Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4262 del 17/02/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 17/02/2017, (ud. 05/10/2016, dep.17/02/2017),  n. 4262

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11040-2014 proposto da:

R.G., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA LORENZO VALLA 18, presso lo studio dell’avvocato LUCA MARAGLINO,

rappresentato e difeso dall’avvocato TOMMASO GERMANO, giusta delega

in atti;

– ricorrente –

contro

BOEHRINGER INGELHEIM ITALIA S.P.A., c.f. (OMISSIS), in persona dei

legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA DEL POZZETTO 122, presso lo studio dell’avvocato PAOLO

CARBONE, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

ROBERTO ALBERTO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 182/2014 della CORTE D’APPELLO di MILANO

depositata il 24/02/2014 R.G.N. 2022/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/10/2016 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito l’Avvocato DEL VESCOVO MATTEO per delega Avvocato GERMANO

TOMMASO;

udito l’Avvocato CARBONE PAOLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per l’inammissibilità o in

subordine rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO del PROCESSO

La Corte di Appello di Milano con sentenza in data 21/24 febbraio 2014 rigettava il reclamo proposto da R.G. avverso la pronuncia, mediante cui il Tribunale della stessa sede aveva dichiarato la nullità del ricorso dello stesso R. in opposizione all’ordinanza del 12 luglio 2013, con la quale era stata respinta la domanda del medesimo nei confronti del licenziamento intimatogli.

Secondo la Corte di Appello, premesso che non poteva considerarsi nullo il ricorso in opposizione, la domanda andava comunque respinta, poichè infondata nel merito, laddove peraltro con il reclamo non era possibile riproporre la questione relativa all’identità del medesimo magistrato, che aveva emesso l’ordinanza per la cosiddetta fase sommaria del c.d. rito Fornero e che quindi aveva poi deciso l’opposizione avverso la medesima ordinanza, trattandosi di questione deducibile soltanto con istanza di ricusazione (che nella specie ad ogni modo non risultava essere stata presentata). Non era stato violato la L. n. 300 del 1970, art. 4 ed in ogni caso non risultavano violati i diritti di riservatezza del lavoratore licenziato: Inoltre, il recesso risultava giustificato è proporzionato, trattandosi di un uso indebito di utenza telefonica mobile intestata all’azienda e concessa per motivi di lavoro al dipendente, avuto riguardo alle mansioni di quadro da costui svolte, come tale investito di notevole responsabilità e per cui inoltre svolgeva il suo lavoro all’esterno, perciò al di fuori dei normali controlli effettuabili in ambito aziendale.

Avverso la sentenza della Corte di Appello ha proposto ricorso per cassazione R.G. variamente articolato, raggruppabile in quattro ordine di motivi (8 lettere), di cui soltanto alcuni corredati da relativa illustrazione.

All’impugnazione avversaria ha resistito mediante controricorso la già convenuta – resistente BOEHRINGER INGELHEIM ITALIA S.p.a. mediante controricorso.

E’ stata depositata memoria ex art. 378 c.p.c. dalla sola controricorrente.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Premesso che NON risultano allegati i motivi del RECLAMO a suo tempo proposto dal dr. R. avverso l’ordinanza, con la quale veniva respinta la domanda dell’attore volta ad invalidare l’impugnato licenziamento, con richiesta altresì di reintegra nel posto di lavoro (perciò in violazione di quanto invece prescritto a pena d’inammissibilità dall’art. 366 c.pc., comma 1, n. 3), e che neanche risulta dal ricorso de quo la rituale produzione del c.c.n.l. invocato da R. (in violazione, quindi, anche del deposito imposto a pena d’improcedibilità dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, per cui almeno in sede di legittimità occorre la produzione del testo integrale dei contratti o degli accordi collettivi, sui quali il ricorso si fonda. V. Cass. lav. n. 4350 del 04/03/2015, secondo cui, inoltre, non basta il mero richiamo, in calce al ricorso, all’intero fascicolo di parte del giudizio di merito, ove manchi una puntuale indicazione del documento nell’elenco degli atti. V. altresì Cass. lav. n. 195 – 11/01/2016 circa l’esigenza, ferma in ogni caso, di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 6, degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi. In senso conforme v. sul punto anche Cass. sez. un. civ. n. 22726 del 2011), a sostegno della sua impugnazione il ricorrente ha indicato i seguenti motivi:

1) A. Violazione dell’art. 24 Cost., B. Nullità del procedimento;

