Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4199 del 21/02/2011

Cassazione civile sez. III, 21/02/2011, (ud. 21/10/2010, dep. 21/02/2011), n.4199

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIFONE Francesco – Presidente –

Dott. UCCELLA Fulvio – Consigliere –

Dott. CHIARINI Maria Margherita – rel. Consigliere –

Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –

Dott. LEVI Giulio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 27117-2006 proposto da:

I.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA UFENTE 12, presso lo studio dell’avvocato BRESMES

FRANCESCO, rappresentato e difeso dall’avvocato COMMODO STEFANO

giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

R.G. (OMISSIS), EDIZIONI E PUBBLICAZIONI S.E.P.

S.P.A. (OMISSIS) in persona del Presidente e legale

rappresentante pro tempore Dott. P.C., RI.AN.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA PIERLUIGI

DA PALESTRINA 63, presso lo studio dell’avvocato CONTALDI MARIO, che

li rappresenta e difende unitamente agli avvocati GALLIANO GUIDO,

LICONTI FRANCESCO giusta delega in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1270/2005 della CORTE D’APPELLO di TORINO III

SEZIONE CIVILE, emessa il 13/5/2005, depositata il 19/08/2005, R.G.N.

2944/2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/10/2010 dal Consigliere Dott. CHIARINI Maria Margherita;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GOLIA Aurelio che ha concluso per il rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 19 agosto 2005 la Corte di appello di Torino in parziale accoglimento dell’appello della Società Edizioni e Pubblicazioni, di R.G. ed Ri.An., rigettava la domanda di I.A. per l’articolo del (OMISSIS) intitolato “I due giudici sotto torchio” in relazione al quale il Tribunale condannava la s.p.a. S.E.P. e R.G. a pagargli Euro 25.000,00 accogliendo sul punto l’appello ritenendo che l’espressione “sotto torchio” equivaleva a quella “sotto inchiesta”, pur essendo più efficace come trasmissione del messaggio e non implica sottoposizione ad interrogatori o contestazioni approfondite, tanto più che il dubbio era immediatamente fugato dal sopra titolo “Ieri a Milano primi interrogatori e prime verifiche sugli accusatori dei magistrati”, e dalla lettura dell’articolo che evidenziava in modo inequivoco come interrogati erano i testimoni e gli indagati che avevano coinvolto i magistrati e non questi ultimi, e quindi escludeva l’esistenza della diffamazione. Quanto poi alla gravità dell’offesa per gli articoli del (OMISSIS), riteneva che il parametro da assumere era la notizia falsa di accuse di corruzione e associazione a delinquere, mentre l’accusa era di abuso di ufficio.

Ricorre per cassazione I.A. cui resistono la Società Edizioni e Pubblicazioni, R.G. ed Ri.An..

Questi hanno altresì depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Con il primo motivo il ricorrente deduce: “Vizio di insufficienza e/o illogicità e/o contraddittorietà ex art. 360 c.p.c., n. 5 della motivazione del capo della sentenza impugnata relativo alla ritenuta natura non diffamatoria del titolo “I due giudici sotto torchio” dell’articolo apparso sul secolo XIX del (OMISSIS) per avere la Corte interpretato tale espressione prescindendo dal linguaggio della cronaca giornalistica giudiziaria e limitando l’esame a quello del linguaggio ordinario nel quale comunque esser “sotto torchio” significa esser sottoposto ad interrogatorio o a una fitta serie di domande, così come nel linguaggio giornalistico – giudiziario. e quindi la sentenza impugnata è illogica per aver attribuito all’espressione un significato fuori del senso comune, e contraddittoria, perchè dopo aver correttamente descritto il torchio come “macchina destinata ad esercitare una pressione graduabile e senza percussione su un corpo posto tra due piani, di cui quello inferiore è fisso e quello superiore è mobile in modo da abbassarsi gradualmente per mezzo di un dispositivo..”, ha poi escluso la diffamazione pur ammettendo che il I. non era stato sottoposto a nessuna pressione, nè morale nè materiale, e pur affermando nelle premesse che anche il solo titolo può avere contenuto diffamatorio l’ha poi escluso in considerazione del sopratitolo e del contenuto del brano ed invece nessuna lettura compendiaria corregge la diffamazione del titolo.

1.1- “Il giudizio sulla ritenuta liceità dell’espressione “sotto torchio” è altresì erroneo in diritto e viola e applica falsamente gli artt. 2043 e 2059 c.c. artt. 51, 57, 595 e 596 bis c.p..” non avendo i giudici di appello accertato l’illecito alla luce del significato delle parole usate che deve rispondere ai fatti realmente accaduti e quindi pertinenti e continenti, mentre in realtà egli era stato sottoposto soltanto ad indagini preliminari, e quindi i giudici di appello hanno commesso un errore di sussunzione.

Le censure sono infondate.

