Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4194 del 19/02/2020

Cassazione civile sez. lav., 19/02/2020, (ud. 13/11/2019, dep. 19/02/2020), n.4194

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23530/2014 proposto da:

COMUNE DI TERLIZZI, in persona del Sindaco pro tempore, domiciliato

in ROMA PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA della CORTE di

CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato ETTORE SBARRA;

– ricorrente –

contro

D.N., elettivamente domiciliato in ROMA, LARGO ORAZI E

CURIAZI n. 3, presso lo studio dell’avvocato VITTORIO OLIVIERI,

rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO STOLFA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 885/2014 della CORTE D’APPELLO di BARI,

pubblicata il 3/6/2014 R.G.N. 6101/2009.

Fatto

RILEVATO

che:

1. la Corte d’Appello di Bari ha riformato solo parzialmente la sentenza del Tribunale di Trani che, in accoglimento del ricorso proposto da D.N. nei confronti del Comune di Terlizzi, aveva ritenuto illegittimo il recesso dal rapporto a tempo determinato intercorso fra le parti con decorrenza dal 1 settembre 2000 ed aveva condannato l’ente municipale al risarcimento del danno, quantificato in Euro 122.824,333;

2. la Corte territoriale ha premesso che il D., dopo un periodo di collaborazione coordinata e continuativa, era stato assunto, con qualifica di dirigente degli affari finanziari e del personale, con un primo contratto della durata di sei mesi, pari a quella del periodo di prova previsto dal CCNL di area, e nel contratto le parti avevano stabilito che al termine il rapporto sarebbe proseguito, in caso di valutazione positiva, senza soluzione di continuità;

3. successivamente era stato stipulato altro contratto di durata quinquennale e la scadenza era stata fissata al 31 agosto 2005, perchè le parti avevano tenuto conto anche dei primi sei mesi già decorsi;

4. dopo le dimissioni del Sindaco e lo scioglimento del Consiglio Comunale il rapporto era proseguito durante la gestione commissariale ed era stato risolto unilateralmente con Delib. Giunta Comunale 30 giugno 2003, n. 1, che aveva richiamato il D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 110, comma 3, nella parte in cui prevede che gli incarichi a contratto non possono avere durata superiore al mandato elettivo del sindaco in carica;

5. la Corte territoriale, per quel che ancora qui rileva, ha ritenuto inapplicabile la normativa invocata dall’appellante e posta a fondamento della deliberazione richiamata nel punto che precede, perchè non si era in presenza di due distinti contratti di lavoro subordinato a tempo determinato bensì di un unico rapporto di lavoro, sorto in data antecedente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 267 del 2000 e proseguito dopo l’esito positivo del periodo di prova;

6. quanto, poi, al risarcimento del danno il giudice d’appello ha evidenziato che il Tribunale correttamente aveva valorizzato la data della costituzione in mora, avvenuta con atto del 5 agosto 2003, ed ha aggiunto che i conteggi, non oggetto di specifica contestazione, quantificavano le retribuzioni non percepite a partire dal luglio 2003, sicchè non a ragione il Comune aveva chiesto in appello che dalla somma riconosciuta venissero decurtate cinque mensilità, maturate a partire dal marzo 2003, trattandosi di retribuzioni che, in realtà, non erano entrate nel calcolo complessivo del dovuto;

7. la Corte territoriale ha evidenziato che il risarcimento del danno doveva essere parametrato non solo allo stipendio tabellare ma anche alla retribuzione di posizione, della quale l’appellante aveva chiesto l’esclusione senza motivarne le ragioni, e pertanto, sulla base delle considerazioni sopra riassunte, ha ritenuto fondato l’appello limitatamente alla mancata detrazione dell’aliunde perceptum, quantificato nell’importo complessivo di Euro 12.460,00;

8. per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il Comune di Terlizzi sulla base di tre motivi, ai quali D.N. ha resistito con tempestivo controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, il ricorrente denuncia “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2000, art. 110 (T.U.E.L.); violazione e falsa applicazione degli artt. 1218,1418 e 1424 c.c.; falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.; omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti; nullità della sentenza” ed addebita alla Corte territoriale di essere incorsa nel vizio di omessa pronuncia perchè, nel confermare la sentenza del Tribunale che aveva ritenuto l’unicità del rapporto, non ha preso in considerazione gran parte delle argomentazioni e delle censure in diritto formulate dall’appellante;

1.1. evidenzia che i giudici di merito non hanno indicato le ragioni per le quali due distinti contratti, sottoscritti con una Pubblica Amministrazione sulla base di distinte “manifestazioni di potestà provvedimentale”, possano essere unificati a prescindere dall’accertamento della nullità del termine apposto al primo contratto o di altra causa di invalidità del secondo contratto;

1.2. aggiunge che non poteva essere valorizzato il termine “prosecuzione” utilizzato nella deliberazione perchè pacificamente il primo dei due contratti era sottoposto ad un termine scaduto e pertanto il successivo negozio aveva dato vita ad un rapporto distinto, essendo noto che il rapporto dirigenziale può sorgere solo a seguito della stipula del contratto individuale;

