Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4196 del 21/02/2014


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Civile Sent. Sez. 2 Num. 4196 Anno 2014
Presidente: BURSESE GAETANO ANTONIO
Relatore: FALASCHI MILENA

Avvocato — c.d.
palmario — Prova Giuramento

SENTENZA

sul ricorso (iscritto al N.R.G. 32209/07) proposto da:
Avv.to MANCUSO DOMENICO, rappresentato e difeso da sé ex art. 86 c.p.c. e domiciliato
presso la cancelleria della Corte di Cassazione in Roma, piazza Cavour n. 1;
– ricorrente –

contro
TORTORA ADA, rappresentata e difesa dall’Avv.to Giorgio Polverino del foro di Salerno, in virtù
di procura speciale apposta in calce al controricorso, e domiciliata presso la cancelleria della
Corte di Cassazione in Roma, piazza Cavour n. 1;
– controricorrente –

e contro

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Data pubblicazione: 21/02/2014

GIUGLIANO PASQUALE, rappresentato e difeso dall’Avv.to Giorgio Polverino del foro di Salerno,
in virtù di procura speciale apposta in calce al controricorso, ed elettivamente domiciliato presso
lo studio dell’Avv.to Andrea Maria Paolucci in Roma, via A. Serpieri n. 7;
– controricorrente –

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 7 novembre 2013 dal
Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Alberto
Celeste, che — in assenza delle parti costituite – ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione inviato per la notificazione ex art. 149 c.p.c. il 7 luglio 1998 l’Avv.to
Domenico MANCUSO evocava, dinanzi al Tribunale di Salerno, Ada TORTORA nella qualità di
unica erede del notaio Giuseppe Tortora, esponendo che nell’anno 1983 quest’ultimo gli aveva
conferito incarico, anche per conto della figlia, per intraprendere causa contro il Comune di Sarno
per l’esproprio di un fondo di sua proprietà, aggiungendo di avere pattuito verbalmente con il
notaio Tortora, quanto all’entità del compenso, che gli sarebbero stati riconosciuti onorari secondo
i massimi tariffari vigenti alla data della definizione della causa ovvero dell’effettivo pagamento,
oltre alla corresponsione di un congruo “palmario” in considerazione dei risultati ottenuti;
precisava che le ragioni del notaio erano state ampiamente riconosciute dai giudici di merito,
condannato il Comune di Sarno al pagamento di elevato risarcimento del danno, intimato precetto
per £. 665.000.000, ma che a seguito del decesso dell’originario cliente, i rapporti proseguivano
con la sua erede e con il coniuge della stessa, Avv.to Pasquale GIUGLIANO, i quali pur
confermando l’impegno, versavano solo ulteriori acconti sul dovuto ed anzi il GIUGLIANO nel
versare altro acconto, lo convinceva a rilasciare alla moglie, per motivi fiscali, la fattura n. 41/1995

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avverso la sentenza della Corte d’appello di Salerno n. 766 depositata il 25 ottobre 2006.

’a saldo’ e non ‘in acconto’. Tanto premesso, chiedeva la condanna della convenuta al
pagamento delle sue spettanze professionali, determinate in £. 123.116.908, oltre accessori, da
cui andavano detratti gli acconti versati, oltre a dichiararsi priva di efficacia ai fini del giudizio la
fattura n. 41/1995 rilasciata con la causale ‘a saldo’ anziché ‘in conto’.

