontro in tal senso, la società di fatto avrebbe dovuto essere dichiarata nulla.

2. – Il ricorso è infondato.

2.1. – Il primo motivo va disatteso.

La censura vertente sul vizio della costituzione del giudice di primo grado, ancor prima che infondata – avendo riguardo al principio per cui non è nullo il provvedimento di decisione della causa pronunciato dal giudice onorario, in materia che, in base alla ripartizione tabellare, gli sia sottratta, salvo che si tratti di procedimenti possessori o cautelari ante causam, espressamente esclusi dal R.D. n. 12 del 1941, art. 43 bis (Cass. 3 ottobre 2016, n. 19660) -, è inammissibile. Ove, infatti, con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. 9 agosto 2018, n. 20694; Cass. 13 giugno 2018, n. 15430). Il ricorso manca di tali indicazioni.

Infondata è poi la doglianza circa la mancata assegnazione della causa alla sezione specializzata in materia di impresa della Corte di appello. A prescindere dal rilievo per cui il rapporto tra sezione ordinaria e sezione specializzata in materia di impresa, nello specifico caso in cui entrambe le sezioni facciano parte del medesimo ufficio giudiziario, non attiene alla competenza, ma rientra nella mera ripartizione degli affari interni dell’ufficio giudiziario, onde non dà vita a una questione di competenza (Cass. Sez. U. 23 luglio 2019, n. 19882), il criterio territoriale introdotto dal D.Lgs. n. 168 del 2003, art. 4 istitutivo delle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale e intellettuale presso tribunali e corti d’appello, si applica a decorrere dal 1 luglio 2003, ai sensi dell’art. 6 D.Lgs. cit., che assegna alla trattazione delle sezioni specializzate le cause iscritte a ruolo da quella data; ai sensi del capoverso dello stesso art. 6, che fa applicazione della regola generale di cui all’art. 5 c.p.c., restano invece assegnate al giudice competente in base alla normativa previgente le controversie già pendenti e iscritte al ruolo alla data del 30 giugno 2003, quale che sia il grado di giudizio nel quale esse si trovino al momento dell’entrata in vigore della legge (Cass. 1 febbraio 2007, n. 2203). La disposizione di cui all’art. 3 D.Lgs. n. 168 cit. è quindi inapplicabile alla controversia in esame.

2.2. – Il secondo motivo è privo di fondamento.

La Corte di appello ha preso in esame la scrittura privata del 27 dicembre 1982, intercorsa tra V., T. e Vi., oggetto di verificazione ex artt. 216 c.p.c. e ss., facendo puntuale applicazione della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, la scrittura privata, una volta intervenuto il riconoscimento o un suo equipollente, è assistita da una presunzione di veridicità per quanto attiene alla riferibilità di essa al suo sottoscrittore, sicchè la difformità tra imputabilità formale del documento e effettiva titolarità della volontà che esso esprime, quando non attenga a una intrinseca divergenza del contenuto, ma all’estrinseco collegamento dell’espressione apparente, non è accertabile con i normali mezzi di contestazione e prova, ma soltanto con la querela di falso (Cass. 30 ottobre 2012, n. 18664 Cass. 28 aprile 1971, n. 1258). L’indagine condotta dal giudice del gravame è coerente con tale premessa giuridica, giacchè, esclusa la possibilità di contestare, se non con la querela di falso, che le dichiarazioni rese dalle parti fossero diverse da quelle documentate, la Corte di merito si è preoccupata di chiarire quale fosse il reale portato della volontà riconducibile a tali dichiarazioni: operazione, questa, attinente all’interpretazione del negozio che, come è ovvio, non era in alcun modo preclusa dall’accertata autenticità della sottoscrizione che era stata disconosciuta. E’ da rammentare, in proposito, l’insegnamento di questa S.C. per cui la valutazione del contenuto intrinseco dell’apparente dichiarazione di volontà della scrittura privata oggetto di riconoscimento, effettivo o presunto, è regolata proprio dalle normali regole di interpretazione (Cass. 9 luglio 1974, n. 2027).

