Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4210 del 21/02/2014


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Civile Sent. Sez. 2 Num. 4210 Anno 2014
Presidente: TRIOLA ROBERTO MICHELE
Relatore: CARRATO ALDO

SENTENZA

per conto di
comunione
immobiliare

sul ricorso (iscritto al N.R.G. 48211’08) proposto da:
SANTILLI ANTONIO (C.F.: SNT NTN 66A01 H501R), rappresentato e difeso, in forza di
procura speciale in calce al ricorso, dall’Avv. Enrico Nuti ed elettivamente domiciliato
presso il suo studio, in Roma, via Santamaura, n. 49;
– ricorrente contro
GIACOMELLI TIZIANA (C.F.: GCM TZN 68C60 H501P), rappresentata e difesa, in virtù di
procura speciale a margine del controricorso, dagli Avv.ti Nicola Rago e Giorgio Vecchione
ed elettivamente domiciliata presso lo studio del secondo, in Roma, alla v. Giambattista
Vico,

t(Th

n.

22;

1

– controricorrente –

Data pubblicazione: 21/02/2014

Avverso la sentenza n. 2813/’07 della Corte di appello di Roma, depositata il 21 giugno
2007 e notificata il 18 dicembre 2007;
Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 10 gennaio 2014 dal
Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;
uditi gli Avv.ti Enrico Nuti, per il ricorrente, e Giorgio Vecchione, per la

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
Alberto Celeste, che ha concluso, in via principale, per l’inammissibilità del ricorso e, in
linea subordinata, per il suo rigetto.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso depositato il 25 marzo 1998 il sig. Santilli Antonio proponeva opposizione
dinanzi al Tribunale di Roma, ai sensi dell’art. 615 c.p.c., avverso l’atto di precetto
notificatogli il 9 ottobre 1997 con il quale la moglie Giacomelli Tiziana (dal quale viveva
separato), gli aveva intimato il pagamento della somma di £ 112.712.000, oltre interessi e
spese corrispondenti alle rate di mutuo sulla casa coniugale rimaste insolute dovute
all’istituto di credito mutuante e, perciò, oggetto di separata azione esecutiva. La convenuta
si costituiva contestando la proposta opposizione.
Con successivo atto di citazione, notificato il 2 giugno 1998, lo stesso Santilli conveniva,
avanti al predetto Tribunale, la medesima Giacomelli per sentirla condannare alla
restituzione della somma di £ 34.133.995, oltre interessi legali, quale importo dovuto a titolo
di quota di spettanza della moglie sulle somme pagate prima della separazione per
l’acquisto dell’appartamento avvenuto in regime di comunione. Anche in questo giudizio la
convenuta si costituiva instando per il rigetto dell’avversa pretesa.
Riuniti i due giudizi, il Tribunale di Roma, con sentenza n. 5035 del 2004, accoglieva
parzialmente l’opposizione e la domanda proposte dal Santilli e dichiarava il diritto della

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contro ricorrente;

Giacomelli a procedere ad azione esecutiva limitatamente alla somma di euro 22.631,31 e
la condannò a pagare l’importo di euro 26.932,53, oltre interessi e spese.
Interposto appello da parte della Giacomelli e nella costituzione dell’appellato, l’adita Corte
di appello di Roma, con sentenza n. 2813 del 2007 (depositata il 21 giugno 2007),
accoglieva il gravame e, in parziale riforma della sentenza impugnata, respingeva la

spese del grado di appello.
A sostegno dell’adottata decisione, la Corte capitolina ravvisava la fondatezza del
gravame, non ritenendo che l’immobile dovesse essere regolato da norme diverse da
quella della comunione ordinaria dei beni, bensì rilevando che la convenzione intervenuta
tra i coniugi in data 9 marzo 1995, in ordine alla vendita della precedente casa coniugale,
aveva comportato necessariamente, in modo implicito, la rinuncia da parte del Santilli alla
ripetizione delle somme pagate in precedenza per l’acquisto dello stesso immobile.
Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione il Santilli Antonio, riferito
a due motivi, in ordine al quale l’intimata si è costituita in questa sede con controricorso.
Entrambi i difensori delle parti hanno depositato memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c. .

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo il ricorrente ha dedotto — in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. — la
violazione e falsa applicazione degli artt. 1100, 1101, 1294, 1298 e 1299 c.c., formulando,
al riguardo, in virtù dell’art. 366 bis c.p.c. (“ratione temporis” applicabile nella fattispecie,
risultando la sentenza impugnata pubblicata il 21 giugno 2007), il seguente quesito di
diritto: “accerti la S.C. se vi sia stata falsa applicazione degli artt. 1101, 1294 e 1298 c.c. ed
enunci il principio di diritto cui il giudice di merito avrebbe dovuto attenersf’.

2. Con il secondo motivo il ricorrente ha denunciato, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., il vizio
di insufficiente motivazione con riferimento alla ritenuta considerazione della scrittura,
..