condannare al pagamento della somma sopra illustrata, in solido con la predetta convenuta, per il
comportamento tenuto nei confronti dell’attore, accessori dovuti quanto meno dall’11.9.1995,
nonché alla restituzione della copia della scrittura privata redatta in pari data, consegnata al
medesimo convenuto per sottoporla all’esame dell’Avv.to Vitobello.
Instaurato il contraddittorio, nella resistenza dei convenuti, i quali — con separate comparse —
eccepivano preliminarmente l’incompetenza per territorio (competente il Tribunale di Napoli), nel
merito, deducevano di non conoscere il tenore dell’accordo intercorso con il dante causa della
TORTORA, versati comunque dalla stessa £. 40.000.000, oltre ad assegno di £. 6.068.000
somma di cui alla fattura n. 41/1995, emessa effettivamente a saldo transattivo, spiegata
riconvenzionale dalla TORTORA per ottenere declaratoria di invalidità di eventuale accordo di
palmario che fosse risultato provato, nonché la condanna alla restituzione di quanto versato per £.
70.806.000, con determinazione giudiziale del compenso, il Tribunale adito, espletata istruttoria,
rigettava la domanda attorea.
In virtù di rituale appello interposto dall’Avv.to MANCUSO, con il quale lamentava che la
decisione del giudice di prime cure avesse attribuito alla fattura n. 41/1995 valenza probatoria di
saldo del compenso, non riconosciuto il compenso per il pattuito palmario, la Corte di Appello di
Salerno, nella resistenza degli appellati, rigettava l’appello.
A sostegno dell’adottata sentenza la corte territoriale evidenziava che il thema decidendum
concerneva il c.d. palmario e la valenza probatoria della fattura n. 41 del 1995 emessa per £.
6.068.000 laddove si leggeva, con scrittura autografa, ‘a saldo transattivo di tutte le attività

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Nel medesimo giudizio veniva convenuto anche l’Avv.to Pasquale GIUGLIANO per sentirlo

professionali espletate fino ad oggi nella vertenza promossa da Tortora Ada e Tortora Giuseppe
c/ il Comune di Sarno’. Proseguiva la Corte di merito che le difese dell’appellante erano nel senso
che si sarebbe trattato di dichiarazione affetta da simulazione assoluta, pattuito con il notaio
Tortora anche un ‘palmario’ e per comprovare le sue difese aveva articolato mezzi istruttori, in

gravame rilevava che per la pattuizione di un supplemento di compenso, in aggiunta a quello
previsto dalle tariffe, in caso di esito favorevole della lite, occorreva la forma scritta, con la
conseguenza che doveva essere ritenuta inammissibile l’attività istruttoria articolata dal
MANCUSO, compreso il giuramento decisorio, generica al riguardo la missiva del 9.11.1992 che
non faceva il minimo accenno all’onorario di risultato.
Aggiungeva che andava condivisa la tesi degli appellati secondo cui l’ulteriore somma versata di
£. 40.000.000 faceva seguito alla proposta di accordo elaborata dal MANCUSO e dell’Avv.to
Vitobello nell’agosto del 1995, in forza del quale il primo avrebbe richiesto a saldo altre £.
45.000.000. Né era ammissibile la prova testimoniale della simulazione assoluta della quietanza,
ragione per la quale il MANCUSO aveva deferito giuramento decisorio alla TORTORA, ma i
relativi capitoli non scalfivano minimamente la dichiarazione, non disconosciuta, contenuta nella
fattura n. 41/95, non integrando gli estremi del giuramento de ventate e/o de scientia. Del pari era
inammissibile la prova testimoniale della simulazione della quietanza, ostandovi il disposto degli
artt. 2722 e 2726 c.c., superfluo l’interrogatorio formale dei convenuti che non avevano sollevato
sostanziali contestazioni dei fatti.
Avverso l’indicata sentenza della Corte di Appello di Salerno ha proposto ricorso per cassazione il
MANCUSO, articolato formalmente su un unico complessivo motivo, illustrato anche da memoria
ex art. 378 c.p.c., al quale hanno resistito la TORTORA ed il GIUGLIANO con separati
controricorsi

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appello, anche giuramento decisorio deferito alla convenuta Tortora. Al riguardo il giudice del

MOTIVI DELLA DECISIONE
L’esame delle singole censure, nelle quali si articola l’unico motivo di ricorso, deve essere
preceduto da quello della pregiudiziale eccezione di inammissibilità del ricorso formulata dalle
parti resistenti, sotto il profilo del difetto di specificità e chiarezza dei motivi di ricorso, in

