Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4183 del 19/02/2020

Cassazione civile sez. lav., 19/02/2020, (ud. 07/05/2019, dep. 19/02/2020), n.4183

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6653-2015 proposto da:

RETE FERROVIARIA ITALIANA S.P.A., (già FERROVIE DELLO STATO S.P.A.

SOCIETA’ DI TRASPORTI E SERVIZI PER AZIONI), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

DI RIPETTA 22, presso lo studio dell’avvocato VESCI GERARDO &

PARTNERS, rappresentata e difesa dall’avvocato VESCI GERARDO;

– ricorrente principale –

contro

B.G., + ALTRI OMESSI, elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA DEI GRACCHI, 209, presso lo studio dell’avvocato PATRIZIA

PELLICCIONI, che li rappresenta e difende;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

avverso il provvedimento n. 6909/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 07/10/2014 r.g.n. 10450/2011.

Fatto

LA CORTE, esaminati gli atti e sentito il consigliere relatore: RILEVA

Che:

con sentenza n. 6909 in data 15 settembre – 7 ottobre 2014 la Corte d’Appello di Roma rigettava il gravame interposto da RETE FERROVIARIA ITALIANA S.p.a. avverso la decisione n. 9962/26.5 -3.6.2011, pronunciata dal locale giudice del lavoro, che aveva accolto le domande degli attori ( B.G., + ALTRI OMESSI), tutti dipendenti ed ex dipendenti di RETE FERROVIARIA ITALIANA S.p.a., volte ad ottenere il riconoscimento del vantato diritto al superiore inquadramento nella 9 categoria ex c.c.n.l. di settore, risalente al 1992, come successivamente modificato, con il profilo professionale di capo settore stazioni, secondo le rispettive e distinte indicate decorrenze, con la condanna altresì della società convenuta al pagamento delle conseguenti differenze retributive spettanti (maturate tra il primo gennaio 2004, solo per il C. da maggio, fino al 31 marzo 2009), laddove gli istanti risultavano inquadrati nella 8 categoria con il profilo di capo stazione sovrintendente. Costoro, infatti, avevano sostenuto di aver svolto mansioni superiori, attribuite ed in concreto svolte come dirigente contrale presso l’ufficio DC / DCO di Firenze, mansioni correlate alla direzione, alla vigilanza, al coordinamento e controllo della circolazione dei treni relativamente ad un complesso di impianti (stazioni) costituenti il c.d. nodo di (OMISSIS), ivi compresa la c.d. (OMISSIS);

avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione RETE FERROVIARIA ITALIANA S.p.a. (già Ferrovie dello Stato società di trasporti e servizi per azioni), come da atto in data 9 marzo 2015, affidato a cinque motivi, cui hanno resistito B.G. e gli altri nove litisconsorti in epigrafe, mediante controricorso con ricorso incidentale condizionato, riferito ad una sola censura, e contro il quale la società RFI ha replicato con proprio controricorso del 6 / 7 maggio 2015;

entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative;

con il primo motivo del ricorso principale è stata denunciata la violazione dell’art. 11 preleggi e dell’art. 412 bis c.p.c. – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – nonchè l’omesso esame di un punto che aveva formato oggetto di discussione ex art. 360 c.p.c., n. 5, tanto con riferimento al rigetto dell’eccezione d’improcedibilità per ritenuta soppressione dell’obbligatorietà del tentativo di conciliazione, senza tener conto del fatto che il ricorso introduttivo del giudizio era stato depositato il sette luglio 2009, di modo che operava pianamente l’art. 412 bis c.p.c., ratione temporis applicabile;

con il secondo motivo è stato dedotta ex art. 360 c.p.c., n. 3 la violazione degli artt. 1932 e 2943 c.c. in ordine al rigetto dell’eccezione di prescrizione, in quanto le missive all’uopo depositate dai lavoratori non risultavano firmate dagli interessati nè dal loro difensore (avv. Buzzi);

con il terzo motivo la società ricorrente ha censurato l’impugnata sentenza, ex art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione, errata interpretazione e falsa applicazione degli artt. 2103,1362 e 1363 c.c. in relazione al c.c.n.l. 1990/92, all’accordo sindacale del 26 luglio 1991 ed al D.M. 14 maggio 1985, n. 1085, nonchè, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, laddove tra l’altro la corte territoriale non aveva fatto alcun riferimento al suddetto accordo sindacale, concernente le declaratorie relative al capo stazione sovrintendente ed al capo settore stazioni, quest’ultimo adibito alla direzione di impianti di rilevante entità ed importanza, oltre che per lo svolgimento di vigilanza, coordinamento e controllo su più impianti, anche nel settore e sulla circolazione, a differenza del capo stazione sovrintendente, di modo che la sentenza impugnata aveva anche mancato di considerare quanto dedotto dalla società RFI sul punto;