1.3. rileva ancora che anche l’eventuale illegittimità del termine apposto al primo negozio non avrebbe mai potuto consentire l’unificazione in quanto nell’impiego pubblico contrattualizzato il legislatore ha inteso escludere ogni forma di conversione del contratto nullo;

1.4. riporta nel ricorso le deliberazioni adottate dall’ente ed insiste nel sostenere che nulla “giustifica l’interpretazione fornita dalla Corte d’Appello di Bari, secondo cui si tratterebbe di un unico rapporto di lavoro”, perchè in realtà si era in presenza di due distinti rapporti, di diversa durata, sia pure avente ad oggetto il medesimo incarico;

1.5. da ciò il ricorrente fa discendere l’applicabilità della disciplina dettata dal TUEL, art. 110, nonchè la piena legittimità del recesso, esercitato nel rispetto della norma di legge;

2. la seconda censura denuncia, ex art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti e la nullità della sentenza impugnata;

2.1. si addebita alla Corte territoriale di avere contraddittoriamente affermato, da un lato, che le retribuzioni rilevanti ai fini del risarcimento del danno erano solo quelle maturate successivamente alla data di messa in mora, risalente all’agosto 2003, e dall’altro che poteva essere recepito il conteggio, non contestato, elaborato dal ricorrente, il quale, in realtà, aveva quantificato le retribuzioni a partire dal mese di luglio 2003;

2.2. quantomeno quest’ultima mensilità doveva essere detratta dal quantum complessivo del risarcimento, da parametrare in relazione a 25 e non 26 mensilità;

3. il vizio motivazionale e la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 c.p.c., sono denunciati con il terzo motivo, che concerne il capo della sentenza relativo all’inclusione della retribuzione di posizione nella base di calcolo utile ai fini della quantificazione del danno;

3.1. il ricorrente premette che nel primo grado di giudizio il conteggio era stato espressamente contestato, perchè il Comune aveva dedotto che il risarcimento doveva essere parametrato alla sola “retribuzione contrattuale”, con esclusione del trattamento accessorio, sicchè la Corte avrebbe dovuto accogliere il motivo di gravame, ulteriormente illustrato nelle note difensive in replica alla costituzione della controparte, fondato in quanto la retribuzione di posizione presuppone l’effettivo esercizio delle funzioni dirigenziali;

4. occorre premettere all’esame dei motivi che nessuna censura muove il ricorrente alla sentenza impugnata nella parte in cui, dopo avere escluso per ragioni temporali l’applicabilità dell’art. 110 del T.U.E.L., sulla cui interpretazione non ha pronunciato, ha per ciò solo ritenuto illegittimo il recesso, senza interrogarsi su quale fosse la disciplina vigente in data antecedente alla pubblicazione del Testo Unico e senza accertare se la normativa applicabile al rapporto consentisse o meno il recesso anticipato dallo stesso in ragione della scadenza o della cessazione per altre cause del mandato elettivo del Sindaco;

4.1. il Comune di Terlizzi, che di questo non si duole, formula la prima censura, tesa ad affermare che la legittimità del recesso andava scrutinata alla luce del richiamato art. 110 T.U.E.L., dando per scontato, sia pure implicitamente, che la disposizione fosse innovativa rispetto al quadro normativo previgente e che la stessa consentisse lo scioglimento anticipato del contratto a termine quale effetto delle dimissioni del Sindaco che aveva conferito l’incarico;

4.2. il ricorso, cioè, assume a presupposto implicito un’interpretazione della norma che, invece, è stata ritenuta non condivisibile da questa Corte, la quale ha affermato che il D.Lgs. n. 276 del 2000, art. 110, comma 3, deve essere letto alla luce dei principi più volte affermati dalla Corte Costituzionale in tema di spoils system e pertanto va esclusa la decadenza automatica in caso di anticipata cessazione del mandato elettivo, qualora l’incarico sia di tipo tecnico-professionale e non comporti il compito di collaborare direttamente al processo di formazione dell’indirizzo politico, ma soltanto lo svolgimento di funzioni gestionali e di esecuzione rispetto agli indirizzi deliberati dagli organi di governo dell’Ente di riferimento (Cass. n. 11015/2017);

4.3. nel giudizio di cassazione l’interesse, che deve sorreggere ogni singolo motivo, deve essere escluso, anche qualora si deduca la violazione di norme giuridiche, sostanziali e processuali, ogniqualvolta la pronuncia che si sollecita sia priva di qualsiasi influenza in relazione alle domande o eccezioni proposte (Cass. n. 20689/2016), ed è questo il caso che ricorre nella fattispecie, perchè la censura, con la quale si insiste nell’affermare che andava applicata la normativa dettata dall’art. 110 T.U.E.L., non considera che detta normativa, quanto al tema che viene in rilevo, è esattamente sovrapponibile a quella dettata dalla L. n. 142 del 1990, art. 51, nel testo applicabile ratione temporis alla data del 1 settembre 2000, della cui violazione il ricorrente non si duole, ed inoltre che del T.U. questa Corte ha fornito un’interpretazione tale da escludere in ogni caso l’asserita legittimità del recesso, posto che al D. era stato conferito un incarico di tipo tecnico di Capo Settore degli affari finanziari e del personale;