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domanda di condanna formulata dal Santilli Antonio, che onerava del pagamento delle

stipulata il 9 marzo 1995, come una convenzione che aveva regolato in modo “definitivo e
tombale” i rapporti economici intercorrenti tra le parti, con la conseguenza che la sentenza
si sarebbe dovuta ritenere da annullare nella parte in cui aveva interpretato la predetta
scrittura, rilevando che la previsione di dividere il ricavato della vendita dell’appartamento
(già adibito a casa coniugale) escludesse necessariamente la possibilità, per esso

3. Rileva il collegio che le due censure non sono provviste della idonea formulazione del
requisito di ammissibilità prescritto dall’art. 366 bis c.p.c. (“ratione temporis” applicabile nel
caso di specie) e, pertanto, non sono meritevoli di pregio.
Sul piano generale si osserva (cfr., ad es., Cass. n. 4556/2009) che l’art. 366-bis c.p.c., nel
prescrivere le modalità di formulazione dei motivi del ricorso in cassazione, comporta, ai
fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso medesimo, una diversa valutazione da
parte del giudice di legittimità a seconda che si sia in presenza dei motivi previsti dai
numeri 1, 2, 3 e 4 dell’art. 360, comma 1, c.p.c., ovvero del motivo previsto dal numero 5
della stessa disposizione. Nel primo caso ciascuna censura deve, all’esito della sua
illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va
funzionalizzata, come attestato dall’art. 384 c.p.c., all’enunciazione del principio di diritto
ovvero a “dicta” giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza, mentre,
ove venga in rilievo il motivo di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. (il cui oggetto riguarda il solo
“iter” argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che, pur libera
da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto
controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a
giustificare la decisione.

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ricorrente, di ripetere dalla Giacomelli somme a suo tempo anticipate.

.,

Ciò posto, alla stregua della uniforme interpretazione di questa Corte (secondo la quale,
inoltre, ai fini dell’art. 366 bis c.p.c., il quesito di diritto non può essere implicitamente
desunto dall’esposizione del motivo di ricorso, né può consistere o essere ricavato dalla
semplice formulazione del principio di diritto che la parte ritiene corretto applicare alla
fattispecie, poiché una simile interpretazione si sarebbe risolta nell’abrogazione tacita della

previsione scaturente dal citato art. 366 bis c.p.c., poiché:
con riferimento al primo motivo, implicante la dedotta violazione degli artt.
1101, 1294 e 1298 c.c., il ricorrente ha concluso lo svolgimento della
censura motivo con l’indicazione di un quesito (“accerti la S.C. se vi sia stata
falsa applicazione degli artt 1101, 1294 e 1298 c.c. ed enunci il principio di
diritto cui il giudice di merito avrebbe dovuto attenersf’) assolutamente
generico e tautologico, la cui formulazione non risulta certamente idonea ad
assumere rilevanza ai fini della decisione del motivo e a chiarire l’errore di
diritto imputato alla sentenza impugnata in relazione alla concreta
controversia (v., tra le tante, Cass. n. 7197/2009);
con riferimento al secondo motivo, relativo alla prospettazione di un vizio di
insufficiente motivazione, manca la formulazione di un’autonoma e specifica
sintesi del vizio logico inerente alla dedotta inadeguatezza motivazionale
(mentre la parte finale della doglianza sembra, piuttosto, indicare il solo fatto
controverso posto a fondamento della censura, senza che, tuttavia, risultino
denunciate l’omissione o la contraddittorietà della motivazione).
Ad ogni modo, con riferimento al secondo motivo, deve sottolinearsi che, con la sua
formulazione, il ricorrente ha inteso offrire solo una diversa interpretazione della
convenzione intercorsa tra le parti in data 9 marzo 1995, da contrapporre a quella operata
dal giudice distrettuale, senza, oltretutto, indicare compiutamente i vizi logici e giuridici nei
.

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suddetta norma codicistica), deve escludersi che il ricorrente si sia attenuto alla rigorosa

quali sarebbe incorsa la Corte di merito. Peraltro, quest’ultima, con l’esposizione di un
percorso logico assolutamente adeguato, ha argomentatamente sostenuto che il predetto
accordo aveva lo scopo di risolvere e regolare tutti i rapporti patrimoniali ancora pendenti
tra i coniugi al fine di pervenire alla separazione consensuale, avvenuta il successivo 19
giugno 1995: alla luce di tale ricostruzione, il giudice di appello ha, di conseguenza,

né al canone ermeneutico della buona fede ritenere che la sorte degli eventuali crediti del
marito derivanti dal pagamento delle rate di mutuo (o, più esattamente, dal pagamento alla
Cooperativa del contributo per la prenotazione dell’alloggio, per come emergente dalle
ricevute prodotte dallo stesso Santili), anche con riferimento alla quota della moglie,
fossero rimasti esclusi dall’oggetto della predetta convenzione.
4. In definitiva, alla stregua delle complessive ragioni esposte, il ricorso deve essere
integralmente respinto, con la conseguente condanna del soccombente ricorrente al
pagamento delle spese della presente fase di legittimità, che si liquidano nei sensi di cui
in dispositivo sulla scorta dei nuovi parametri previsti per il giudizio di legittimità dal D.M.
Giustizia 20 luglio 2012, n. 140 (applicabile nel caso di specie in virtù dell’art. 41 dello
stesso D.M.: cfr. Cass., S.U., n. 17405 del 2012).
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente
giudizio, liquidate in complessivi euro 3.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre
accessori nella misura e sulle voci come per legge.

Così deciso nella camera di consiglio della 2^ Sezione civile in data 10 gennaio 2014.

legittimamente opinato che non poteva rispondere, sul piano logico, alla volontà delle parti

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