Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4209 del 21/02/2018


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Civile Ord. Sez. L Num. 4209 Anno 2018
Presidente: MANNA ANTONIO
Relatore: DE GREGORIO FEDERICO

ORDINANZA

sul ricorso 17207-2012 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona
del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA L.G. FARAVELLI 22, presso lo
studio dell’avvocato ARTURO MARESCA, che la
rappresenta e difende giusta delega in atti;
– ricorrente contro
2017
2930

MARCOTULLI

MAURO,

elettivamente

domiciliato

in

MONTEROTONDO, CORSO TRIESTE 128, presso lo studio
dell’avvocato LUIGI FERDINANDO BERARDI, che lo
rappresenta e difende giusta delega in atti;
– controricorrente –

Data pubblicazione: 21/02/2018

avverso la

sentenza n.

5020/2011

della CORTE

D’APPELLO di ROMA, depositata il 14/07/2011 r.g.n.

4321/2009.

adunanza 27-1)9-17/ r.g. n. 172(17-12

LA CORTE
visti gli atti e sentito il consigliere relatore;
RILEVATO che il giudice del lavoro di ROMA con sentenza del 29 maggio 2008 ritenne illegittimo il
contratto di lavoro interinale, concluso ai sensi della L. n. 196/1997, in forza del quale l’attore aveva
prestato servizio a favore di POSTE ITALIANE S.p.a., di seguito a contratto di fornitura ex L. n.
196/97 stipulato con la INWORK S.p.a. dal 9 maggio al 30 settembre 2003, in seguito prorogato tre
volte sino al 30 settembre 2004, dichiarando quindi che tra l’attore MARCOTULLI Mauro e la società
utilizzatrice POSTE ITALIANE si era instaurato un rapporto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato, condannando quindi la stessa POSTE ITALIANE alla riammissione in servizio del

messa in mora, sino all’effettivo ripristino del rapporto, oltre accessori di legge. Il primo giudicante
(come si legge nella sentenza di appello) aveva accolto la domanda sotto il solo profilo della
insussistenza delle ragioni di ricorso alla fornitura indicate in contratto;
che avverso la succitata sentenza proponeva appello POSTE ITALIANE S.p.a., quindi respinto dalla
Corte d’Appello di ROMA come da pronuncia n. 5020 dell’otto giugno / 14 luglio 2011, in seguito
impugnata dalla medesima società mediante ricorso per cassazione del 10 /12 luglio 2012, affidato
a sei motivi. La sentenza di secondo grado, confermata l’esclusione della pretesa risoluzione
consensuale del rapporto, condivideva altresì le ragioni per cui non si era ritenuta provata la
sussistenza delle esigenze poste a fondamento del ricorso alla fornitura; ne derivava il rapporto di
lavoro a tempo indeterminato alle dipendenze della utilizzatrice POSTE ITALIANE, tenuta quindi al
conseguente risarcimento del danno, commisurato alle retribuzioni perse dalla costituzione in mora,
non risultando invece applicabile nella specie, secondo la Corte distrettuale, la sopravvenuta
disciplina di cui all’art. 32, comma V, L. n. 183/2010;
che II MARCOTULLI ha resistito mediante controricorso in data 8 – 9 agosto 2012;
che memoria illustrativa è stata depositata dalla società ricorrente.

CONSIDERATO
che con il primo motivo la ricorrente ha denunciato la insufficiente e contraddittoria motivazione
circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione alla risoluzione contrattuale per
mutuo consenso opposta dalla resistente – appellante;
che con il secondo motivo POSTE ITALIANE ha lamentato violazione e falsa applicazione dell’art.
1372 c.c. ancora con riferimento al rigetto dell’eccezione di risoluzione consensuale, visto che
di seguito all’ultima cessazione del rapporto di lavoro temporaneo, risalente al 30 settembre,
soltanto in data 25 ottobre 2006 l’attore aveva avanzato la richiesta di tentativo obbligatorio
di conciliazione, con conseguente comportamento concludente nel senso di una volontà tacita
circa la mancanza di alcun interesse in proposito da parte del MARCOTULLI;
che con la terza doglianza la sentenza impugnata è stata censurata ex art. 360 co. I n. 5 c.p.c.
con riferimento all’argomento svolto dalla Corte di merito circa il fatto che soltanto con l’atto di
appello la società aveva dedotto l’esigenza sostitutiva, che giustificava il ricorso al lavoro
I

