Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4231 del 09/02/2022
Cassazione civile sez. VI, 09/02/2022, (ud. 25/11/2021, dep. 09/02/2022), n.4231
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –
Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –
Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
A.C., rappresentato e difeso, giusta procura speciale
allegata in calce al ricorso, dall’Avvocato Daniela De Lorenzis,
presso il cui studio elettivamente domicilia in Lecce, alla via
Carlo Urbani n. 3.
– ricorrente –
nei confronti di:
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore.
– intimato –
avverso il decreto, n. cron. 251/2021, del TRIBUNALE DI LECCE,
depositato il 27/01/2021;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non
partecipata del giorno 25/11/2021 dal Consigliere Relatore Dott.
CAMPESE EDUARDO.
Fatto
FATTI DI CAUSA
1. Con ricorso del D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35-bis, A.C., nativo della Nigeria (Uromi, Edo State), ha adito il Tribunale di Lecce impugnando il provvedimento con cui la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale aveva respinto la sua richiesta di protezione internazionale, nelle forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e del rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari.
1.1. Nel richiedere il riconoscimento delle invocate protezioni, il ricorrente ha esposto di aver lasciato la Nigeria poiché temeva di essere incarcerato o ucciso per la morte della sua compagna, che era deceduta dopo aver assunto, con l’aiuto del ricorrente, alcuni farmaci per abortire.
2. Il tribunale ha ritenuto insussistenti i presupposti per il riconoscimento di alcuna forma di protezione.
2.1. In particolare, quel giudice ha opinato che: i) i fatti narrati non attenevano alle forme della protezione internazionale ed il racconto non superava l’onere probatorio richiesto per poter essere considerato credibile; i:) la situazione in Edo State, al momento della decisione, non era riconducibile al rischio descritto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c); ii) quanto al riconoscimento della protezione speciale, non si rinvenivano fattori soggettivi di vulnerabilità tali da ritenere che, in caso di rimpatrio, il ricorrente potesse subire una privazione dell’esercizio dei propri diritti anche alla luce del percorso integrativo compiuto in Italia.
3. Avverso il predetto decreto A.C. ricorre per cassazione, affidandosi a quattro motivi. Il Ministero dell’Interno non si è costituito nei termini di legge, ma ha depositato un “atto di costituzione” al solo fine di prendere eventualmente parte alla udienza di discussione ex art. 370 c.p.c., comma 1.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. I formulati motivi denunciano, rispettivamente:
I) “Nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5: difetto di motivazione in ordine al riconoscimento dello status di rifugiato per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, lett. a), c), d), e art. 6 commi 2, 7 ed 8, nonché del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 1”. Si lamenta l’assenza di motivazione, motivazione apparente e violazione della disciplina relativa al riconoscimento dello status di rifugiato per non aver il giudice di merito considerato le violenze subite dal ricorrente durante l’infanzia;
II) “Violazione dell’art. 132 c.p.c. e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8; violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 3, 4 e 5 – tutti in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5 “. Si prospetta un difetto di motivazione in relazione al giudizio di credibilità per non aver il giudice motivato il proprio convincimento ed aver omesso di considerare i fatti esposti dal ricorrente in relazione alla propria infanzia. Inoltre, si critica la mancata attivazione, da parte del giudice di merito, dei doveri-poteri di cooperazione istruttoria rispetto alle informazioni relative alla situazione del Paese del ricorrente, nonché l’omessa audizione dello stesso al fine di chiarire gli elementi considerati lacunosi dalla Commissione territoriale;
III) “Violazione del D.Lgs. n.. 25 del 2008, art. 32, comma 1, e art. 8 – violazione, omessa/falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, tutti in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5”. Si censura l’erronea applicazione della normativa relativa al riconoscimento della protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), per non aver il giudice motivato in modo sufficiente la situazione esistente in Nigeria alla luce delle fonti internazionali prodotte dalla difesa;
IV) “Violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione all’arì. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.: mancata valutazione delle reali condizioni di vita esistenti in Nigeria e dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”. Ci si duole dell’erronea applicazione della normativa relativa alla protezione umanitaria, per non aver il giudice valutato in modo adeguato la situazione di vulnerabilità del ricorrente, il suo percorso scolastico e lavorativo in Italia e non aver tenuto conto dell’attuale situazione in Nigeria, anche alla luce dell’emergenza sanitaria in corso.
2. Le formulate censure, scrutinabili congiuntamente perché connesse, sono complessivamente insuscettibili di accoglimento.
