Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4240 del 22/02/2010

Cassazione civile sez. II, 22/02/2010, (ud. 01/12/2009, dep. 22/02/2010), n.4240

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente –

Dott. ATRIPALDI Umberto – Consigliere –

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 28575/2004 proposto da:

O.S. (OMISSIS), F.G.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA MERULANA

234, presso lo studio dell’avvocato BOLOGNA Giuliano, che li

rappresenta e difende unitamente all’avvocato CARRARA MAURIZIO;

– ricorrenti –

e contro

N.F., N.G., NE.FE., N.L.

G.;

– intimati –

sul ricorso 2380/2005 proposto da:

N.F. (OMISSIS), NE.FE.

(OMISSIS), N.G. (OMISSIS), N.

L. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

BARBERINI 29, presso lo studio dell’avvocato BETTONI MANFREDI, che li

rappresenta e difende unitamente all’avvocato SPADEA GIOVANNI;

– controricorrenti ric. incidentali –

contro

O.S. (OMISSIS), F.G.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA MERULANA

234, presso lo studio dell’avvocato BOLOGNA GIULIANO, che li

rappresenta e difende unitamente all’avvocato CARRARA MAURIZIO;

– controricorrenti al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 2321/2004 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 27/08/2004;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

01/12/2009 dal Consigliere Dott. PASQUALE D’ASCOLA;

udito L’Avvocato CARRARA Maurizio, difensore dei ricorrenti che si

riporta agli atti;

udito l’Avvocato BETTONI Manfredi, difensore dei resistenti che si

riporta agli atti;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CENICCOLA Raffaele, che ha concluso per l’accoglimento 2^ motivo del

ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Nel marzo (OMISSIS), stando all’odierno ricorso, O.S. e F.G. acquistavano dai signori N. un capannone, originariamente adibito a macello, già abusivo e successivamente condonato, posto a circa m. 1,40 da altro fabbricato dei venditori, sito in (OMISSIS). Nello stesso anno, previa concessione edilizia, i ricorrenti trasformavano l’immobile in edificio residenziale. I venditori impugnavano invano la concessione edilizia davanti al Tar e denunciavano penalmente gli acquirenti, che venivano assolti dal pretore di Tirano. Nel marzo 1998 i Signori N. agivano davanti al tribunale di Sondrio per la tutela delle distanze dal proprio fabbricato. Il 26 aprile 2002 il tribunale respingeva la domanda, riconoscendo in capo ai convenuti il diritto di servitù di tenere l’edificio a distanza inferiore a quella legale, pari a quella originaria, di pochissimo modificata.

La Corte d’appello di Milano, il 27 agosto 2004, accoglieva l’appello e, ravvisata la violazione delle norme edilizie, condannava gli odierni ricorrenti all’arretramento della costruzione fino a 10 mt. e al pagamento di tremila Euro a titolo di risarcimento danni. A tal fine la Corte riteneva: A) che la sentenza penale di assoluzione non faceva stato sulla violazione delle distanze, perchè aveva assolto gli imputati per incertezza della prova sulla demolizione totale e non parziale del capannone. B) che l’edificio costruito aveva copertura con sagoma difforme dall’originaria, pareti con altezze diverse, un maggior numero di piani fuori terra, caratteristiche estetiche e tipologiche diverse, volumetria maggiore di 3,28 mc e quindi non costituiva ristrutturazione, costituita da modificazioni per lo più soltanto interne, ma nuova costruzione soggetta alla normativa comunale. C) che non vi era stato l’acquisto per usucapione di servitù sulla distanza di m 1,40, perchè: 1) le norme sulle distanze sono inderogabili e non consentono la costituzione di una servitù di contenuto illecito; 2) con la totale demolizione del fabbricato preesistente, il preteso diritto di servitù si sarebbe estinto.

O.S. e F.G. ricorrono per cassazione esponendo 5 motivi e resistono con controricorso al ricorso incidentale degli intimati e controricorrenti N.F., Fe., G. e L., i quali hanno esposto due motivi di doglianza.