lavoratore ed al pagamento (a titolo di risarcimento danni) delle retribuzioni dovute dalla data di

adunanza 27109-17 / r.g. n. 17207-12

temporaneo ex L. n. 196/97, con conseguente inammissibilità della pur richiesta prova per
testi, laddove sidal primo grado del giudizio parte convenuta aveva dato conto di quanto in
merito previsto dall’accordo sindacale del 4 dicembre 2002, formulando altresì apposite
richieste di prova per testi;
che pertanto il fatto controverso era rappresentato dalla errata interpretazione delle difese
svolte in appello e dalla mancata valutazione delle istanze istruttorie nonché dei dati contenuti
nella memoria difensiva di primo grado, chiaramente decisive poiché avrebbero consentito di

dell’attore;
che con il quarto motivo la ricorrente ha dedotto la violazione e falsa applicazione degli artt. 10
L. n. 196/1997, nonché della L. 1369/60;
che con il quinto motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2932 c.c.,
per aver la corte distrettuale ritenuto inapplicabile l’art. 32 della L. n. 183/2010 sull’erroneo
presupposto che si sarebbe formato il giudicato interno sul risarcimento del danno, laddove
peraltro con l’atto di appello era stato altresì lamentato l’erroneo apprezzamento da parte del
primo giudicante dell’eccezione di aliunde perceptum sollevata dalla medesima società;
che infine con il sesto e ultimo motivo è stata denunciata la violazione dell’art. 32 L. n.
183/2010, la cui disciplina illegittimamente non era sta invece applicata dalla Corte territoriale;
che le prime due doglianze, tra loro connesse ed entrambe attinenti alla questione del preteso
mutuo consenso sono inconferenti e palesemente infondate alla stregua della consolidata
giurisprudenza di questa Corte, cui nella specie si sono correttamente attenuti i giudici di
merito, accertando l’insussistenza di univoci elementi da cui poter desumere l’asserito
scioglimento consensuale del rapporto di lavoro, risultando in proposito del tutto insufficiente
il mero decorso del tempo, per cui d’altro canto parte convenuta non risulta aver allegato
ulteriori, specifici ed univoci elementi fattuali da cui poter desumere un indubbio disinteresse
del MARCOTULLI alle sorti dal rapporto di lavoro per il quale egli aveva prestato la sua opera
sino al 30-09-2004, a seguito di proroghe del primo contratto durato dal 9 maggio al 30
settembre 2003 (Cass. v. tra le altre Cass. Sez. 6 – L, ordinanza n. 16932 del 04/08/2011,
secondo cui nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico
rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al
contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del
rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo
trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché del comportamento
2
ID G

dimostrare l’effettiva esigenza verificatasi presso il CMP di Fiumicino nel periodo di applicazione

adunanza 27-09-17 / 4, n. 17207-12

tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà
delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione
del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito,
le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori
di diritto. Conformi: Cass. nn. 23319 del 2010, 5887 del 2011, Sez. lav. sentenza n. 1780 del
28/01/2014 e numerose altre successive di segno analogo,
Grava, inoltre – ancora secondo Cass. n. 16932 cit.-, sul datore di lavoro, che eccepisca la

circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre
definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro. Conforme Cass. n. 17070 del 2002);
che, pertanto, la risoluzione del rapporto per mutuo consenso ai sensi dell’art. 1372, co. 1, c.c.,
sulla base del comportamento inerte del lavoratore e di altri elementi significativi concorrenti,
integra giudizio che attiene al merito della controversia; ne deriva che l’apprezzamento circa
l’idoneità degli elementi presuntivi a consentire inferenze rientra nei compiti affidati al giudice
del fatto, senza che il convincimento da questi espresso in relazione al complesso degli indizi,
soggetti ad una valutazione globale e non con riferimento singolare a ciascuno di essi, possa
essere suscettibile di un diverso o rinnovato apprezzamento in sede di legittimità;
che l’anzidetto terzo motivo di ricorso appare inammissibile, poiché in effetti pretende, in
questa sede di legittimità, di fornire una versione di fatti diversa da quella invece accertata e
valutata dai giudici di merito circa la ritenuta insussistenza di valide ragioni, tali da poter
giustificare il ricorso al lavoro interinale da parte della società utilizzatrice, laddove ad ogni
modo per fatto controverso ex art. 360 n. 5 c.p.c. di certo non può ritenersi