Per il resto, le deduzioni svolte nel motivo non danno affatto ragione della violazione, denunciata in rubrica, dell’art. 2697 c.c., artt. 112,115 e 116 c.p.c..

La violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. 29 maggio 2018, n. 13395; Cass. 17 giugno 2013, n. 15107): un tale error juris è però estraneo alla sentenza impugnata; l’affermazione, contenuta nella pronuncia, secondo cui “gli elementi documentali evidenziati dall’appellante non consentono di escludere l’esistenza della società di fatto, così come desumibile dalla scrittura del 1982” (cfr. pag. 11 del ricorso) non attiene all’onere della prova, costituendo, piuttosto, chiara espressione del convincimento maturato dal giudice del merito sulla scorta della nominata scrittura privata (sui cui contenuti la Corte di appello si diffonde, a pag. 7 della sentenza).

La censura basata sull’art. 112 c.p.c. è priva di alcuno sviluppo argomentativo (al punto che non si comprende se l’istante intenda dolersi di una omessa pronuncia o di una ultrapetizione), mentre è certamente escluso che la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. possa essere lamentata – come pare faccia l’istante – per contestare l’accertamento in fatto del giudice del merito. Infatti, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass. 17 gennaio 2019, n. 1229; Cass.27 dicembre 2016, n. 27000).

2.3. – Il terzo motivo è inammissibile.

La deduzione dell’omesso esame di fatto decisivo non è formulata ritualmente. Infatti, chi intenda formulare la censura di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 deve, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054). Il motivo è gravemente carente di tali indicazioni e sovrappone censure non coerenti con la fattispecie richiamata in rubrica: così, non ha nulla a che vedere con tale fattispecie la dedotta mancata motivazione sulla “insufficienza delle prove fornite” per contrastare il tenore della scrittura privata (pag. 15 del ricorso). E’ poi appena il caso di ricordare che la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involge apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (così, da ultimo, Cass. 4 luglio 2017, n. 16467).

2.4. – E’ inammissibile anche il quarto motivo.

La doglianza ha ad oggetto il tema della eccepita nullità della società tra professionisti, ai sensi della L. n. 1815 del 1939, artt. 2 e 7. La Corte distrettuale, sul punto, ha richiamato l’insegnamento di Cass. Sez. U. n. 27 settembre 1997, n. 9500, secondo cui l’esercizio dell’attività di analisi chimico-cliniche svolta in regime convenzionale con il servizio sanitario nazionale, si sottrae ai divieti e ai limiti posti per le cosiddette professioni protette dalla L. n. 1815 del 1939, la quale non consente la costituzione di società aventi ad oggetto la prestazione di attività professionale, permettendo soltanto l’associazione ai professionisti muniti dei necessari titoli di abilitazione professionale (con la precisazione che ai suddetti divieti si sottrae tanto la società costituita per offrire un prodotto diverso e più complesso rispetto all’opus del singolo professionista, quanto quella che abbia ad oggetto soltanto la realizzazione e la gestione dei mezzi strumentali per l’esercizio della attività professionale protetta, la quale ultima resti però nettamente separata e distinta dalla organizzazione dei beni di cui si serve, anche sul piano contabile). Ha rilevato in sostanza il giudice del gravame che l’impedimento giuridico alla costituzione della società non trovava riscontro, giacchè tale costituzione era finalizzata alla gestione del complesso aziendale, siccome funzionale alla conduzione del laboratorio di analisi cliniche.

Ciò detto, la censura di violazione di legge è impropriamente orientata alla prospettazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta mediante le risultanze di causa: profilo, questo, che inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito (Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155; Cass. 11 gennaio 2016, n. 195).

La censura di omesso esame di fatto decisivo, poi, è incentrata su di una carenza probatoria: fattispecie chiaramente estranea alla previsione dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

3. – In conclusione, il ricorso è respinto.

4. – Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE

rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione prima Civile”, il 8 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2020

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