360 c.p.c., nn. 3 e 4 o anche in relazione al n. 5, stesso art. 360 c.p.c., vuoi, anche, della
“frammentazione” del quesito di diritto, che ex art. 366 bis c.p.c., prima parte (applicabile ratione
temporis alla sentenza all’esame) deve corredare il singolo motivo, in una pluralità di quesiti,
anche laddove (come nel caso della prima doglianza proposta in relazione al n. 4, art. 360 c.p.c.)
è stata formulata un’unica censura di violazione di legge.
L’eccezione è infondata alla luce del principio, convalidato dalle SS.UU. di questa Corte (sentenza
31 marzo 2009 n. 7770), secondo cui nessuna prescrizione è rinvenibile nelle norme processuali,
che ostacolino la duplice denunzia con unico mezzo, di vizi di violazione di legge e di motivazione
in fatto (cfr. anche Cass. 18 gennaio 2008 n. 976), fermo restando che in tale caso il motivo si
deve concludere – come, del resto, è avvenuto nella specie – con una pluralità di quesiti, ciascuno
dei quali contenga un rinvio all’altro, al fine di individuare su quale fatto controverso vi sia stata,
oltre che un difetto di motivazione, anche un errore di qualificazione giuridica del fatto.
In particolare – anche qualora il ricorso sia formulato con riferimento solo al n. 3 o al n. 4, art. 360
c.p.c. – la formulazione di distinti e plurimi quesiti di diritto non può ritenersi contrastante, di per
sè, con la disposizione dell’art. 366 bis c.p.c. per il solo fatto che questa esige che il motivo si
concluda, a pena di inammissibilità, con “un quesito”; e ciò non solo, perché il motivo di ricorso
può essere articolato con riferimento a diverse e concorrenti violazioni di legge, con la
conseguenza che il quesito deve rispecchiare ciascuna di tali articolazioni, potendo ben assumere
una forma, anche dal punto di vista grafico, separata (Cass. 9 giugno 2010 n. 13868) – essendo,
anzi, necessario che il motivo formalmente unico, ma in effetti articolato in profili autonomi e

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considerazione vuoi della proposizione con unico motivo di plurime censure, in relazione all’art.

differenziati di violazioni di legge diverse, si concluda con la formulazione di tanti quesiti per
quanto sono i profili fra loro autonomi e differenziati in realtà avanzati (Sez. Unite 9 marzo 2009 n.
5624) – ma anche perché la funzione del quesito, di sintesi logico-giuridica della questione
sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, non può dirsi elusa, quando esso sia formulato per

unitaria, sotto il profilo logico e giuridico, risultino complessivamente idonee, pur sovrapponendosi
parzialmente, a far comprendere senza equivoci la violazione denunciata ed a richiedere alla
Corte di affermare un principio di diritto contrario a quello posto a base della decisione impugnata
(Cass. 6 novembre 2008 n. 26737).
L’eccezione di inammissibilità nei termini sopra precisati va, dunque, rigettata, salvo quanto si
andrà a precisare di seguito con riferimento ai singoli quesiti.
Con un primo profilo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 112 in relazione all’art. 360 n.
4 c.p.c., con conseguente nullità della sentenza sul punto, anche in virtù del combinato disposto
di cui agli artt. 132 n. 4 e 161 c.p.c., per non avere l’originario attore chiesto alcun palmario,
diversamente rispetto a quanto addotto in sentenza, ma agito per ottenere la condanna della
convenuta al pagamento degli onorari massimi tenuto conto del valore della causa e della
professionalità profusa, così come pattuito dal dante causa della TORTORA nel 1983. Prosegue il
ricorrente affermando che il thema decidendum del giudizio di secondo grado è delimitato dai
motivi di impugnazione e poiché non era stato gravato da appello l’esistenza di un accordo
intervenuto fra il notaio Tortora e l’Avv.to MANCUSO per il pagamento delle spettanze di
quest’ultimo, avendo invece il giudice del gravame pronunciato sul medesimo punto ha violato il
disposto degli artt. 112 e 324 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 4, ma anche ai nn. 3 e 5. A
conclusione dell’illustrato motivo vengono posti i seguenti quesiti di diritto: “Dica l’Ecc.ma Corte di
Cessazione se è affetta da nullità per vizio di ultra petizione o extra petizione la sentenza che
pronuncia sull’esistenza ed ammissibilità di un c. d. palmario quanto invece l’azione aveva ad