l’errata

interpretazione delle difese svolte ovvero la mancata valutazione delle istanze istruttorie (cfr.
invece pag. 20 del ricorso, mentre pure nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte
dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 -omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, come
riferita ad “un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, nella specie applicabile, manca
qualsiasi riferimento ad un preciso accadimento o a una precisa circostanza in senso storico naturalistico, non assimilabile in alcun modo a “questioni” o “argomentazioni”, sicché la censura
stessa appare irritualmente formulata, avuto riguardo per contro alle argomentazioni sulle quali
si fonda la decisione adottata con la sentenza di appello (cfr. del resto Cass. I civ. n. 14267 del
20/06/2006 ed altre di segno analogo, secondo cui in tema di valutazione delle risultanze
probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115
e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di
3
FIX

;

risoluzione per mutuo consenso dei contratti succedutisi nel tempo, l’onere di provare le

adunanza 27-09-17 / r.g. n. 17207-1 9

motivazione di cui all’art. 360, primo comma, numero 5), cod. proc. civ., e deve emergere
direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile
in sede di legittimità);
che il quarto motivo di ricorso è infondato, dovendosi confermare il principio (v. Cass. lav. n.
1148 del 17/01/2013), secondo cui in tema di lavoro interinale, la legittimità del contratto di
fornitura costituisce il presupposto per la stipulazione di un legittimo contratto per prestazioni
di lavoro temporaneo. Ne consegue che l’illegittimità del contratto di fornitura comporta le

prestazioni di lavoro e, quindi, l’instaurazione del rapporto di lavoro con il fruitore della
prestazione, cioè con il datore di lavoro effettivo; inoltre, alla conversione soggettiva del
rapporto si aggiunge la conversione dello stesso da lavoro a tempo determinato in lavoro a
tempo indeterminato, per intrinseca carenza dei requisiti richiesti dal d.lgs. 368 del 2001 ai fini
della legittimità del lavoro a tempo determinato tra l’utilizzatore ed il lavoratore (cfr. peraltro
anche Cass. lav. n. 21837 del 05/12/2012, secondo cui la violazione delle disposizioni della
legge n. 196 del 1997, ed in particolare dell’art. 1, comma 2, lett. a), comporta la sostituzione
della parte datoriale e, salvo che non ricorrono specifiche ragioni che consentano l’apposizione
di un termine, l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l’utilizzatore
interponente, senza che assuma rilievo che l rapporto con l’interposto fosse a termine, atteso
che la medesima sanzione è prevista per la meno grave violazione dell’obbligo di stipulare il
contratto con forma scritta e che, sul piano sistematico, una diversa conclusione, porterebbe
alla inammissibile situazione per cui la violazione del divieto di interposizione di manodopera
consentirebbe all’interponente di beneficiare di una prestazione a termine altrimenti preclusa);
che quanto al quinto motivo appare assolutamente inconferente l’asserita violazione dell’art.
2932 c.c. in relazione alla disciplina dettata dall’art. 32 L. n. 183/2010, regolando l’art. 2932

conseguenze previste dalla legge sul divieto di intermediazione e interposizione nelle

f

l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto, cosa che non ha alcuna attinenza
con le questioni qui in discussione, laddove per altro verso risultano superate le altre
problematiche, pertinenti all’aliunde perceptum,

promiscuamente trattate con la quinta

censura, in base all’indennizzo forfettario comunque dovuto a norma del citato art. 32, secondo
,/

quanto di seguito precisato;
‘1, ;- k,

che, infatti, è fondato il

Cjirrnotivo di ricorso, relativamente alla contestata violazione

dell’art. 32, comma 5, L. n. 183\2010, avendo questa Corte ormai da tempo affermato che in
tema di lavoro interinale l’indennità prevista dal citato art. 32, nel significato chiarito dal comma
13 dell’art. 1 della legge 28 giugno 2012 n. 92, trova applicazione con riferimento a qualsiasi
4