2.1. Giova premettere quanto all’asserita “motivazione inesistente” o “apparente” (di cui ai primi due motivi), che, per effetto della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012 (qui applicabile ratione temporis, risultando impugnato un decreto decisorio reso il 27 gennaio 2021), deve ritenersi ormai ridotto al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità sulla motivazione, sicché si è chiarito (r. tra le più recenti, Cass. n. 4226 del 2021; Cass. n. 9017 del 2018) che è oggi denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della decisione impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; questa anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014; Cass. n. 7472 del 2017. Nello stesso senso anche le più recenti Cass. n. 20042 del 2020, Cass. n. 23620 del 2020 e Cass. n. 4226 del 2021).
2.1.1. In particolare, il vizio di omessa o apparente motivazione della decisione sussiste qualora il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (r. Cass. n. 23684 del 2020; Cass. n. 20042 del 2020; Cass. n. 9105 del 2017; Cass. n. 9113 del 2012). Ne deriva che è possibile ravvisare una “motivazione apparente” nel caso in cui le argomentazioni del giudice di merito siano del tutto inidonee a rivelare le ragioni della decisione e non consentano l’identificazione dell’iter logico seguito per giungere alla conclusione fatta propria nel dispositivo risolvendosi in espressioni assolutamente generiche e prive di qualsiasi riferimento ai motivi del contendere, tali da non consentire di comprendere la ratio decidendi seguita dal giudice. Un simile vizio, inoltre, deve apprezzarsi non rispetto alla correttezza della soluzione adottata o alla sufficienza della motivazione offerta, bensì unicamente sotto il profilo dell’esistenza di una motivazione effettiva.
2.1.2. Orbene, il tribunale salentino, dopo aver descritto il racconto reso dall’ A. in ordine alle ragioni che lo avevano indotto a lasciare la Nigeria, ha affermato che: i) “… i fatti narrati dal richiedente non attengono manifestamente a persecuzioni per motivi di razza, nazionalità, religione, opinioni politiche o appartenenza ad un gruppo sociale e, pertanto, non sono configurabili i presupposti per il conoscimento dello status di rifugiato…” (fr. pag. 10 del decreto impugnato); ii) quanto alla protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, lett. a) e b), “il ricorrente non ha svolto alcuna allegazione che possa essere valutata in termini di rischio futuro di essere destinatario, in caso di rimpatrio, di sanzione come la pena di morte o altri trattamenti inumani o degradanti”(0-. pag. 11 del medesimo decreto); iù) circa la protezione sussidiaria di cui all’art. 14, lett. c), del citato D.Lgs., “nell’area della Nigeria da cui proviene il ricorrente si rilevano conflittualità, ma non tali da giustificare la misura richiesta, non potendo ritenersi che la zona interessata sia caratterizzata da una violenza indiscriminata e Offusa ed, in generale, che nel Paese d’origini, vi sia un livello di violenza così elevato da comportare per i civili, per la sola presenza nell’area in questione, il concreto rischio della vita alla stregua delle acquisite informazioni” (cfr. pag. 11 del citato decreto), delle quali pure è stato dato analiticamente conto.
2.1.3. Esso, dunque, benché in maniera sintetica, ha illustrato le ragioni poste a base della soluzione adottata per le corrispondenti statuizioni, sicché deve considerarsi soddisfatto l’onere minimo motivazionale di cui si è detto, né rileva, qui, come si è già anticipato, l’esattezza, o non, di tali giustificazioni.