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più punti e questi consistano in più proposizioni, intimamente connesse, che, per la loro funzione

oggetto la richiesta di riconoscimento degli onorari massimi in relazione al valore della causa
trattata”.
“Dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione se viola il disposto dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360
n. 4 c.p.c. ed il disposto dell’art. 324 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 4, oltre che nn. 3 e 5 c.p.c. la

specificamente censurate con l’atto di appello e che sono pertanto state coperte dal giudicato”.
Il motivo è da ritenere inammissibile.
La corte di appello ha escluso la fondatezza della pretesa creditoria dell’Avv.to MANCUSO
rilevando che dalla documentazione prodotta da Ada TORTORA, in particolare dalla copia della
fattura n. 41 dell’11.9.1995, recante in calce la firma autografa del professionista, con
annotazione, altrettanto autografa, del seguente tenore “a saldo transattivo di tutte le attività
professionali espletate ad oggi nella vertenza promossa da Tortora Ada e Tortora Giuseppe c/ il
Comune di Sarno”, emergeva il saldo di quanto dovuto dal momento che la TORTORA
nell’occasione aveva incontestabilmente versato al MANCUSO l’ulteriore somma di £.
40.000.000, dando seguito alla proposta di accordo elaborata dal Mancuso e dal Vitobello
nell’agosto del 1995, ampiamente satìsfattiva dell’attività espletata. Ha soggiunto il giudice a quo
che era illegittima la richiesta di £. 123.116.908 ed inammissibile l’attività istruttoria sollecitata dal
ricorrente, sia quella testimoniale, che sarebbe consistita nella prova della simulazione assoluta
della quietanza, sia per quanto concerneva il deferito giuramento, i cui capitoli non scalfivano
minimamente la scrittura privata non disconosciuta, così qualificata sotto il profilo probatorio la
fattura n. 41 del 1995.
La motivazione attraverso la quale la corte del merito è pervenuta a una conclusione negativa
circa la sussistenza dell’obbligazione di cui si assume l’inadempimento è congrua e priva di errori
logici e/o giuridici, specie laddove ha qualificato la fattura n. 41 del 1995 quale scrittura privata
non disconosciuta, giacchè forniva elementi probatori dell’avvenuto adempimento

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sentenza che estende il proprio esame a parti della decisione di primo grado che non sono state

dell’obbligazione pretesa, con riconducibilità delle somme esborsate dalla debitrice — di cui alla
testimonianza del notaio Scognamiglio – al rapporto in questione.
Tale affermazione del giudice a quo non risulta criticata da alcun argomento esposto nel motivo,
che incentra la doglianza sostanzialmente sull’esistenza ed ammissibilità di un c.d. palmario,

la censura inammissibile.
Con il secondo profilo di censura dell’unico motivo di ricorso, il MANCUSO denuncia
l’omesso esame di ben cinque specifici motivi di appello, sia sotto il profilo del vizio di motivazione
sia (e soprattutto) in relazione alla violazione dell’ad. 112 c.p.c. con riferimento all’art. 360 n. 4
c.p.c., essendosi la corte distrettuale limitata a condividere le motivazioni del giudice unico, senza
alcun riferimento e/o confutazione ai motivi di gravame, argomentando in poche righe il rigetto del
giuramento decisorio ed ha ritenuto inammissibile la prova testimoniale della simulazione,
adducendo che vi ostava il disposto degli artt. 2722 e 2726 c.c. e la pronuncia della Cassazione a
Sezioni Unite (n. 6877 del 2002). Ad avviso del ricorrente la pronuncia non soddisfa
assolutamente l’obbligo di motivazione imposto dall’art. 132 n. 4 c.p.c., dall’art. 118 disp.att.c.p.c.
e prima ancora dall’art. 111 Cost.. A conclusione del mezzo viene formulato il seguente quesito di
diritto: “Dica l’Ecc.ma Code di Cassazione se la sentenza del giudice di gravame che abbia
rigettato i motivi di appello limitandosi a ‘condividere’ semplicemente le motivazioni del giudice di
primo grado ed evitando così di confutare esplicitamente le tesi dell’appellante non accolte, violi
non solo l’obbligo della motivazione imposto dall’art. 132 n. 4 c.p.c., art. 118 disp.att.c.p.c., e,
prima ancora, dall’art. 111 della Costituzione; ma soprattutto il disposto dell’art. 112 c.p.c. in
relazione all’art. 360 n. 4 e n. 5 c.p.c.”.
Il quesito relativo alla seconda parte dell’unico motivo concernente violazioni di norme di diritto,
pecca di genericità e si risolve in enunciazioni di carattere generale ed astratto, non contenendo
alcun riferimento al caso concreto. In tal modo, la Corte di legittimità si trova nell’impossibilità di