L

adunanza 27-09-17 / r.g. n. 17207-12

ipotesi di ricostituzione del rapporto di lavoro avente in origine termine illegittimo e si applica
anche nel caso di condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore
a causa dell’illegittimità di un contratto per prestazioni di lavoro temporaneo a tempo
determinato, ai sensi della legge 24 giugno 1997, n. 196, convertito in contratto a tempo
indeterminato tra lavoratore e utilizzatore della prestazione (v. Cass. n. 1148/13 cit.); che,
inoltre, in tema di lavoro interinale l’indennità prevista dall’art. 32 trova applicazione in ogni
caso in cui vi sia und contratto di lavoro a tempo determinato per il quale operi la conversione

al risarcimento del danno subito dal lavoratore a causa dell’illegittimità di un contratto per
prestazioni di lavoro temporaneo a tempo determinato, convertito in contratto a tempo
indeterminato tra lavoratore e utilizzatore della prestazione, atteso che anche tale contratto è
riconducibile alla categoria del contratto di lavoro a tempo determinato (come si desume anche
dalla Direttiva 1999/70/CE, di recepimento dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro
a tempo determinato, che, proprio per tale astratta riconducibilità, lo ha escluso espressamente
dal suo campo di applicazione – cfr. Cass. 29.5.2013 n. 13404 e 23.4.2015 n. 8286, nonché n.
10317 del 26/04/2017);
che, in definitiva, mentre vanno disattesi i primi cinque motivi di ricorso, deve essere accolto il
sesto e ultimo motivo, con conseguenti cassazione della sentenza impugnata sul punto e rinvio
ai fini della determinazione dell’indennità dovuta al lavoratore ex art. 32 L. n. 183\2010, oltre
che per la regolamentazione delle spese, ivi comprese quelle del presente giudizio di legittimità,
restando peraltro assorbita ogni altra questione, in quanto l’aliunde perceptum o percipiendum
è chiaramente incompatibile con il riconoscimento del diritto all’indennizzo ex art. 32 cit. (che
copre il danno derivante dalla illegittimità del contratto de quo, dal momento dello spirare del
termine finale, all’epoca invalidamente fissato, sino alla pronuncia di accoglimento della
domanda, per cui da tale pronuncia sono dovuti anche gli accessori di legge. V. infatti Cass.
lav. n. 151 del 09/01/2015: nei casi di conversione del contratto di lavoro a tempo determinato,
l’indennità di cui all’art. 32, commi 5 e 7, della legge 4 novembre 2010, n. 183, come
disciplinata dall’art. 1, comma 13, della legge 28 giugno 2012, n. 92, con norma di
interpretazione autentica, ha carattere “forfetizzato” ed “onnicomprensivo” e pertanto ristora
per intero il pregiudizio subito dal lavoratore per i danni causati dalla nullità del termine nel
periodo cosiddetto “intermedio”, che decorre dalla scadenza del termine sino alla sentenza di
conversione e non sino al deposito del ricorso introduttivo del giudizio. In senso analogo, v.
anche Cass. lav. n. 19295 del 12/09/2014, secondo cui l’indennità di cui all’art. 32, commi 5

in contratto a tempo indeterminato, e dunque anche nel caso di condanna del datore di lavoro

adunanza 27-0947 / r.g. n. 17207-12

e 7, della legge 4 novembre 2010, n. 183, costituisce una specie di penale “ex lege” a carico
del datore di lavoro per i danni causati dalla nullità del termine nel periodo cosiddetto
“intermedio”, che decorre dalla scadenza del termine sino alla sentenza di conversione, sicché
essa non può essere applicata al periodo successivo a detta sentenza, richiamando in materia
anche Corte cost., sentenza n. 303 del 2011. Infatti, come già puntualizzato da Cass. lav. n.
3056 del 29/02/2012, lo “ius superveniens” ex art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge n. 183 del
2010 configura, alla luce dell’interpretazione adeguatrice offerta dalla Corte costituzionale con