2) C. Errata interpretazione della L. n. 300 del 1970, art. 4 e sottovalutazione dell’art. 8 stessa legge, D. Omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, e cioè grave violazione della normativa sulla privacy, come sancita dal D.Lgs. n. 306 del 2003, n. 196 (artt. 113 114 e 171);

3) E. Violazione dell’art. 2106 c.c. circa la proporzionalità tra fatto commesso sanzione comminata;

4) F. Violazione degli artt. 50, 51 e 52 del c.c.n.l addetti industria chimica e farmaceutica 18-12-2009, G. Violazione della L. n. 183 del 2010, art. 30, comma 3 (nel valutare le motivazioni poste alla base del licenziamento il giudice tiene conto delle tipizzazione di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi).

Orbene, va subito rilevato come nella specie non sia ammissibile alcun sindacato sul percorso argomentativo seguito dai giudici di merito, essendo ratione temporis (risalendo la sentenza qui impugnata al 21 / 24 febbraio 2014) applicabile il nuovo ed attualmente vigente testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, secondo cui è consentita la sola deduzione del vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (cfr. in part. Cass. sez. unite civili, n. 8053 del 07/04/2014 ed altre di analogo tenore, secondo cui l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia. Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. Inoltre, la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dall’art. 54 cit., deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa aualunaue rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione).

Nel caso di specie, dunque, non è ravvisabile alcun vizio ex art. 360, n. 5 cit., tenuto conto della più che sufficiente motivazione svolta con la sentenza di appello, che pur avendo escluso la nullità del ricorso in opposizione avverso l’originario provvedimento di rigetto, ha tuttavia ritenuto infondata nel merito la domanda dell’attore, atteso che il comportamento disciplinare contestatogli integrava all’evidenza la violazione del dovere di diligenza e di fedeltà ex artt. 2104 e 2015 c.c., trattandosi di abusivo utilizzo del telefono aziendale in ordine ad oltre mille telefonate per ragioni non lavorative a spese della società. La Corte di merito, inoltre, ha motivatamente escluso nella specie l’asserita violazione della L. n. 300 del 1970, art. 4 non avendo il datore di lavoro fatto alcun uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza di lavoratori, alla luce dei tabulati del traffico telefonico, dai quali emergevano i contatti eseguiti con il cellulare aziendale in dotazione del R., che tuttavia non consentiva la conoscenza del nome dell’interlocutore o del contenuto della conversazione, tabulati peraltro oggetto di dovuta notifica in ragione degli importi dei quali VODAFONE richiedeva il pagamento con la relativa bolletta, ciò che non costituiva alcuna violazione della privacy del lavoratore sulla base di quanto disposto dalla succitata norma dello Statuto, riconducibile, invece, alla fattispecie, del tutto diversa, dell’installazione di apparecchiature di controllo. Inoltre, si riteneva accertata la sussistenza del fatto contestato, avuto riguardo al richiamato contenuto della lettera di giustificazioni inviata dal diretto interessato, laddove costui aveva confermato che tutte le altre telefonate evidenziate nella documentazione fornita da VODAFONE erano state in realtà eseguite senza anteporre il numero 9, anche se poi tale comportamento si assumeva dipeso da mera ingenuità e buona fede, nonchè da asserite situazioni di emergenza o di impossibilità improvvisa di impego del telefono personale. Su questo punto, tuttavia, il ricorrente non aveva articolato alcun mezzo di prova, essendosi limitato a rilevare che in materia l’onere probatorio incombeva sulla società. Tale regola, tuttavia, sebbene corretta in astratto, nello specifico risultava inconferente, avuto riguardo ai tabulati prodotti da parte convenuta, sicchè spettava al ricorrente la prova relativa alle circostanze, che avrebbero escluso il cospicuo uso personale del telefono aziendale o che lo avrebbero giustificato. Infatti, non si intendeva quali fossero le specifiche impellenti situazioni che avrebbero impedito la digitazione del numero 9 prima dell’utenza telefonica contattata, che avrebbe consentito l’addebito al lavoratore della telefonata personale, il tutto così come ulteriormente precisato a pagina 12 della sentenza impugnata.

Parimenti ampie argomentazioni sono state spese dalla Corte distrettuale per affermare la proporzionalità dell’intimato recesso rispetto alla condotta contestata al lavoratore, sicchè veniva confermata la giusta causa della risoluzione del contratto (pagine 12/13 della sentenza n. 182/14).