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circostanza peraltro ritenuta irrilevante dalla Corte distrettuale, e tanto basta a ritenere

enunciare uno o più principi di diritto che diano soluzione allo stesso caso concreto (Cass. ord. 24
luglio 2008 n. 20409; Cass. SS.UU. ord. 5 febbraio 2008 n. 2658; Cass. SS.UU. 5 gennaio 2007
n. 36, e successive conformi). Nè il quesito, correttamente posto, può essere desunto dal
contenuto e dall’illustrazione del motivo che lo precede, e neppure può essere integrato il primo

Diversamente, si avrebbe la sostanziale abrogazione della norma dell’art. 366 bis c.p.c.,
applicabile ratione temporis nella specie (Sez. Un. 11.3.2008, n. 6420 e successive conformi). La
relativa censura è, quindi, inammissibile.
Del pari è inammissibile il motivo laddove fa valere vizi motivazionali.
Nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) l’illustrazione del mezzo deve contenere, a
pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la
motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta
insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione. Sotto questo profilo, è
stato più volte affermato che nella norma dell’art. 366 bis c.p.c., nonostante la mancanza di
riferimento alla conclusività (presente, invece, per il quesito di diritto), il requisito concernente il
motivo di cui al precedente art. 360 c.p.c., n. 5, deve consistere in una parte del motivo che si
presenti a ciò specificamente e riassuntivamente destinata (momento di sintesi); sicché, non è
possibile ritenerlo rispettato quando soltanto la completa lettura della complessiva illustrazione del
motivo riveli, all’esito di un’attività di interpretazione svolta dal lettore e non di una indicazione da
parte del ricorrente, deputata all’osservanza del requisito del citato art. 366 bis, che il motivo
stesso concerne un determinato fatto controverso, riguardo al quale si assuma omessa,
contraddittoria od insufficiente la motivazione e si indichino quali sono le ragioni per cui la
motivazione è, conseguentemente, inidonea a sorreggere la decisione (Cass. 18 luglio 2007 n.
16002; Cass. 22 febbraio 2008 n. 4646; Cass. 25 febbraio 2008 n. 4719).

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con il secondo.

Orbene la doglianza indica il fatto controverso rispetto al quale si assume il vizio di motivazione,
ma non specifica quali siano le ragioni per cui la motivazione sarebbe inidonea a sorreggere la
decisione.
Anche detta censura, pertanto, non può trovare ingresso.

violazione di norme, nonchè omessa motivazione che integra un difetto di attività del giudice di
secondo grado, con conseguente error in procedendo per violazione dell’art. 112 c.p.c. in
relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c., quanto alla linea subordinata assunta dall’appellante con
riferimento alla quietanza a saldo di cui alla fattura n. 41 del 1995, laddove aveva chiesto
dichiararsi la nullità della fattura sul punto e la condanna della convenuta al pagamento delle
spese, diritti ed onorati minimi inderogabili, per essere le fatture emesse relative a soli acconti
ricevuti per la fase innanzi al tribunale, ma non anche per la successiva fase del giudizio di
appello e a quella esecutiva ed amministrativa. In altri termini, i giudici del merito avrebbero fatto
mal governo del principio affermato dalle SS.UU. (sentenza n. 6877 del 2002), applicandolo solo
in danno del ricorrente, negando la prova testimoniale e per interrogatorio formale tesa a
dimostrare la simulazione della fattura, e nello stesso tempo valutato (con esito favorevole) le
prove articolate ed assunte a sostegno della tesi difensiva della TORTORA, secondo la quale,
dedotta sempre la simulazione della fattura n. 41/95, la convenuta avrebbe nell’occasione
corrisposto non già £. 5.000.000, oltre ad oneri fiscali, ma quella superiore di £. 45.000.000.
Prosegue il motivo illustrando le voci del compenso che spetterebbero al professionista per avere
curato la causa avanti alla corte di appello e nelle fasi successive. Aggiunge il ricorrente che la
corte distrettuale aveva omesso qualsiasi esame e confutazione degli articolati motivi di gravame
in relazione all’art. 1417 c.c. e riporta all’uopo il tenore dei motivi di gravame con i quali si insiste
sostanzialmente sull’ammissibilità delle prove articolate per illiceità del contratto dissimulato in