apposto il termine nullo; pertanto, l’importo dell’indennità è liquidato dal giudice, nei limiti e
con i criteri fissati dalla novella, a prescindere dall’intervenuta costituzione in mora del datore
di lavoro e dalla prova di un danno effettivamente subito dal lavoratore -senza riguardo, quindi,
per l’eventuale “aliunde perceptum”-, trattandosi di indennità

“forfetizzata”

e

“onnicomprensiva” per i danni causati dalla nullità del termine nel periodo cosiddetto
“intermedio”, dalla scadenza del termine alla sentenza di conversione. Conformi id. n. 9023
del 05/06/2012 e n. 19098 del 09/08/2013.
Cfr. ancora Cass. Sez. 6 – L, n. 5344 del 17/03/2016, secondo cui l’articolo 429, comma 3,
c.p.c., in tema di rivalutazione monetaria dei crediti di lavoro trova applicazione anche nel caso
dell’indennità di cui all’art. 32 della I. n. 183 del 2010, in quanto si riferisce a tutti í crediti
connessi al rapporto e non soltanto a quelli aventi natura strettamente retributiva, fermo
restando che alla natura di liquidazione forfettaria e onnicomprensiva dell’indennità consegue
la decorrenza, della rivalutazione monetaria e degli interessi legali, dalla data della sentenza
che dispone la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Inoltre, v. anche Cass. lav. n. 16545 del 05/08/2016, secondo cui la disciplina di cui all’art. 32,
comma 5, della I. n. 183 del 2010, come autenticamente interpretata dall’art. 1, comma 13,
della I. n. 92 del 2012, non contrasta con la giurisprudenza della Corte EDU, in quanto
giustificata da ragioni di “pubblica utilità”, suscettibili di legittimare limitazioni al diritto di
proprietà, la cui valutazione compete, prioritariamente, alle autorità nazionali, che vantano una
posizione migliore rispetto alle autorità giurisdizionali internazionali, tanto più che, riguardando
non un diritto già attuale ed esigibile, ma soltanto una “legittima speranza” di ottenere il
pagamento delle somme controverse, assolve, in linea con quanto affermato da Corte cost. n.
303 del 2011, una finalità perequativa di semplificazione e certezza applicativa di interesse
generale.

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sentenza n. 303 del 2011, una sorta di penale “ex lege” a carico del datore di lavoro che ha

adunanza 27-09-17 / r.g. n. 17207-12

Cfr. infine Cass. sez. un. civ. n. 21691 del 05/07 – 27/10/2016 sulla impossibilità di desumere
un giudicato sulla quantificazione della pretesa risarcitoria azionata allorché venga impugnato
il riconoscimento dello stesso diritto sotteso al correlativo danno: «…

Una premessa

fondamentale è costituita dal fatto che ci si trova in presenza di capi della domanda
strettamente connessi, nel senso che vi è un capo, principale, dal cui accoglimento deriva la
sorte degli altri capi, da esso dipendenti. Se il capo della domanda sull’illegittimità del termine
viene accolto si può passare a discutere della riammissione in servizio e del risarcimento del