Ed infatti, l’interpretazione dell’espressione “sotto torchio” effettuata dai giudici di merito come sottoposizione dei giudici a dura prova per l’inchiesta aperta anche nei loro confronti, effettuata rapportandolo sia al sopratitolo sia al contenuto dell’articolo in cui era specificato che gli interrogatori erano rivolti ad altri soggetti, accusatori di I., è conforme al principio secondo il quale il carattere offensivo del titolo di un articolo di stampa va escluso non solo alla stregua della valutazione del titolo in sè, ma anche del rapporto di esso con il contenuto dell’intero articolo, e non avulso da esso se il titolo non è formulato in termini tali da recare un’affermazione compiuta, chiara, univoca ed integralmente percepibile dal lettore senza la lettura e l’analisi dell’articolo (Cass. 9746/2000, 1976/2009).

Nè aver in tal modo relegato il titolo ad un ruolo marginale e secondario è quindi illogico o contraddittorio, nè in sè, nè in relazione al richiamo i della funzione del torchio come macchina pressatrice.

1.3- “La complessiva valutazione rassegnata dalla Corte di appello in sentenza in punto alla gravità dell’offesa. Contraddittorietà ed insufficienza della motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5″.

1.4- Ulteriori profili di contraddittorietà della motivazione de qua rispetto ad altre parti e motivazioni della sentenza impugnata”.

I giudici di appello hanno quantificato il danno morale sulla base delle notizie false di I. accusato per corruzione e associazione a delinquere, ritenendo che tuttavia la diffamazione non fosse del tutto ingiusta perchè comunque egli era accusato di abuso di ufficio e quindi ha ridotto in proporzione il quantum pur avendo illogicamente e contraddittoriamente affermato che questa accusa è molto meno disdicevole delle altre due, inveritiere, e senza trarre le debite conseguenze dall’aver riconosciuto che il giornalista aveva ingenerato la convinzione nel lettore che gli atti erano stati trasmessi alla Procura di Milano dopo indagini da, quella di Genova, mentre era un atto dovuto e che il danno subito dal I. era gravissimo.

La censura è una critica ad un criterio di quantificazione del danno non patrimoniale, rimesso all’apprezzamento discrezionale ed equitativo giudice di merito, la cui valutazione non è nè illogica nè contraddittoria.

1.5- “Violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e/o 2059, 2056, 1223 e 1226 c.c. e/o egli artt. 51, 57, 595 e 596 bis c.p.”.

Gli articoli di stampa non rispettavano i requisiti della continenza, pertinenza e verità oggettiva, ma erano prognosi suggestive del giornalista attribuite invece al P.M. Inoltre per la diffusione della notizia di abuso di ufficio gli appellati erano stati già scriminati dal Tribunale, sì che non poteva poi la falsa notizia degli altri inesistenti e gravissimi reati di corruzione ed associazione a delinquere esser valutata detratta la verità della accusa di abuso di ufficio.

La censura è inammissibile perchè si risolve nella richiesta di una nuova valutazione dei danni, indagine di merito preclusa in questa sede e congruamente motivata dalla Corte di merito.

2.- Lamenta ancora il ricorrente: “Vizio di insufficienza e contraddittorietà della motivazione della sentenza in punto alla valutazione del comportamento post factum dell’offensore” per aver la Corte ritenuto idonea misura riparativa aver dato il giornalista ampio spazio alla rettifica del I., nella stessa data del primo articolo, senza neppure tener conto dei successivi.

La censura è infondata perchè la Corte di merito ha affermato che fin dal 20 giugno 1997 – pagg. 32 e 35 della sentenza impugnata – era stato dato ampio spazio alle considerazioni difensive del I. contestualmente alla pubblicazione degli articoli sull’inchiesta e non già soltanto nella stessa data del primo articolo di stampa.

3.- Aggiunge poi: “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 120 c.p.c. in relazione agli artt. 2043, 2056, 2059, 1223 e 1226 c.c.” per avere i giudici di appello abbattuto del 50% il quantum risarcitorio riconoscibile al I. avuto riguardo alla sua personalità per avere il Tribunale disposto la pubblicazione della sentenza a cura e spese dei convenuti a norma dell’art. 186 c.p. ma tale sanzione non ha funzione parzialmente riparatrice del danno potendo esser disposta anche in assenza di esso e nell’interesse generale alla divulgazione corretta delle notizie di stampa ed inoltre I. non se ne era avvalso.

Il motivo è infondato.

Ed infatti la Corte di merito – pag. 35 penultima riga della sentenza – ha affermato che il giudice di primo grado ha disposto la pubblicazione su alcuni quotidiani della sentenza di condanna degli autori della diffamazione come “riparazione del danno” e cioè del pregiudizio specifico già verificatosi (il discredito, derivato dalla pubblicazione delle notizie, Cass. 2491/1993, S.U. 12103/1995), ed “in proposito” ha richiamato un precedente di merito secondo il quale tale pubblicazione costituisce una reintegra del danno morale in forma specifica più efficace di quella patrimoniale stante la natura etica del diritto violato scarsamente permeabile a valutazioni di carattere economico. Quindi, poichè il I. non ha impugnato detta statuizione di primo grado in relazione ai relativi accertamenti di fatto, nessuna censura è ormai più ammissibile.

Concludendo il ricorso va respinto.

Il ricorrente va condannato a pagare le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente a pagare le spese del giudizio di cassazione pari ad Euro 3.200 di cui Euro 200 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 21 ottobre 2010.

Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2011

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