Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4210 del 17/02/2017


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Cassazione civile, sez. III, 17/02/2017, (ud. 09/01/2017, dep.17/02/2017),  n. 4210

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – rel. Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 18803/2014 proposto da:

S.G., S.C., SE.GE., S.L.,

S.M., quest’ultima rappresentata nel presente atto dalla Sig.na

B.M., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA VAL DI NON 18,

presso lo studio dell’avvocato NICOLA MASSAFRA, rappresentati e

difesi dall’avvocato MARIA ROSARIA CALVIO, giusta procura speciale

in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

S.D., C.B.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 232/2014 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 05/03/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/01/2017 dal Consigliere Dott. ENRICO SCODITTI;

udito l’Avvocato NICOLA MASSAFRA per delega non scritta;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PEPE Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. S.D. ed il coniuge C.B. riassunsero innanzi al Tribunale di Foggia – sezione specializzata agraria la causa relativa alla domanda riconvenzionale avente ad oggetto l’accertamento di rapporto di affittanza coattiva ai sensi della L. n. 203 del 1982, art. 49, relativamente a fondo sito in agro di (OMISSIS) (fg. (OMISSIS), p.lle (OMISSIS)) la cui proprietà dei tre noni era compresa nell’eredità devoluta dalla madre G.M.R.. La domanda riconvenzionale era stata dagli istanti proposta in giudizio di reintegra per lesione di legittima e di divisione introdotto da S.G., C., Ge., L.a e M..

2. Il Tribunale adito rigettò la domanda.

3. Avverso detta sentenza proposero appello S.D. e C.B.. Si costituì la parte appellata chiedendo il rigetto dell’appello.

4. Con sentenza di data 5 marzo 2014 la Corte d’appello di Bari accolse l’appello. Osservò la corte territoriale, premesso che sufficiente ai fini dell’applicazione della L. n. 203 del 1982, art. 49, è la qualifica di coltivatore diretto, per la quale è richiesto che la forza lavorativa costituisca almeno un terzo di quella occorrente per le normali necessità di coltivazione del fondo, che dalle testimonianze, assunte in altra causa fra le stesse parti e con riferimento allo stesso bene, era emerso che S.D. aveva lavorato con l’ausilio della moglie, sia prima che dopo la morte del padre, nei terreni oggetto di causa, e che avendo costui detenuto il fondo del padre doveva avere necessariamente detenuto anche la quota indivisa della madre. Aggiunse che utilizzabile era anche la CTU svolta nell’altro processo, la quale aveva accertato che il medesimo S. aveva raggiunto la forza lavorativa pari ad un terzo del fabbisogno lavorativo annuo richiesto per la gestione dell’unità produttiva, avuto riguardo alla estensione dei terreni ed alla qualità delle colture. Concluse nel senso che all’accoglimento della domanda non ostava la circostanza che nell’atto con cui la G. aveva venduto al figlio D. i tre noni di sua proprietà sul fondo in questione era contenuta la clausola con cui si dichiarava che il possesso giuridico e il materiale godimento di quanto venduto si intendeva trasferito pro quota all’acquirente alla data del rogito, dovendo tale clausola essere intesa come mera clausola di stile oppure come trasferimento del possesso uti dominus (laddove l’affittuario era solo detentore).

5. Hanno proposto ricorso per cassazione S.G., C., Ge., L. e M., quest’ultima rappresentata da B.M., sulla base di tre motivi. Resiste con controricorso la parte intimata. E’ stata depositata memoria di parte.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione della L. n. 203 del 1982, artt. 6 e 49, artt. 113, 115 e 116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osservano le ricorrenti che non risultava adeguatamente provata la qualità di coltivatore diretto, dovendosi il significato di coltivatore diretto intendere in modo restrittivo, quale attività imprenditoriale caratterizzata dai requisiti di abitualità e professionalità, mentre S.D. rivestiva la qualità di bracciante agricolo giornaliero. Aggiungono che la carenza del requisito per la coltivazione del fondo emerge dalla confessione stragiudiziale contenuta nell’atto di compravendita laddove si dichiara che l’immissione in possesso del fondo è avvenuta solo successivamente alla stipulazione dell’atto.