logica e necessaria.
Il codice di procedura civile, nella parte dedicata alle impugnazioni in generale, dopo aver
affermato che si intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta ad
impugnazioni ed in particolare a ricorso per cassazione, considera, in alcune disposizioni,
l’ipotesi di sentenze articolate in più parti. … . In dottrina si sottolinea giustamente che il
principio enunciato dall’art. 329, secondo comma, può valere solo per i capi che siano autonomi
e indipendenti dal quello impugnato. La giurisprudenza della Corte è nello stesso senso: cfr.,
ex plurimis, Cass., 23 ottobre 1998, n. 10550, 2 maggio 1967, n. 810, 9 aprile 1996, n. 3271,
18 ottobre 2005, n. 20143, 30 ottobre 2007, n. 22863, sez. un., 22 novembre 1994, n. 9872.
Tornando al caso in esame, l’impugnazione della parte della sentenza che ha affermato
l’illegittimità del termine esprime la volontà di caducare anche la parte, strettamente collegata
da un nesso causale, sul risarcimento del danno derivante dall’illegittimità. Il ricorrente esprime
la volontà di non acquietarsi all’intera decisione di cui mira a scardinare la parte principale con
i suoi corollari. Non vale invece l’inverso: qualora l’impugnazione sia volta solo contro uno dei
corollari, deve ritenersi che vi sia acquiescenza sulla parte principale.
Altra norma che considera le sentenze articolate in più parti è l’art. 336, che si occupa degli
effetti della riforma o cassazione della sentenza impugnata. Questa previsione considera
specificamente il caso in cui la sentenza consti di una parte principale e di una parte dipendente,
e dispone che “la riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti dipendenti dalla
parte riformata o cassata”.
Quindi, il legislatore ratifica che, qualora due o più parti di una sentenza siano collegate da un
nesso di dipendenza, l’accoglimento dell’impugnazione mirata sulla parte principale comporta
la caducazione anche della parte dipendente. È una norma che dà riconoscimento giuridico ad
un criterio logico: se cade la parte principale di una decisione, cadono anche le parti
consequenziali, quelle parti che venendo meno il fondamento non potrebbero reggersi da sole.
7

danno, se quel capo viene rigettato gli altri vengono a loro volta rigettati come conseguenza

adunanza 27-09-17 / r.g. n. 17207-12

Nel caso in esame, l’eventuale accoglimento dell’appello contro la parte della sentenza che
aveva dichiarato l’illegittimità del termine avrebbe comportato l’automatico venir meno anche
della parte sul risarcimento del danno.
Nella prospettiva di chi propone l’impugnazione questo collegamento logico, riconosciuto e
valorizzato dal legislatore, conferma che l’appello contro la parte della sentenza sull’illegittimità
del termine esprime la volontà di chiedere al giudice anche la caducazione della parte
dipendente della sentenza, cioè una chiara manifestazione di volontà contraria ad ogni

anche l’effetto di
mantenere fluida la questione, sino a che la decisione sull’impugnazione rimarrà sub iudice,
impedendo che si formi il giudicato sulla sentenza, tanto con riferimento alla parte principale,
che alla parte dipendente.
Il giudicato si forma quando una sentenza non è più impugnabile (art. 324 c.p.c.). Se
l’impugnazione di una parte della sentenza mira a determinare l’annullamento della parte
principale e, conseguentemente ed ineluttabilmente, delle parti dipendenti da essa, tale
impugnazione impedisce il passaggio in giudicato anche delle parti dipendenti della sentenza,
ed anche qualora queste parti non siano state oggetto di uno specifico motivo d’impugnazione.

Né può ritenersi che le parti dipendenti della sentenza, sebbene rimaste fluide e non
cristallizzate nel giudicato, siano comunque divenute intangibili a causa della maturazione di
preclusioni e decadenze processuali. Nel sistema non vi è una disposizione che imponga
l’impugnazione autonoma anche delle parti della sentenza esposte alla necessaria caducazione
in caso di accoglimento della parte principale, e tanto meno che la imponga a pena di
decadenza. Non rileva in questo caso l’art. 346 c.p.c., che disciplina le decadenze nel giudizio
di appello, prescrivendo che le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo
grado, che non sono espressamente riproposte in appello, si intendono rinunciate. Nella
situazione in esame la domanda, tanto con riferimento al capo principale che a quello
dipendente, è stata accolta in primo grado e si è al di fuori del campo delle eccezioni: non si è
in presenza di una eccezione in senso stretto formulata in primo grado dalla società e non
riproposta in appello, ma di una domanda, articolata in più parti dipendenti l’una dall’altra,
accolta dalla sentenza nei confronti della quale la convenuta soccombente ha proposto appello
impugnando la parte principale della decisione con un atto il cui accoglimento comporterebbe
la caducazione anche della parte dipendente.
8
FDG

acquiescenza alla parte principale della sentenza ed alle parti da essa dipendenti. Ma comporta