con il quarto motivo, è stata dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. e art. 2697 c.c., nonchè l’omesso esame di un fato decisivo, in quanto la Corte d’Appello non aveva considerato i fatti emersi a seguito dall’espletata istruttoria, che dimostravano come gli attori non avessero mai svolto le attività di cui alle invocate declaratorie. In particolare, l’errore era consistito nel non aver valutato, nel loro complesso, ma quindi in maniera del tutto univoca e distorta, le dichiarazioni rese dai testi escussi, così da far ritenere l’ascrivibilità delle mansioni svolte al superiore inquadramento rivendicato;

con il quinto motivo la ricorrente principale ha ulteriormente dedotto ex art. 360 c.p.c., n. 5 l’omesso esame di un fatto decisivo, avendo la Corte distrettuale in buona sostanza ripetuto l’errore dl primo giudicante, secondo cui RFI non aveva contestato i conteggi elaborati ex adverso;

con il ricorso incidentale condizionato è stata denunciata, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione o falsa applicazione dell’art. 112 codice di rito, per la parte in cui la Corte d’Appello, ritenuta assorbita la questione circa comunque l’eseguito tentativo di conciliazione per effetto dell’intervenuta modifica normativa, con si era pronunciata nel merito sul punto;

TANTO PREMESSO IL RICORSO PRINCIPALE VA DISATTESO PER LE SEGUENTI RAGIONI, CON CONSEGUENTE ASSORBIMENTO DI QUELLO INCIDENTALE;

invero, il primo motivo è inammissibile, siccome irritualmente formulato ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, e non già univocamente in termini di nullità ai sensi dell’art. 360, n. 4 cit. codice, visto che il vizio denunciato riguardo in effetti un error in procedendo (questione peraltro infondata in base al principio, in base al quale nelle controversie di lavoro, la verifica dell’effettiva e preventiva proposizione della richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione (cui la legge condiziona la procedibilità della domanda giudiziale), che ricomprende anche la questione della idoneità della detta richiesta a manifestare la volontà del lavoratore di impugnare il licenziamento, è sottratta alla disponibilità delle parti e rimessa al potere – dovere del giudice del merito, da esercitarsi, ai sensi dell’art. 443 c.p.c., comma 2 solo nella prima udienza di discussione, sicchè ove la questione, ancorchè segnalata, non venga rilevata dal giudice entro detto termine, l’azione giudiziaria prosegue, in ossequio al principio di speditezza di cui all’art. 24 Cost. e art. 111 Cost., comma 2, e la questione stessa non può essere riproposta nei successivi gradi del giudizio – così Cass. lav. n. 15103 del 10/09/2012 ed in senso conforme anche Cass. lav. n. 13394 del 19/07/2004);

analogamente va ritenuto per il secondo motivo, laddove in effetti parte ricorrente omette di trascrivere il contenuto dei documenti in questione, oltre che anche delle argomentazioni in senso contrario espresse dal giudice di primo grado, espressamente richiamate nella sentenza qui impugnata, con conseguente difetto di specificità e di autosufficienza, perciò in violazione delle allegazioni invece prescritte dall’art. 366 c.p.c., comma 1. Senza dire, inoltre, che le contestazioni mosse dalla ricorrente circa la mancanza delle firme relative agli atti interruttivi della prescrizione riguardano, evidentemente, le minute delle missive a suo tempo spedite dai diretti interessati e da costoro, quindi, prodotte in giudizio, per cui R.F.I. senza contestarne la ricezione tuttavia ha pure mancato di produrre gli originali che le furono pervenuti. Per contro si legge a pag. 4 della sentenza impugnata che la prescrizione fu interrotta come da missive ricevute dalla società il 29 dicembre 2008 ed il 27 aprile 2009, validamente inviate dal difensore, cui successivamente venne conferito il mandato ad litem, e con l’ulteriore precisazione che secondo comune esperienza la mancanza di firma del difensore sulla velina della lettera di costituzione in mora deve ritenersi relativa alla sola copia trattenuta dal mittente, mentre deve ritenersi regolarmente sottoscritto l’atto ricevuto dal destinatario. V. sul punto anche Cass. III civ. n. 1557 del 19/05/1972, secondo cui l’effetto interruttivo della prescrizione non può essere prodotto da qualsiasi atto, ma proprio da quelli espressamente previsti dall’art. c.c., e l’indagine sull’esistenza di tali atti, implicando un apprezzamento di fatto, non è censurabile in cassazione se correttamente motivata. In senso analogo, v. anche Cass. II civ. n. 2159 in data 8/7/1971: lo stabilire nei singoli casi se un dato atto abbia efficacia interruttiva è indagine di mero fatto insindacabile in cassazione);

parimenti, vanno respinti il terzo ed il quarto motivo, tra loro connessi e perciò esaminabili congiuntamente, dovendosi ribadire in questa sede quanto già ripetutamente deciso da questa Corte in casi del tutto analoghi a quello di cui si discute in questa sede, non sussistendo validi motivi per discostarsi dal precedente orientamento (cfr. tra le altre Cass. lav. n. 15685 del 4/5 – 28/07/2016: “…I motivi, che possono congiuntamente trattarsi siccome connessi, sono privi di fondamento. In particolare, quanto al primo motivo, si osserva che nel procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento dei dipendenti, la Corte di appello ha correttamente operato l’accertamento in fatto delle mansioni lavorative in concreto svolte dagli odierni controricorrenti, richiamando, ai fini della esegesi delle declaratorie di categoria applicabili nella fattispecie, precedenti giurisprudenziali di legittimità attinenti ai previgenti parametri normativi di cui al D.M. n. 1085 del 1985, secondo cui le attività descritte in ciascun profilo professionale non sono cumulative ma si riferiscono ad alternative ipotesi di utilizzazione. Si tratta di un corretto procedimento ermeneutico fondato su criteri elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, che non inficia la correttezza del procedimento logico-giuridico seguito dai giudici dell’impugnazione.