Sono state depositate memorie ed è stata disposta la riunione dei ricorsi ex art. 335 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1) Il primo motivo di ricorso, che denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 652 c.p.p., è infondato. I ricorrenti assumono che il pretore di Tirano, nell’assolverli dall’imputazione di violazione della L. n. 47 del 1985, art. 20, lett. B, avrebbe accertato l’insussistenza di ogni infrazione della normativa edilizia “nè del vincolo delle distanze fra edifici”; avrebbe stabilito che il vecchio capannone si trovava a distanza inferiore a quella prevista dall’art. 873 c.c., e che la ricostruzione si trovava ove era ubicato il precedente. Pertanto il primo giudizio avrebbe effetto di giudicato sul secondo, essendo identiche le questioni dibattute, risarcimento e demolizione. La Corte deve in primo luogo qui rilevare che secondo le Sezioni Unite “il giudice di legittimità può direttamente accertare l’esistenza e la portata del giudicato esterno con cognizione piena che si estende al diretto riesame degli atti del processo ed alla diretta valutazione ed interpretazione degli atti processuali, mediante indagini ed accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dall’interpretazione data al riguardo dal giudice di merito” (Cass. 24664/07). L’esame degli atti, cioè della sentenza 2/18 dicembre 1996 del pretore di Tirano, prodotta con l’attestazione del passaggio in giudicato (su tale onere cfr Cass. 8478/08), esclude quanto affermato da parte ricorrente. In primo luogo si rileva infatti che non sussiste l’indispensabile identità di parti (Cass. 20325/06), giacchè dalla intestazione della sentenza pretorile risulta che in qualità di parte civile erano costituiti soltanto due dei signori N., F. e Fe.. In secondo luogo non risulta, come puntualmente rilevato dai controricorrenti, che la sentenza abbia avuto come oggetto di esame la sussistenza del “vincolo delle distanze tra edifici”. L’imputazione riguardava l’illiceità dell’esecuzione della ristrutturazione mediante integrale demolizione e costruzione di un fabbricato “del tutto nuovo e diverso”; la decisione si è imperniata sul mancato raggiungimento della prova di una completa demolizione dell’immobile ristrutturando, senza porre a fondamento le questioni relative alla distanza tra i fabbricati di cui si tratta.

2) Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art 873 c.c.. I ricorrenti vantano la titolarità di una servitù, acquisita per destinazione del padre di famiglia o per usucapione, di mantenere il proprio edificio a distanza inferiore a quella prevista dalla norma indicata. Contrastando la tesi, fatta propria dalla sentenza impugnata, della impossibilità di costituire siffatta servitù perchè illecita e contraria all’ordine pubblico, parte ricorrente sostiene che secondo la giurisprudenza e parte della dottrina nulla osta alla costituzione, anche per usucapione, di una servitù avente come contenuto il diritto di tenere l’edificio a distanza minore da quella legale. Aggiunge che il sopravvenuto condono ha cagionato anche la regolarizzazione dell’edificio sotto il profilo urbanistico.

Infondatamente parte resistente oppone che la questione dell’acquisto della servitù per destinazione del padre di famiglia non sarebbe proponibile perchè gli acquirenti non ne avrebbero fatto oggetto di appello indentale. Mette conto ricordare che la parte vittoriosa nel merito (come erano i sigg. O. e F.), la quale, in caso di gravame del soccombente, chieda la conferma della decisione impugnata (come è incontroverso, cfr ricorso pag. 15 in fine) difetta di interesse alla proposizione dell’impugnazione incidentale ed ha soltanto l’onere di riproporre dette questioni, ai sensi dell’art. 346 cod. proc. civ., per superare la presunzione di rinuncia derivante da un comportamento omissivo. (Sez. Unite n. 3717/07; Cass. 23489/07). Il motivo, che menziona l’art. 873 c.c., va inteso – contrariamente a quanto dedotto in controricorso come doglianza riferita anche alle distanze prescritte “dai regolamenti comunali e integrative del codice civile”, secondo l’espressione usata dalla sentenza impugnata, posto che queste ultime traggono la propria forza proprio dall’esser considerate parte integrante della norma cui si riferisce l’impugnazione e che la sentenza (e l’impugnazione) non ha prospettato una distinzione tra la disciplina delle distanze previste dal codice e quelle dettate dai Regolamenti integrativi.

La questione che viene ora posta alla Corte è tra le più controverse.