Invero, poi, il controllo di logicità del giudizio di fatto, nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in un nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (Cass. sez. 6 – 5, n. 91 del 7/1/2014, secondo cui per l’effetto la Corte di Cassazione non può procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, nè porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito. Conformi Cass., n. 15489 del 2007 e n. 5024 del 28/03/2012: V. altresì Cass. 1 civ. n. 1754 del 26/01/2007, secondo cui il vizio di motivazione che giustifica la cassazione della sentenza sussiste solo qualora il tessuto argomentativo presenti lacune, incoerenze e incongruenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione impugnata, restando escluso che la parte possa far valere il contrasto della ricostruzione con quella operata dal giudice di merito e l’attribuzione agli elementi valutati di un valore e di un significato difformi rispetto alle aspettative e deduzioni delle parti. Conforme Cass. n. 3881 del 2006. V. ancora Cass. n. 7394 del 26/03/2010, secondo cui è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, qualora esso intenda far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, prospetti un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione citata. In caso contrario, infatti, tale motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione. In senso analogo v. anche Cass. n. 6064 del 2008. V. inoltre, più recentemente, Cass. 1 civ. n. 16526 del 05/08/2016: il controllo di logicità del giudizio del giudice di merito non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto tale giudice ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli elementi probatori valutati, in una nuova formulazione del giudizio di fatto).

D’altro canto, il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio-, nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass. 3 civ. n. 11892 del 10/06/2016).

Pertanto, non sussistono nella specie la violazione dell’art. 24 Cost., nè tanto meno la conseguente pretesa nullità del procedimento, alla stregua di quanto emergente dalla complessiva lettura della sentenza qui impugnata, non risultando apprezzabile come violazione del diritto di difesa alcuna delle varie circostanze promiscuamente in proposito allegate da parte ricorrente (eccessiva sintesi delle dichiarazioni rese in sede di libero interrogatorio, come da verbale di udienza, mancata denominazione del provvedimento adottato dal giudice inizialmente adito all’esito della c.d. fase sommaria del rito Fornero, condanna alle spese motivata non soltanto in relazione al principio della soccombenza, ma anche con riferimento alla mancata accettazione della proposta conciliazione formulata dalla società, dubbi sul requisito della proporzionalità, che si assumono essere stati informalmente esternati dal presidente del collegio in apertura dell’udienza di appello, al fine di rendere possibile una conciliazione, identità del magistrato che aveva deciso la fase sommaria con quello che aveva pronunciato la sentenza impugnata i sede di reclamo….), attività che, quand’anche dimostrate, di per sè non integrano alcuna specifica violazione del contraddittorio, nè alcuna tangibile violazione del diritto di difesa in danno del ricorrente.

In particolare, poi, la fase dell’opposizione, ai sensi della L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 51, non costituisce un grado diverso rispetto a quella che ha preceduto l’ordinanza, ma solo una prosecuzione del medesimo giudizio in forma ordinaria, sicchè non è configurabile alcuna violazione riconducibile all’art. 51 c.p.c., n. 4, nel caso in cui lo stesso giudice-persona fisica abbia conosciuto della causa in entrambi le fasi (Cass. lav. n. 3136 del 17/02/2015, conforme id. n. 4223 del 03/03/2016. V. inoltre la sentenza della Corte Costituzionale n. 78/ ud. del 28/04/2015, dec. 29/04/2015, deposito in data 13/05/2015 e pubblicazione in G. U. 20/05/2015 n. 20, secondo cui non è fondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., dell’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 4, e della L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 51, i quali, nel disciplinare il nuovo rito impugnatorio dei licenziamenti individuali, stabiliscono che l’opposizione avverso l’ordinanza che decide in via semplificata sul ricorso del lavoratore debba essere depositata dinanzi al Tribunale che ha emesso il provvedimento opposto, senza prevedere l’obbligo di astensione per il magistrato investito dell’opposizione ove abbia pronunciato l’ordinanza…. Il fatto che entrambe le fasi dell’unico grado di un procedimento unitario possano essere svolte dal medesimo magistrato non confligge, quindi, con il principio di terzietà del giudice, ma si rivela funzionale all’attuazione del principio del giusto processo per il profilo della sua ragionevole durata e ad una miglior tutela del lavoratore. Infatti, quest’ultimo, in virtù dell’effetto anticipatorio dell’ordinanza che chiude la fase sommaria, può conseguire un’immediata, o comunque più celere, tutela dei propri diritti, mentre la successiva, ed eventuale, fase a cognizione piena è volta a garantire alle parti, che non restino soddisfatte dal contenuto dell’ordinanza opposta, una pronuncia più pregnante e completa. Per la manifesta inammissibilità di analoga questione di legittimità costituzionale, v. altresì l’ordinanza n. 205/2014. Sull’inapplicabilità nel processo civile delle regole in tema di incompatibilità del processo penale, v. inoltre la sentenza della Consulta n. 387/1999).