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La terza censura, in cui è articolato l’unico motivo, ascrive alla sentenza impugnata

violazione delle leggi fiscali, nonchè per essere circostanza — la simulazione — riconosciuta da
entrambe le parti.
A corollario del mezzo vengono formulati plurimi quesiti di diritto: “Dica l’Ecama Suprema Corte
se, nell’ipotesi in cui il giudice di merito intenda applicare il disposto degli artt. 2722 e 2726 c.c. ed

base al quale è inammissibile la prova testimoniale volta a provare la simulazione di una
quietanza di pagamento, lo deve fare nei confronti di tutte le parti in causa e non solo nei confronti
di alcuna di esse, violando altrimenti i principi fondamentali del contraddittorio e della parità della
difesa, evincibili anche dagli artt. 101 e 115 c.p.c. e da altre disposizioni di legge in relazione
all’art. 360 n. 3 c.p.c.”
“Dica l’Ecc.ma Suprema Corte se l’ammissione e la conseguente assunzione di un mezzo di
prova inammissibile rileva sul piano della formazione del convincimento del giudice e determina
l’impossibilità per il giudice del gravame di tenerne conto ai fini del giudizio”.
“Dica l’Ecc.ma Suprema Corte se la mancata pronuncia da parte del giudice del gravame su una
censura mossa al giudice di primo grado e, comunque, su una domanda subordinata configuri il
vizio di omessa pronuncia ed il conseguente error in procedendo per violazione dell’art. 112 c.p.c.
in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.”.
“Dica l’Ecc.ma Suprema Corte se la Corte di appello di Salerno, per avere omesso ogni esame e
pronuncia sulla subordinata domanda dell’appellante nei termini su trascritti, abbia violato le dette
disposizioni, nonché, conseguentemente, il disposto dell’art. 24 della legge 13 giugno 1942 n.
794, attesa la su dimostrata fondatezza della stessa”.
“Dica l’Ecc.ma Suprema Corte se la Corte di Appello — in virtù del disposto dell’art. 1417 c.c. —
doveva ritenere che il principio di cui alla sentenza n. 6877/02 delle SS.UU. della Cassazione era
applicabile soltanto in tema di negozio dissimulato lecito e non anche in questa fattispecie, atteso
che sia l’attore che i convenuti, pur secondo opposti punti di vista, avevano chiesto prova testi

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il pertinente principio di diritto sancito con la sentenza della Cassazione a SS.UU. n. 6877/02, in

finalizzata a dimostrare l’illiceità di un accordo dissimulato, insito nella fattura n. 41/95 in
violazione delle leggi fiscali, come riconosciuto anche dal Tribunale”.
“Dica l’Ecc.ma Suprema Corte se la Corte di appello nel non avere ammesso la prova
testimoniale così come richiesta dalla parte attrice ed articolata alle lettere m-n-o-p-q-s-t-u-v-z,