E’ noto che nel tempo si sono contrapposte tesi dottrinarie favorevoli alla derogabilità delle distanze previste dal codice civile o dai Regolamenti e opinioni del tutto contrastanti. La giurisprudenza ha manifestato nel tempo analoghe divergenze. Giova evidenziare che da molto tempo si afferma che le disposizioni contenute nei regolamenti comunali edilizi, essendo dettate essenzialmente nell’interesse generale, a differenza di quelle contenute nel codice civile, trascendono l’interesse meramente privatistico e non tollerano deroghe convenzionali, le quali, se stipulate, sono invalide anche nei rapporti interni fra proprietari confinanti. A questi ultimi è consentito soltanto, nel rispetto delle distanze fra le costruzioni, di accordarsi sulla ripartizione del relativo obbligo (tra le tante: Cass. 6512/80; n. 287/80;

5711/87; 8260/90; 12984/99; n. 237/00; 2117/04; 6170/05). Aderendo al suggerimento dottrinario secondo il quale dalla soluzione data al problema della derogabilità delle distanze legali tra edifici dipende la possibilità o meno di far sorgere per usucapione la servitù contraria alla distanza legale, la giurisprudenza è pervenuta all’affermazione che deve ritenersi inammissibile l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dalle norme inderogabili degli strumenti urbanistici locali, non potendo l’ordinamento accordare tutela ad una situazione che, attraverso l’inerzia del vicino, determina l’aggiramento dell’interesse pubblico cui sono prevalentemente dirette le disposizioni violate (Cass. 20769/07). Nel contempo però si continua a stabilire che le norme sulle distanze di cui all’art. 873 c.c., dettate a tutela di reciproci diritti soggettivi dei singoli e miranti unicamente ad evitare la creazione di intercapedini antigieniche e pericolose, sono derogabili mediante convenzione tra privati (Cass. 12966/06) e a riconoscere che nell’ipotesi di alienazione di un immobile realizzato in violazione delle prescrizioni di cui all’art. 873 cod. civ., il successore a titolo particolare può invocare l’acquisto per usucapione del diritto (servitù) di mantenerlo a distanza inferiore a quella legale (eventualmente unendo, in virtù del principio dell’accessione di cui all’art. 1146 cod. civ., comma 2, al proprio possesso quello del suo dante causa, così Cass. 11131/06; v. anche Cass. 3699/93).

L’ammissibilità di una servitù contraria al rispetto delle distanze legali scaturisce inoltre da quella giurisprudenza che, nel predicare che “l’actio negatoria servitutis” è azione imprescrittibile”, fa salvi gli effetti dell’intervenuta usucapione (Cass. 864/00; 867/00;

12241/02) la quale pertanto, si è detto anche di recente, dà luogo all’acquisto del diritto a mantenere la costruzione a distanza inferiore a quella legale (Cass. 19289/09).

I risultati ondivaghi cui sono pervenute dottrina e giurisprudenza oggi prevalenti non sono appaganti. E’ stato già rilevato in dottrina quanto sia illogico ammettere la derogabilità della distanza minore, di tre metri, prevista dal codice civile, permettendo così il formarsi di intercapedini dannose per la salute e vietare invece la derogabilità, anche mediante servitù costituita per usucapione, di distanze maggiori. Ciò avviene sebbene la prescrittività delle norme regolamentari, riconducibili anch’esse alla categoria delle limitazioni legali alla proprietà, derivi dall’essere integrative della norma del codice civile. Sembra quindi paradossale che interessi più pregnanti (il rispetto della distanza di tre metri fissato dal codice) siano per questa via meno difesi rispetto all’interesse a un più armonico e ordinato disegno urbanistico, che presidia le maggiori distanze di fonte regolamentare, ritenute non assoggettabili a servitù costituita per usucapione.

Il carattere di tutela di interessi generali che si attribuisce a queste ultime risulta ampliato, nella sfera dei rapporti privati, da una serie di opinabili considerazioni. In primo luogo si afferma che la inammissibilità di una servitù contraria alla distanza legale dipende dalla inammissibilità di deroga convenzionale della normativa sulle distanze. L’affermazione non convince, perchè trascura il ruolo che ha l’usucapione nei rapporti tra i privati e induce ad affidare ai privati, quali destinatari delle disposizioni sulle distanze, compiti impropri di vigilanza pubblica.

Correttamente è stato svelato che la distinzione tra derogabilità delle distanze codicistiche e inderogabilità di quelle regolamentari deriva da una malintesa concezione che liquida il codice civile come regolatore dei rapporti tra privati e mette le norme regolamentari sul piano della disciplina di interessi generali, maggiormente cogenti. Superata questa visione, va ricordato che rispetto al progetto del codice civile è stato soppresso l’art. 62, che prevedeva la non riducibilità delle distanze stabilite dal codice o dai regolamenti locali “neppure per convenzione tra i vicini”.