Parimenti, appare infondato il secondo motivo (di cui ai suddetti punti C e D), avuto riguardo a quanto correttamente accertato, osservato e motivato dalla Corte distrettuale in merito alla esclusa violazione di ogni diritto alla riservatezza, almeno per quanto concerne la fattispecie qui in esame, di guisa che non possono indubbiamente dirsi violati gli artt. 4 e 8 dello Statuto dei Lavoratori, essendo del tutto legittimo che parte datoriale, nel controllo di gestione della sua attività, possa rilevare anomalie nell’uso dei beni concessi in dotazione ai propri dipendenti, come ad esempio i telefoni cellulari, dai cui tabulati, relativi al traffico voce o dati (trasmessi unitamente alle relative fatturazioni, peraltro con debite omissioni ed opportuni mascheramenti) emergano stranezze tali da poter indurre a ritenere abusi da parte degli affidatari.

Sono, pertanto, assolutamente inconferenti nella specie le doglianze di parte ricorrente, circa le asserite errate interpretazioni e/o sottovalutazioni degli artt. 4 (in tema d’impianti audiovisivi) e 8 (divieto di indagini sulle opinioni. – E’ fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose e sindacali del lavoratore, nonchè su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore) della L. 20 maggio 1970, n. 300, peraltro meramente richiamati dal D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196(Codice in materia di protezione dei dati personali), art. 114 (Controllo a distanza) e art. 113 (Raccolta di dati e pertinenza) il cui art. 117, poi, riguarda soltanto il conseguente trattamento sanzionatorio (secondo il testo in vigore dal primo gennaio 2004 23-9-2015, ” 1. La violazione delle disposizioni di cui all’art. 113, comma 1, e art. 114 è punita con le sanzioni di cui alla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 38″; mentre il testo vigente dal 24-09-2015 così recita: “1. La violazione delle disposizioni di cui all’art. 113 e L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 4, commi 1 e 2, è punita con le sanzioni di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 38”).

Quanto alla pretesa violazione dell’art. 2106 c.c. (motivo sub E), anche tale censura è palesemente infondata, tenuto conto di quanto motivato ed accertato in proposito, come sopra rilevato, dal competente giudice di merito, il cui discrezionale apprezzamento, poichè ampiamente e congruamente motivato, come già sopra rilevato, si sottrae ad ogni possibile sindacato in sede di legittimità.

Infine, quanto all’ultimo motivo di ricorso, per cui risultano strettamente connessi i succitati punti F e G, le doglianze risultano ad ogni modo inammissibili, attesa la già rilevata incompletezza della documentazione (cfr. gli artt. 366 e 369 c.p.c.), mancando soprattutto, nei sensi all’inizio indicati, il testo integrale della contrattazione collettiva invocata, cui si riferisce anche la disposizione dettata al riguardo dalla L. n. 183 del 2010, art. 30.

Dunque, l’impugnazione proposta deve essere rigettata, a nulla rilevando peraltro l’esibito precedente di questa Corte (sentenza n. 17108, pubblicata il 16 agosto 2016), siccome attinente ad una fattispecie in parte diversa e per cui inoltre l’impugnata sentenza veniva cassata con rinvio per errata applicazione di norme in tema di onere probatorio, mentre nel caso qui esaminato nessuno dei motivi addotti a sostegno del ricorso riguarda specificamente la suddetta questione, invece esaminata dalla precedente citata pronuncia n. 17108.

Con il rigetto del ricorso, infine, la parte rimasta soccombente va quindi condannata anche al pagamento delle relative spese, essendo per altro verso pure tenuta al versamento dell’ulteriore contributo unificato come per legge, atteso l’esito completamente negativo della proposta impugnazione.

PQM

la Corte RIGETTA il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese, che liquida a favore della società controricorrente in Euro 3000,00 (tremila/00) per compensi professionali ed in Euro 100,00 (cento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 5 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2017

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