5. a detto assorbente profilo di inammissibilità si deve aggiungere che la censura, al di là della formulazione della rubrica, nell’affermare l’autonomia dei contratti in successione intercorsi fra le parti, esclusa invece dalla Corte territoriale sulla base del contenuto degli atti deliberativi e del regolamento negoziale, finisce per censurare l’attività interpretativa riservata al giudice del merito e ciò fa senza individuare i criteri di ermeneutica rilevanti e senza denunciarne la violazione;

5.1. è noto che l’interpretazione del contratto può essere sindacata in sede di legittimità solo nel caso di violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, la quale non può dirsi esistente sul semplice rilievo che il giudice di merito abbia scelto una piuttosto che un’altra tra le molteplici interpretazioni del testo negoziale, sicchè, quando di un negozio o di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (Cass. n. 11254/2018), perchè l’accertamento della volontà in relazione al contenuto del contratto si traduce in un’indagine di fatto e, quindi, in sede di legittimità il ricorrente è tenuto, non solo a fare esplicito riferimento alle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma anche a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia dagli stessi discostato (cfr. fra le più recenti Cass. n. 27136/2017);

6. non sussiste la violazione dell’art. 112 c.p.c., denunciata in tutti i motivi, perchè il vizio di omessa pronuncia ricorre solo allorquando manchi qualsivoglia statuizione su un capo della domanda, su una eccezione di parte o su un motivo di appello, di modo che faccia difetto, perchè inesistente, il provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto (Cass. n. 7472/2017), non già qualora la pronuncia sia stata resa e la doglianza si riferisca all’omesso esame di una prova, di una circostanza di fatto, di un argomento sviluppato dalla parte a sostegno della propria linea difensiva e non valorizzato dal giudice;

6.1. in dette ipotesi, infatti, non si ravvisa alcuna violazione del principio di necessaria corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato e l’omissione potrà essere rilevante solo se abbia dato luogo ad un error in iudicando o al vizio di cui al riformulato art. 360 c.p.c., n. 5;

7. è inammissibile anche il secondo motivo perchè correttamente la Corte territoriale ha rilevato, condividendo sul punto la pronuncia di prime cure, che il risarcimento del danno poteva essere riconosciuto solo a far tempo dall’atto di messa in mora, risalente al 5 agosto 2003, e pertanto l’errore asseritamente commesso attraverso l’inclusione nel quantum anche della retribuzione del mese di luglio, non poteva essere denunciato in sede di legittimità, risolvendosi in un errore di calcolo che, in quanto tale, è suscettibile di correzione con la procedura di cui agli artt. 287 c.p.c. e segg. (Cass. n. 2399/2018);

8. infine la terza censura è infondata nella parte in cui addebita al giudice di appello di avere erroneamente considerato ai fini del quantum del risarcimento anche la retribuzione di posizione, che presuppone l’effettivo esercizio della funzione dirigenziale;

8.1. ha indubbiamente errato la Corte territoriale nel valorizzare la non contestazione dei conteggi perchè al riguardo questa Corte da tempo ha affermato che occorre distinguere la componente fattuale di tali conteggi da quella giuridica o normativa ed ha precisato che se la non contestazione “concerne l’interpretazione data alla disciplina legale o contrattuale della quantificazione, essa si colloca in un ambito di sostanziale irrilevanza, appartenendo al potere – dovere del giudice la cognizione di tale disciplina, che non può, dunque, risultare condizionata dalle prospettazioni difensive e dai comportamenti processuali delle parti. Per avere rilevanza, la non contestazione deve, fondamentalmente, riguardare i fatti da accertare nel processo e non la determinazione della loro dimensione giuridica.” (Cass. S.U. n. 761/2002);

8.2. ne discende che, a prescindere dalla contestazione o meno dei conteggi, ben poteva essere fatta valere in appello l’erroneità della quantificazione del danno, per avere il Tribunale incluso voci retributive non spettanti, in quanto implicanti l’effettiva prestazione di una determinata attività, pacificamente non espletata a seguito del recesso anticipato dal contratto a termine;

8.3. tuttavia il dispositivo della sentenza impugnata, nella parte in cui include nel risarcimento anche la retribuzione di posizione, è conforme al principio di diritto affermato da questa Corte secondo cui “in tema di impiego pubblico privatizzato, nell’ipotesi di illegittimità del recesso anticipato da un contratto a termine del dirigente, le conseguenze risarcitorie vanno commisurate non al solo trattamento economico fondamentale ma anche alla retribuzione di posizione prevista per l’incarico ricoperto al momento dell’illegittimo recesso dal rapporto e che sarebbe stata percepita sino alla scadenza.” (Cass. n. 17355/2019);

8.4. il motivo va, pertanto, rigettato e la sentenza deve essere confermata con diversa motivazione ex art. 384 c.p.c., comma 4;

9. in via conclusiva il ricorso deve essere respinto con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo;

9.1. sussistono le condizioni processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso delle spese generali del 15% ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 13 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2020

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