Ci si deve allora chiedere, anche in relazione a questa mancata previsione normativa, se vi sia differenza tra contraddire le regole sulle distanze con accordi tra privati e il riconoscere la possibilità che per usucapione sorga una servitù in contrasto con la normativa generale. La differenza c’è e può essere letta su due piani: il primo concerne il meccanismo dell’acquisto dei diritti in forza del decorso del tempo; il secondo attiene al ruolo che si assegna al rapporto tra privato e pubblica amministrazione nella difesa delle prescrizioni di rilievo pubblicistico. La usucapibilità del diritto a tenere un immobile a distanza inferiore da quella legale non equivale alla stipula pattizia di una deroga in tal senso, perchè risponde all’esigenza ulteriore della stabilità dei rapporti giuridici in relazione al decorso del tempo. Se dalla norma codicistica o da quella integrativa discende, come comunemente si afferma, il diritto soggettivo del vicino di pretendere che il confinante edifichi a distanza non inferiore a quella prevista, si deve ammettere, ove anche si consideri vietata la deroga convenzionale, che l’avvenuta edificazione (con opere quindi permanenti e visibili), mantenuta con i requisiti di legge per oltre venti anni, dia luogo al verificarsi dell’usucapione, da parte del confinante, del diritto a mantenere l’immobile a distanza inferiore a quella legale.

Se così non fosse, si dovrebbe ammettere l’esistenza, nei rapporti tra privati, di una perpetua instabilità, con la possibilità del vicino di agire in ogni tempo per il rispetto delle distanze. Ciò, si badi, non si verifica neppure in relazione al diritto di proprietà (cui accede il diritto al rispetto delle distanze), che può essere usucapito, benchè il codice dichiari imprescrittibile la proprietà. E’ stata spiegata da tempo, a proposito della proprietà, la dissociazione tra effetto estintivo ed effetto acquisitivo in relazione al decorso del tempo: allo stesso modo opera l’usucapione in relazione al diritto del confinante di usucapire (nei confronti del vicino) il diritto a mantenere il proprio fabbricato a distanza inferiore a quella legale.

Per questa via si fa rientrare nella sfera della ordinaria disciplina civilistica il rapporto tra i privati, senza che ciò infici le facoltà della pubblica amministrazione.

Resta così salva la disciplina pubblicistica e l’osservanza degli standard di qualsivoglia natura che il legislatore o l’amministrazione abbiano fissato, anche alla stregua, eventualmente, di normativa di fonte sovranazionale. Ciò che viene meno è la facoltà del singolo di far valere il proprio diritto soggettivo, attribuitogli in conseguenza della disposizione rispondente all’interesse generale, ma senza assunzione di un potere privato confondibile con quello dell’amministrazione. Entrambi i soggetti possono concorrere alla tutela dell’interesse fissato dall’ordinamento, ma ferma rimane la distinzione dei caratteri tra potere privato e potere pubblico, ciascuno contraddistinto dai limiti generali della categoria cui appartiene. Ciò giustifica anche il diverso trattamento da riservare da un lato agli accordi di deroga e dall’altro al meccanismo dell’usucapione; ove quest’ultima operi, resta alla sola P.A. il potere (pubblico) di agire per conformare la proprietà al modo previsto dal legislatore. Non sono di ostacolo a questa concezione le possibili frodi prospettate dalla giurisprudenza: si tratta di un inconveniente (dipendente comunque da un congegno macchinoso e precario) che non giustifica un inquadramento incoerente dei principi vigenti sui modi di acquisto dei diritti reali e sulla disciplina dei limiti legali della proprietà. Tantomeno questo inconveniente vale a giustificare la illogica dicotomia tra tutela delle distanze di fonte codicistica e di fonte regolamentare. Non sarebbero neppure configurabili le temibili diseconomie esterne (conseguenze negative sul piano della salute e dell’ambiente) che gli studiosi di analisi economica del diritto rinvengono nella deroga pattizia alle distanze. Altro è infatti incidere sui poteri pubblici, o consentire una generalizzata derogabilità, il che può cagionare effetti lesivi permanenti dell’interesse generale tutelato; altro è ammettere che operi il fenomeno dell’usucapione. Esso vale soltanto a riportare il meccanismo di contemperamento dei diritti soggettivi nell’alveo ordinario previsto dal legislatore, escludendo la sussistenza, nel circoscritto ambito della proprietà immobiliare, di diritti soggettivi a tutela rafforzata.