1.1. Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile. Nel definire il concetto di coltivatore diretto la L. n. 203 del 1982 , art. 6, si limita a stabilire che la forza lavorativa sua e della famiglia deve costituire almeno un terzo di quella occorrente per le normali necessità di coltivazione del fondo, tenuto conto agli effetti del computo delle giornate necessarie per la sua coltivazione anche dell’impiego di macchine agricole, senza fare alcun riferimento alla esclusività dell’attività coltivatrice rispetto ad altre eventualmente esercitate, eventualmente con carattere di prevalenza (Cass. 8 febbraio 2006, n. 2663; 21 luglio 2000, n. 9593; 24 novembre 1997, n. 11767). A tale principio di diritto è conforme la decisione impugnata. Nel motivo di censura si fa riferimento ad una nozione di coltivatore diretto che non trova riscontro nel testo legislativo.

1.2. Le ricorrenti si dolgono inoltre della mancata qualificazione in termini di confessione stragiudiziale della dichiarazione contenuta nell’atto di compravendita. La qualificazione proposta non tiene conto dell’interpretazione della dichiarazione, rilevante sul piano dell’accertamento del fatto, contenuta nella decisione impugnata. Il giudice di merito ha accertato che la clausola in questione, se non riducibile a mera clausola di stile, si riferisce al trasferimento del possesso uti dominus. Tale accertamento di fatto non risulta impugnato sotto il profilo del vizio motivazionale o della violazione delle regole di ermeneutica contrattuale.

2. Con il secondo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 61, 62, 63, 64, 191 e 194 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osservano le ricorrenti che la decisione è basata su una CTU di carattere esplorativo e che la consulenza non può essere utilizzata al fine di esonerare la parte dall’onere della prova.

2.1. Il motivo è inammissibile. La censura è priva di specificità sul piano della critica della decisione impugnata perchè non si illustrano le ragioni per le quali l’aver disposto la CTU da parte del giudice si sia tradotto in un esonero della parte dall’onere della prova, a fronte peraltro dell’acquisizione e valutazione delle testimonianze assunte nell’altro processo.

3. Con il terzo motivo si denuncia omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nonchè violazione degli artt. 112, 115, 116, 244-245 c.p.c. e art. 111 Cost.. Lamentano le ricorrenti che il giudice di appello ha disposto l’acquisizione delle prove assunte nell’altro processo, ma nulla ha disposto sulle istanze istruttorie delle ricorrenti, dedotte in primo grado e reiterate in sede di costituzione in appello.

3.1 Il motivo è inammissibile. Le istanze istruttorie non accolte in primo grado e reiterate con l’atto di appello, ove non siano state riproposte in sede di precisazione delle conclusioni, sia in primo grado che nel giudizio di gravame, devono reputarsi rinunciate, a prescindere da ogni indagine sulla volontà della parte interessata, così da esonerare il giudice del gravame dalla valutazione sulla relativa ammissione o dalla motivazione in ordine alla loro mancata ammissione (fra le tante Cass. 10 agosto 2016, n. 16886; 29 gennaio 2013, n. 2093; 27 aprile 2011, n. 9410). In violazione del principio di autosufficienza del ricorso le ricorrenti non hanno specificatamente indicato se le istanze istruttorie siano state riproposte in sede di precisazione delle conclusioni innanzi al giudice di appello, essendosi limitate a riferire della reiterazione in sede di comparsa di costituzione.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al rimborso delle spese processuali che liquida in Euro 5.200,00 per compenso, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali e oneri di legge; rilevato che dagli atti il processo risulta esente, non si applica il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 9 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2017

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