2.2. La giurisprudenza di questa Corte, poi, ha condivisibilmente opinato che: i) nei giudizi in materia di protezione internazionale, il giudice, in assenza della videoregistrazione del colloquio svoltosi dinnanzi alla Commissione territoriale, ha l’obbligo di fissare l’udienza di comparizione, ma non anche quello di disporre l’audizione del richiedente, a meno che: a) nel ricorso vengano dedotti fatti nuovi a sostegno della domanda; b) il giudice ritenga necessaria l’acquisizione di chiarimenti in ordine alle incongruenze o alle contraddizioni rilevate nelle dichiarazioni del richiedente; c) quest’ultimo nel ricorso ne faccia istanza, precisando gli aspetti in ordine ai quali intende fornire i predetti chiarimenti, e sempre che la domanda non venga ritenuta manifestamente infondata o inammissibile (cfr. Cass. n. 21584 del 2020); ii) “…a ermare l’inesistenza dell’obbligo di audizione a meno che nel ricorso vengano dedotti fatti nuovi, ovvero il giudice ritenga necessaria l’acquisizione di chiarimenti, ovvero ancora l’istanza sia corredata da precise indicazioni sui singoli aspetti da chiarire, e “sempre che la domanda non venga ritenuta manifestamente infondata o inammissibile”, equivale a costruire l’audizione pur che, laddove esercitata in un senso o nell’altro, presupponga (come ovvio) l’e.Olicitazione dei motivi della afferente decisione. Cosicché anche in base al citato precedente fidanza di audizione non può essere dal ricorrente considerata come finalizzata all’esercizio di un diritto potestativo, come sarebbe se al fondo di essa fosse riscontrabile un incombente processuale automatico, necessariamente insito nella fissazione dell’udienza e tale da impedire al giudice di rigettare altrimenti la domanda. Questo rafforza l’orientamento dominante di questa Corte, inaugurato da Cass. n. 17717-18. Ben vero, nel solco di quanto affermato dalla citata Cass. n. 21584-20, vi è semmai da aggiungere che il corredo esplicativo dell’istanza di audizione deve risultare anche dal ricorso per cassazione, in prospettiva di autosufficienza; nel senso che il ricorso, col quale si assuma violata l’istanza di audizione, implica che sia soddisfatto da parte del ricorrente l’onere di specificità della censura, con indicazione puntuale dei fatti a suo tempo dedotti a fondamento di quell’istanza” (cfr. Cass. n. 25312 del 2020). Tale onere, nella specie, non risulta specificamente adempiuto, né, peraltro, ai fini del riconoscimento, o meno, dello status di rifugiato e/o della protezione sussidiaria, si rivelerebbero decisive le circostanze oggi allegate dal ricorrente in ordine al suo vissuto familiare.
2.3. Con riguardo, poi, al mancato riconoscimento della protezione speciale (già cd. protezione umanitaria), il tribunale ha evidenziato l’assenza di stati patologici di rilievo o di peculiari situazioni soggettive attestanti condizioni di vulnerabilità del richiedente protezione, nonché dell’avvenuta, effettiva sua integrazione in Italia.
2.4. Fermo quanto precede, rileva il Collegio che:
i) il tribunale predetto ha esaurientemente esposto le ragioni, affatto corrette, per cui ha escluso il riconoscimento, oltre che dello status di rifugiato, anche della protezione sussidiaria quanto alle fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), mentre, quanto a quella proposta giusta la lettera c), del medesimo decreto, il provvedimento oggi impugnato ha comunque esaminato la situazione fattuale ed operato la ricostruzione della realtà socio-politica del Paese di provenienza del richiedente, compiutamente indicando le fonti internazionali consultate, debitamente aggiornate, ed ha rilevato che, sostanzialmente, nell’Edo State, in Nigeria, non si segnala attualmente una situazione di instabilità politico-sociale di livello così elevato da potere essere qualificata nei termini di quella “violenza generalizzata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”. Va solo rimarcato che, come chiarito da Cass. n. 29056 del 2019, l’eventuale omessa sottoposizione al contraddittorio delle COI (country of otigin information) assunte d’ufficio dal giudice ad integrazione del racconto del richiedente, non lede il diritto di difesa di quest’ultimo, poiché, in tal caso, l’attività di cooperazione istruttoria è integrativa dell’inerzia della parte e non ne diminuisce le garanzie processuali a condizione che il giudice di merito renda palese nella motivazione a quali informazioni abbia fatto riferimento, al fine di consentirne reventml e critica in sede di impugnazione; sussiste, invece, una violazione del diritto di difesa del richiedente quando costui abbia esplicitamente indicato le COI, ma il giudice ne utilizzi altre, di fonte diversa o più aggiornate, che depongano in senso opposto a quelle offerte dal ricorrente, senza prima sottoporle al contraddittorio. Nella specie, però, non vi è prova alcuna, né è stato specificamente dedotto dal ricorrente, di aver sottoposto all’attenzione del tribunale le fonti oggi richiamate in ricorso. A tanto deve solo aggiungersi che il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, nel prevedere che “Ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitatì è stato condivisibilrnente interpretato da questa Corte nel senso che l’obbligo di acquisizione delle informazioni da parte delle Commissioni territoriali e del giudice deve essere osservato in diretto riferimento ai fatti esposti ed ai motivi svolti nella richiesta di protezione internazionale, non potendo per contro il cittadino straniero lamentarsi della mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi riferita a circostanze non dedotte, ai fini del riconoscimento della protezione (cfr. Cass. n. 23983 del 2020; Cass. n. 2355 del 2020; Cass. n. 9842 del 2019; Cass. n. 30105 del 2018);