adunarria 27-09-17 / r.g. n. 17207-12

Traendo le fila di queste riflessioni, la ricostruzione del sistema processuale per cui
l’impugnazione della parte principale della sentenza impedisce il passaggio in giudicato anche
delle parti da essa dipendenti appare più aderente al dettato normativo, che a sua volta, come
si è detto, si basa su di un criterio difficilmente confutabile sul piano logico.
La diversa opzione formulata in alcune decisioni comporta, al contrario, molteplici distonie.
… In secondo luogo, come si è visto, l’orientamento che afferma il passaggio in giudicato della
sentenza di primo grado quando non vi sia stato appello sul tema del risarcimento del danno,

ma per ragioni diverse da quelle relative alla sopravvenienza dell’art. 32, non ancora emanato.
Ragioni che, anche se del tutto inconsistenti, risultano idonee a mantenere fluida la decisione
su quella parte della sentenza. Ancora una volta, si introduce nel sistema una variabile poco
razionale, premiando non solo chi, casualmente, aveva proposto motivi di impugnazione della
parte della sentenza sul risarcimento dei danni, ma anche chi ha ecceduto nella proposizione
di motivi di impugnazione a scapito di chi ha formulato impugnazioni mirate ed essenziali,
omettendo di impugnare un capo della decisione che, prima della modifica legislativa
retroattiva, non vi era motivo di impugnare.
… Tornando alla lettura del disposto legislativo costituito dal settimo comma dell’art. 32 della
legge 183 del 2010, per il quale “le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione a
tutti i giudizi, compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge”, deve
ritenersi che “pendenti” siano anche i giudizi in cui stato proposto appello contro la parte
principale della decisione di primo grado, dalla quale dipende, in quanto legata da un nesso di
causalità imprescindibile, la parte relativa al risarcimento del danno. Il concetto di “pendenza”
indica che una controversia sia tutt’ora “sotto giudizio” e non può negarsi che sino al momento
in cui non diviene definitiva la decisione sulla parte principale rimanga sub iudice, e quindi sia
pendente, anche la parte da essa dipendente della sentenza impugnata.
Le due questioni sottoposte dalla sezione lavoro alle sezioni unite devono essere, pertanto,
definite in base ai seguenti principi di diritto:
“L ‘art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. deve essere interpretato nel senso che la violazione di
norme di diritto può concernere anche disposizioni emanate dopo la pubblicazione della
sentenza impugnata, qualora siano applicabili al rapporto dedotto in giudizio perché dotate di
efficacia retroattiva. In tal caso è ammissibile il ricorso per cassazione per violazione di legge
sopravvenuta”.

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esclude tuttavia il formarsi del giudicato qualora vi siano stati motivi appello contro quella parte

adunanza 27-09-17 / r.g. n. 17207-12

“Il ricorso per violazione di legge sopravvenuta incontra il limite del giudicato. Se la sentenza
si compone di più parti connesse tra loro in un rapporto per il quale l’accoglimento
dell’impugnazione nei confronti della parte principale determinerebbe necessariamente anche
la caducazione della parte dipendente, la proposizione dell’impugnazione nei confronti della
parte principale impedisce il passaggio in giudicato anche della parte dipendente, pur in assenza
di impugnazione specifica di quest’ultima”. …»);
ritenuto, pertanto, che l’impugnata sentenza vada in parte cassata, limitatamente alla mancata

art. 32, con conseguente rinvio al Corte di merito ai sensi e per gli effetti degli artt. 384 e 385
c.p.c., affinché si provveda alla determinazione dell’indennizzo, previ accertamenti del caso in
punto di fatto, nonché al regolamento delle spese, comprese quelle di questo giudizio di
legittimità;
P.Q.M.
La Corte accoglie il sesto e ultimo motivo di ricorso, rigetta gli altri primi cinque. Cassa
l’impugnata sentenza, in relazione al motivo accolto, e rinvia, anche per le spese, alla Corte
di Appello di Roma in diversa composizione.

applicazione, nella specie, della disciplina specifica in tema di risarcimento dettata dal succitato

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