Va pertanto accolto il secondo motivo di ricorso; in sede di rinvio il giudice di merito dovrà attenersi al seguente principio: In materia di violazione delle distanze legali tra proprietà confinanti, deve ritenersi ammissibile l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dalle norme del codice civile o da quelle dei regolamenti e degli strumenti urbanistici locali. Ne trarrà quindi le conseguenze con riferimento all’ipotesi in cui, a seguito di alienazione di un immobile realizzato in violazione di dette prescrizioni, il successore a titolo particolare invochi l’acquisto per usucapione del diritto di mantenerlo a distanza inferiore a quella legale e il diritto, in virtù del principio dell’accessione di cui all’art. 1146 cod. civ., comma 2, di unire al proprio possesso quello del suo dante causa.

3) Connesso al secondo, è il quinto motivo di ricorso, che lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1073 e 1074 c.c.. La sentenza impugnata ha affermato che la servitù controversa non sarebbe comunque più esistita perchè “il capannone era stato demolito del tutto … e il preteso diritto di servitù si era estinto in conseguenza della demolizione”. Parte ricorrente censura questo argomento e ricorda che la servitù si può estinguere solo se oltre alla demolizione o crollo del fondo dominante si verifica il protrarsi del non uso per un ventennio, circostanza pacificamente non sussistente nella specie. Il rilievo coglie nel segno: l’art. 1074 c.c., recita infatti che “l’impossibilità di fatto di usare delle servitù e il venir meno dell’utilità della medesima non fanno estinguere la servitù, se non è decorso il termine indicato dall’articolo precedente”, che è appunto il termine di venti anni.

4) Il terzo e il quarto motivo del ricorso principale restano assorbiti. Il terzo attiene alla denunciata violazione dell’art. 869 c.c., e del regolamento edilizio di Aprica (art 5), con correlata violazione dell’art. 872 c.c.. Il quarto lamenta violazione e falsa applicazione della L. n. 457 del 1978, art. 31, del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 3 e dell’art. 5 del regolamento edilizio comunale.

Su entrambi incidono le statuizioni da assumere riguardo alla possibile esistenza della servitù controversa, idonea a permanere, attesi i ricordati principi in materia (art. 1073 e 1074 c.c.), anche in caso di demolizione e ricostruzione della costruzione posta in condizione dominante (v. Cass. 4638/97; 7257/03).

5) Il primo motivo del ricorso incidentale lamenta, in relazione all’art. 112 c.p.c., illegittimità della sentenza impugnata “per omessa pronuncia su talune domande di appello”. Parte N. deduce che la Corte avrebbe omesso di esaminare la domanda relativa alla disapplicazione per illegittimità della concessione edilizia rilasciata ai Sigg. O.- F. per ristrutturazione con mutamento di destinazione d’uso. Il motivo è infondato. Dalla sentenza della Corte d’appello di Milano, che riporta in epigrafe le conclusioni svolte dalle parti, si evince che i Sigg. N. non avevano richiesto in via principale che fosse dichiarata l’illegittimità della concessione edilizia ottenuta da controparte, ma che fosse dichiarato “previa occorrendo disapplicazione della concessione edilizia (OMISSIS) rilasciata per ristrutturazione ai Sigg. O.- F.” che costoro avevano costruito in violazione delle norme comunali e che fossero “condannati conseguentemente a demolire la costruzione…”. La Corte d’appello ha accolto le conclusioni di appello, ma non ha ritenuto che occorresse all’uopo disapplicare la concessione edilizia, mera eventualità che gli appellanti avevano prospettato ipoteticamente;

tale prospettazione non consolidava pertanto il dovere della Corte di decidere sul punto, in caso (come avvenuto) di accoglimento delle domande principali (accertamento della violazione delle distanze ritenute applicabili e demolizione della nuova costruzione).

5.2) Il secondo motivo di ricorso incidentale, relativo alla sussistenza dei presupposti temporali per affermare l’avvenuta usucapione, resta assorbito dalla decisione relativa al ricorso principale. Con essa viene rimesso al giudice di merito, al quale soltanto competono gli accertamenti di fatto necessari allo scopo, il compito di stabilire se vi sia stata usucapione della servitù vantata dai ricorrenti.

Segue da quanto esposto la cassazione della sentenza impugnata per quanto di ragione e il rinvio ad altra Sezione della Corte d’appello di Milano, che provvedere anche sulle spese di questo grado di giudizio.

PQM

La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il primo motivo del ricorso principale, accoglie il secondo e il quinto motivo; dichiara assorbiti il terzo e il quarto. Rigetta il primo motivo del ricorso incidentale; assorbito il secondo. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per la liquidazione delle spese di lite ad altra Sezione della Corte d’appello di Milano.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 1 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2010

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