in relazione al n. 3 che al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., nonché il disposto del secondo comma dell’art.
2697 c.c., per effetto di quanto pure innanzi censurato ed evidenziato a tale proposito (capo 1 lett.
c) e d); 2) il disposto dell’art. 115 c. p.c. in relazione ai nn. 3 e 5 e per quanto di ragione, n. 4,
dell’art. 360 c.p.c., nonché le elementari regole del contraddittorio e del diritto di difesa, che deve
essere paritario per tutte le parti in causa”.
“Dica l’Ecc.ma Suprema Corte se per la regola generale dell’art. 115 c.p.c. il Giudice deve porre a
fondamento della sua decisione le prove proposte dalle parti, essendo il detto articolo diretto ad
assicurare il rispetto dei principi fondamentali della difesa e del contraddittorio, per cui non gli è
consentito di non prendere in considerazione le richieste istruttorie e deduzioni concernenti
circostanze, che ove accertate, avessero potuto indurlo ad una diversa decisione, risolvendosi, in
tal caso, il suo comportamento, nel vizio di omesso esame di un punto decisivo della
controversia”.
La doglianza — valutata nella sua complessità — è inammissibile. Con congrua motivazione,
esente da vizi logici e da mende giuridiche, la Corte di appello ha rilevato: che la quietanza ‘a
saldo transattivo’ costituiva prova della corresponsione del compenso per tutte le attività espletate
nella vertenza contro il Comune di Sarno; che la tesi della simulazione assoluta della stessa non
trovava alcun riscontro nella scrittura redatta in data 11.9.1995 e predisposta dal MANCUSO, per
non essere mai stata accettata dalla TORTORA; che in detta ottica andava esaminato l’accordo
(questo sì valido) raggiunto tra il notaio Tortora e l’avv.to Mancuso nel 1983, nonché l’intenzione
dei convenuti di darvi esecuzione mediante il versamento di altri acconti documentati dalle fatture

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integralmente trascritta al capo n. 39 del FATTO, abbia violato: 1) il disposto dell’art. 1417 c. c., sia

in atti, fino ad ottenere il rilascio della fattura `a saldo transattivo’; concludeva per l’inammissibilità
della prova testimoniale circa la simulazione assoluta della quietanza e l’irrilevanza del deferito
giuramento non integrando i relativi capitoli gli estremi del giuramento de ventate e/o de scientia.
Tanto precisato, rileva il Collegio che nell’ambito della vicenda sopra descritta la circostanza che

aveva versato oltre alla somma indicata nella fattura, l’ulteriore cifra di £. 40.000.000, come
affermato dalla Corte distrettuale, costituisce solo un elemento ulteriore di convincimento per
dimostrare la natura liberatoria della fattura.
D’altro canto il creditore che abbia rilasciato la quietanza scientemente falsa per attuare
l’unilaterale intento di liberare il debitore non potrebbe accedere alla prova di non veridicità oltre i
limiti fissati dall’art. 2732 c.c., e nei casi in cui la non veridicità della quietanza non corrisponde ad
una determinazione unilaterale del creditore quietanzante, ma riflette una programmazione
contrattuale, la domanda di invalidazione soggiacerebbe al regime probatorio dell’azione di
simulazione, per cui si applicherà per analogia il disposto dell’art. 1417 c.c. (in virtù del rinvio
dell’art. 1414, ultimo comma, c.c.), cosicché la prova per testimoni è ammissibile senza limiti, se
la domanda è proposta da creditori o da terzi, ovvero qualora sia proposta dalle parti, ma con lo
scopo di far valere l’illiceità del contratto avente ad oggetto il rilascio della dichiarazione non
rispondente al vero.
Osserva il Collegio che tipicamente intesa, la quietanza è il documento cui si riferisce l’art. 1199
c.c.: sotto la rubrica “diritto del debitore alla quietanza”, esso obbliga “il creditore che riceve il
pagamento” a “rilasciare quietanza”, su richiesta e a spese del debitore. In disparte la quietanza
“con imputazione”, tipizzata dall’art. 1195 c.c., per cui si distinguono figure di quietanza
variamente atipiche, non soltanto per addizione contenutistica, ma anche per alterazione
funzionale: quietanza “liberatoria” o “a saldo”, ove, alla dichiarazione di ricevuto pagamento, il
creditore aggiunge una dichiarazione di liberazione del debitore, una dichiarazione di avvenuto

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la prova del ‘saldo transattivo’ risultasse anche dal fatto che alla data dell’11.9.1995 la TORTORA

saldo, “a stralcio”, “nulla più a pretendere”, e simili; quietanza “anticipata”, ove la dichiarazione di
ricevuto pagamento è sottoposta all’implicita condizione che il pagamento stesso avvenga in un
determinato futuro, nella presupposizione dell’evento, comune alle parti del rapporto obbligatorio;
quietanza “di favore” o “di comodo”, ove la dichiarazione di ricevuto pagamento, scientemente