ii) la censura complessivamente afferente il diniego di rilascio del permesso speciale (già cd. protezione umanitaria) si rivela inammissibile, risolvendosi, sostanzialmente, in una critica al complessivo governo del materiale istruttorio operato dal giudice a quo, cui il ricorrente intenderebbe opporre una diversa valutazione. Nessun decisivo rilievo assume, infine, da sola, l’eventuale integrazione socio-lavorativa asseritamente raggiunta dal richiedente (ma concretamente esclusa dal tribunale), posto che vige nella materia de qua il principio di diritto secondo il quale non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia (r., nelle rispettive motivazioni, Cass., SU, n. 24413 del 2021, secondo cui “… occorre operare una valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta in Italia. Tale valutazione comparativa dovrà essere svolta attribuendo alla condizione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese d’origine un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nel tessuto sociale italiano”; Cass., SU, n. 24959 del 2019. Cfr. anche Cass. n. 24104 del 2021, secondo cui “…lo svolgimento di attività lavorativa nel nostro Paese, da solo, non costituisce una ragione sufficiente per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, per più ragioni: i) perché la legge non stabilisce alcun automatismo tra lo svolgimento in Italia di attività lavorativa e la sussistenza di una condizione di “vulnerabilità”; ii) perché il permesso di soggiorno per motivi umanitari è una misura temporanea, mentre lo svolgimento di attività lavorativa, in particolare a tempo indeterminato, legittimerebbe un permesso di soggiorno sine die; iii) perché la “vulnerabilità” richiesta ai fini del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, non può ravvisarsi nel mero rischio di regressione a condizioni economiche meno favorevoli (ex multis, Sez. 1, Ordinanza n. 17832 del 3.7.2019; Sez 1, Ordinanza n. 17287 del 27.6.2019). Lo svolgimento di attività lavorativa in Italia, per contro, può essere solo uno dei fattori indizianti che, valutati unitamente a tutte le altre circostanze del caso concreto, può dimostrare la sussistenza di una condizione di vulnerabilità del richiedente asilo…”). A tanto deve solo aggiungersi che, come condivisibilmente affermato da Cass. n. 24904 del 2020, “in tema di protezione umanitaria, la condizione di vulnerabilità che legittima il rilascio del permesso di soggiorno di cui alla L. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, non comprende quella di svantaggio economico o di povertà estrema del richiedente asilo, perché non è ipotizzabile un obbligo dello Stato italiano di garantire ai cittadini stranieri parametri di benessere o di impedire, in caso di rimpatrio, l’insorgere di gravi dOcoltà economiche e sociali”. Inoltre, la situazione del Paese di origine prospettata in termini generali ed astratti, come nel caso di specie, è di per sé inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria (cfr. Cass. n. 17787 del 2021, in motivazione). Nessun concreto rilievo assume, nella specie, la disciplina introdotta dal D.L. n. 130 del 2020, attesi gli accertamenti fattuali compiuti dal tribunale in ordine alla complessiva situazione socio-politica dell’Edo State, in Nigeria, ed al godimenti ivi dei diritti fondamentali, nonché alla mancata dimostrazione, da parte del ricorrente, di un suo radicamento effettivo nel territorio italiano;
iù) a fronte di tale corretta operazione di sussunzione dei fatti allegati alle norme di legge di cui il ricorrente ha chiesto l’applicazione, le doglianze sviluppate nei motivi di ricorso in esame investono, sostanzialmente, il complessivo governo del materiale istruttorio (quanto alla sussistenza, o meno, della prova dei presupposti per la invocata protezione internazionale ed umanitaria), senza assolutamente considerare, da un lato, che la denuncia di violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ivi formalmente proposte, non può essere mediata dalla riconsiderazione delle risultanze istruttorie (r. Cass. n. 2959 del 2021, in motivazione; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015; Cass. n. 8315 del 2013; Cass. n. 16698 del 2010; Cass. n. 7394 del 2010; Cass., SU. n. 10313 del 2006), non potendosi surrettiziamente trasformare il giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (r. Cass. n. 21381 del 2006, nonché le più recenti Cass. n. 8758 del 2017, Cass. n. 2959 del 2021 e Cass., SU, n. 34476 del 2019); dall’altro, che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (formalmente invocato dall’ A. con le doglianze in esame), nel testo, indicato in precedenza, qui applicabile, riguarda un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, da intendersi riferito a un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni, sicché sono inammissibili le censure che, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo (r., ex aliis, Cass. n. 22397 del 2019; Cass. n. 26305 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017).
4. Il ricorso, dunque, va respinto, senza necessità di pronuncia sulle spese di questo giudizio di legittimità, essendo il Ministero dell’Interno rimasto solo intimato, e dandosi atto, altresì, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (r. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, sussistono, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto, mentre “spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento”.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, giusta lo stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 25 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 9 febbraio 2022