Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4255 del 18/02/2021

Cassazione civile sez. VI, 18/02/2021, (ud. 30/09/2020, dep. 18/02/2021), n.4255

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18853-2018 proposto da:

MEDITERRANEA di C.A. E C. SAS, in persona del socio

accomandatario, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TARANTO 95,

presso lo studio dell’avvocato MAURO MONACO, che la rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

RAINES SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, P.ZA COLA DI RIENZO 69, presso lo

studio dell’avvocato MASSIMO BERSANI, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1138/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 20/02/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 30/09/2020 dal Consigliere Relatore Dott. MASSIMO

FALABELLA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Il Tribunale di Roma accertava che Mediterranea di C.A. e C. s.a.s. aveva violato il diritto di Raines s.r.l. all’uso esclusivo del marchio “(OMISSIS)” e pronunciava, in danno della stessa Mediterranea, inibitoria e condanna al risarcimento del danno per l’importo di Euro 25.000,00; lo stesso Tribunale disattendeva, invece, la domanda riconvenzionale della convenuta, la quale aveva domandato il risarcimento del danno a fronte della condotta della controparte che aveva inviato alla clientela una comunicazione recante la trascrizione di un provvedimento di urgenza pronunciato nei propri confronti anni prima, in cui compariva il nome della testata “Il Messaggero”: provvedimento con cui il Tribunale, pur ritenendo fondata la domanda cautelare proposta da Raines, aveva respinto l’istanza della stessa quanto alla pubblicazione su di un periodico della pronuncia inibitoria.

2. – La sentenza del Tribunale era impugnata dalla convenuta, soccombente in primo grado.

Nella resistenza di Raines il gravame era respinto. In questa sede rileva il solo rigetto del motivo di impugnazione vertente sulla menzionata domanda riconvenzionale di Mediterranea. In proposito, la Corte di appello di Roma osservava che “pur potendo considerarsi censurabile e stigmatizzabile l’aver fatto stampare dei biglietti da inviare ai clienti comuni alle due aziende contenenti riferimenti al provvedimento di urgenza con l’indicazione della scritta Il Messaggero, non emerge affatto che ciò abbia procurato un pregiudizio e non è stato nè allegato nè chiesto in via istruttoria in modo idoneo di provare dette circostanze”.

3. – Ricorre per cassazione Mediterranea, che fa valere tre motivi. Resiste con controricorso Raines.

Il Collegio ha autorizzato la redazione della presente ordinanza in forma semplificata.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 2598 c.c.. Osserva in sintesi la ricorrente che ai fini dell’accertamento della responsabilità per concorrenza sleale è sufficiente l’idoneità dell’atto denunciato a produrre effetti di mercato dannosi per il concorrente, non essendo richiesta la dimostrazione dell’effettiva produzione del danno. Viene dedotto che nella fattispecie la controparte aveva proceduto alla lamentata comunicazione al fine di indurre volontariamente il lettore a ritenere che la notizia relativa alla pubblicazione del provvedimento sulla testata “Il Messaggero” fosse vera.

Con il secondo mezzo è lamentata la violazione o falsa applicazione del codice della privacy, o codice per protezione dei dati personali, art. 52 (D.Lgs. n. 196 del 2003). Dalla norma citata – osserva l’istante – si evincerebbe in modo chiaro che la diffusione delle decisioni trovi ragione dell’unico scopo di renderle conoscibili agli operatori giuridici; aggiunge la società ricorrente che nella richiamata norma non sono d’altro canto contemplate ulteriori ipotesi di divulgazione dei provvedimenti giurisdizionali.

Il terzo mezzo prospetta la violazione o falsa applicazione degli artt. 2600 e 2043 c.c.. Viene richiamato il principio per cui l’accertamento dei concreti fatti materiali di concorrenza sleale comporta una presunzione di colpa, a norma dell’art. 2600 c.c., comma 3, e che per la liquidazione del danno cagionato da atti di concorrenza sleale può farsi ricorso al criterio equitativo.

2. – Il ricorso è, nel suo complesso, privo di fondamento.

Il danno cagionato dal compimento di atti di concorrenza sleale non è in re ipsa ma, essendo conseguenza diversa ed ulteriore rispetto alla distorsione delle regole della concorrenza, richiede di essere autonomamente provato secondo i principi generali che regolano il risarcimento da fatto illecito (per tutte: Cass. 26 marzo 2009, n. 7306; Cass. 23 dicembre 2015, n. 25921).

Che ai fini della affermazione della responsabilità per concorrenza sleale sia sufficiente l’idoneità dell’atto denunciato a produrre effetti di mercato dannosi per il concorrente evidentemente non conta: quel che la ricorrente doveva dimostrare, per vedere accolta la domanda risarcitoria svolta, era proprio l’esistenza del danno. Neppure rileva la disciplina posta dall’art. 2600 c.c., evocata col terzo motivo: se è vero che l’accertamento di concreti fatti materiali di concorrenza sleale comporta una presunzione di colpa che onera l’autore degli stessi della dimostrazione dell’assenza dell’elemento soggettivo ai fini dell’esclusione della sua responsabilità (Cass. 23 dicembre 2015, n. 25921 cit.), è altrettanto vero, come si è detto, che il corrispondente danno cagionato dalla condotta anticoncorrenziale necessita di essere provato dal danneggiato. Ancor meno concludente, ai fini che interessano, è la regolamentazione introdotta dal cod. privacy, art. 52, la quale non è certamente in grado di dar ragione dell’esistenza di un pregiudizio che la ricorrente, secondo quanto rilevato dal giudice di appello, non ha provato, nè chiesto adeguatamente di provare, nel corso del giudizio di merito: peraltro, nemmeno il danno non patrimoniale sofferto per violazione della disciplina sulla privacy può ritenersi in re ipsa, dovendo, invece, essere allegato e provato (Cass. 26 settembre 2013, n. 22100).

Le richiamate censure risultano tutte prive di aderenza alla ratio decidendi della sentenza impugnata e, come tali, sono da considerarsi inammissibili.

Da respingere è, invece, la doglianza fondata sulla mancata liquidazione equitativa del danno.

Sul punto va rammentato, in termini generali, che l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa sicchè esso, da un lato, è subordinato alla condizione che per la parte interessata risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile, provare il danno nel suo ammontare, e dall’altro, non ricomprende l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo già assolto l’onere della parte di dimostrare la sussistenza e l’entità materiale del danno (per tutte: Cass. 12 ottobre 2011, n. 20990; Cass. 22 febbraio 2018, n. 4310). Analogo principio trova applicazione, per quanto qui interessa, in tema di concorrenza sleale, essendosi affermato, con specifico riguardo agli illeciti di cui all’art. 2598 c.c., che solo la dimostrazione dell’esistenza del danno consente il ricorso al criterio equitativo ai fini della liquidazione (Cass. 26 marzo 2009, n. 7306, cit.; Cass. 23 dicembre 2015, n. 25921, cit.).

La ricorrente ha menzionato, nello svolgimento del motivo (pag. 11), un “grafico dell’andamento vendite della Mediterranea negli anni 2009, 2010, 2011” da cui si evincerebbe “che il fatturato sia calato in maniera vertiginosa”. La stessa istante non ha tuttavia spiegato se e come abbia fatto valere la questione relativa alla flessione delle vendite nel corso del giudizio di merito: tema, questo, che involge, oltretutto, un apprezzamento di fatto non consentito in questa sede.

3. – Le spese di giudizio seguono la soccombenza.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00, per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 100,00, e agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.

Motivazione semplificata.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 6a Sezione Civile, il 30 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 febbraio 2021

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