consentire al debitore di vantare solvibilità presso terzi od esercitare il regresso verso un
coobbligato).
La pluralità di significati che può assumere il termine “quietanza” e la riferibilità del concetto a
fattispecie di diversa natura giuridica costituiscono oggetto di diatriba quanto al regime di
impugnazione e di prova. La Corte di legittimità ha aperto un ventaglio di soluzioni per una
casistica eterogenea, che annovera, oltre alla quietanza tipica, fattispecie nelle quali la purezza
della dichiarazione di scienza viene sacrificata in nome di finalità ulteriori.
Per la quietanza tipica, tuttavia, la definizione confessoria è indiscussa, per cui il creditore che,
rilasciando quietanza al debitore, ammette il fatto del ricevuto pagamento rende confessione
stragiudiziale alla parte, con piena efficacia probatoria, ai sensi degli artt. 2733 e 2735 c.c., e non
può impugnare l’atto se non provando, a norma dell’art. 2732 c.c., che esso è stato determinato
da errore di fatto o da violenza; non gli è sufficiente, quindi, provare l’elemento oggettivo della
non veridicità della dichiarazione di ricevuto pagamento, ma occorre che egli provi, altresì,
l’elemento soggettivo dello stato di errore o di coartazione che lo determinò al rilascio (Cass. 7
dicembre 2005 n. 26970).
Nella quietanza “a saldo”, la dichiarazione liberatoria, se intesa come ricognizione negativa di
debito, implica relevatio ab onere probandi, ai sensi dell’art. 1988 c.c., ovvero, se intesa come
rinuncia o transazione, attiva la corrispondente disciplina negoziale.
Circa la simulazione della quietanza, resta da chiarire che nel rapporto interno tra creditore
quietanzante e debitore favorito, l’ammissione della prova documentale e l’esclusione della prova

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non veridica, è frutto di un accordo volto a creare un’apparenza di so/utio (ad esempio, per

testimoniale — l’applicazione, quindi, degli artt. 1417, 2722 e 2726 c.c., anziché dell’art. 2732 c.c.,
di cui alla pronuncia delle Sezioni Unite (sent. 13 maggio 2002, n. 6877) — risponde alla logica
del c.d. conflitto di prove, non essendovi motivo di estendere alla collisione tra scrittura e scrittura
la regola che previene la collisione tra scrittura e testimonianza.

(Cass. 5 novembre 1999 n. 12327; Cass. 20 agosto 1987 n. 6970; Cass. 27 ottobre 1984 n. 5515;
Cass. 24 ottobre 1981 m. 5571), non è causa di nullità, ma trova sanzione nelle norme fiscali.
Quanto sopra esposto circa la natura satisfattiva della fattura rende superfluo l’esame della
questione dedotta con riferimento alla violazione dell’art. 24 della legge n. 794 del 1942.
Per completezza, vale la pena di sottolinearlo, con le critiche in esame il ricorrente mira
sostanzialmente ad ottenere da questa Corte un diverso accertamento di fatto circa l’evoluzione
del rapporto professionale fra le parti, accertamento questo, che attenendo al merito, non è
consentito in sede di legittimità.
La quarta censura — con la quale il ricorrente denuncia la violazione dell’ad. 1967 c.c. anche
per vizio di motivazione, per non essere stata la ritenuta transazione provata per iscritto — culmina
nel seguente quesito di diritto: “Dica l’Ecc.ma Suprema Corte se, a norma del disposto dell’art.
1967 c.c., la transazione può essere provata per iscritto e se la Corte di appello di Salerno, nella
richiamata violazione fattispecie abbia violato il disposto dell’art. 1967 c.c. in relazione all’art. 360
n. 3 c.p.c.”.
Il motivo rimane assorbito dal rigetto dei precedenti, stante l’acclarata infondatezza
delle censure mosse avverso la ritenuta natura transattiva del documento redatto 111-9-1995.
Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente
al pagamento delle spese sostenute dai resistenti nel presente grado di giudizio, liquidate come
da dispositivo.

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Infine, quanto alla dedotta frode fiscale, si osserva che, secondo costante giurisprudenza

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di
Cassazione, che liquida in €. 4.500,00, oltre ad €. 200,00 per esborsi, per ciascuno dei

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2^ Sezione Civile, il 7 novembre 2013.

controricorrenti.

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