4. Non va, peraltro, sottaciuto che l’accertamento della natura delle mansioni concretamente svolte dal dipendente, ai fini dell’inquadramento del medesimo in una determinata categoria di lavoratori, costituisce giudizio di fatto riservato al giudice del merito ed è insindacabile, in sede di legittimità, se sorretto, come nella fattispecie, da logica e adeguata motivazione. Invero, la Corte distrettuale ha desunto il dato delle mansioni espletate dagli odierni intimati dalle testimonianze raccolte in giudizio ed ha accertato che le stesse corrispondevano a quelle contemplate dalla seconda ipotesi della declaratoria di cui all’Accordo sindacale del 26 luglio 1991 che, nel definire il contenuto professionale della 9^ categoria, cioè quella del Capo Settore Stazioni, prevede lo svolgimento di “attività di direzione di impianti di rilevante entità ed importanza” oppure “attività di vigilanza, coordinamento e controllo su più impianti anche di rilevante importanza nel settore della circolazione”. Così in particolare, ha evidenziato che gli appellanti “avevano il compito di dirigere e coordinare il traffico su più impianti, occupandosi di 14 stazioni telecomandate su di un tratto di circa 150 km. di linea; verificavano la regolarità della circolazione, intervenivano in caso di anomalie a risolvere i problemi, decidevano la soppressione o la sostituzione dei treni, erano gli unici responsabili in caso di anomalia, informavano successivamente la direzione delle irregolarità riscontrate”.

5. Inoltre, la stessa Corte ha spiegato che l’attività del Dirigente Centrale Operativo è quella della direzione generale della circolazione dei treni realizzata mediante il controllo e la vigilanza sull’andamento della circolazione nelle stazioni assegnate al medesimo Dirigente, oltre che attraverso ordini e consigli diretti agli agenti operanti localmente al fine di mantenere o ristabilire la regolarità della corsa dei treni, attività complessa, questa, che ha ritenuto non contemplata nella declaratoria della 8^ ottava categoria ove erano inquadrati i lavoratori. In maniera altrettanto corretta la Corte di merito ha fondato la propria decisione sulla disamina dei profili professionali previsti dallo specifico Accordo sindacale del 26 luglio 1991, per cui il richiamo operato dalla ricorrente alle più generiche declaratorie del contratto collettivo nazionale non scalfisce la validità della suddetta “ratio decidendi. Si è, infatti, avuto già modo di affermare (Cass. 23 febbraio 2016 n. 3547, Cass. 15 novembre 2012 n. 20015, Cass. 13 dicembre 2005, n. 27430) che “in sede di interpretazione delle clausole di un contratto collettivo relative alla classificazione del personale in livelli o categorie, ha rilievo preminente, soprattutto se il contratto ha carattere aziendale, la considerazione degli specifici profili professionali indicati come corrispondenti ai vari livelli, rispetto alle declaratorie contenenti la definizione astratta dei livelli di professionalità delle varie categorie, poichè le parti collettive classificano il personale non sulla base di astratti contenuti professionali, bensì in riferimento alle specifiche figure professionali dei singoli settori produttivi, che ordinano in una scala gerarchica, ed elaborano successivamente le declaratorie astratte, allo – scopo di consentire l’inquadramento di figure professionali atipiche o nuove”.

6. Con riferimento ai rapporti di lavoro dei ferrovieri si è anche affermato (Cass. 24 gennaio 2003, n. 1083) che “in sede di interpretazione delle clausole di un contratto collettivo relative alla classificazione del personale in livelli o categorie, ha rilievo preminente, soprattutto se il contratto ha, come nella specie, carattere aziendale, la considerazione degli specifici profili professionali indicati come corrispondenti ai vari livelli, rispetto alle declaratorie contenenti la definizione astratta dei livelli di professionalità delle varie categorie, poichè le parti collettive classificano il personale non sulla base di astratti contenuti professionali, bensì in riferimento alle specifiche figure professionali dei singoli settori produttivi, che ordinano in una scala gerarchica, elaborando successivamente le declaratorie astratte, allo scopo di consentire l’inserimento di figure professionali atipiche o nuove” (in senso conforme v. anche Cass. 18 novembre 1997). Oltretutto, l’interpretazione del suddetto accordo sindacale operata dalla Corte di merito è rispettosa del canone ermeneutico letterale, così come la valutazione del materiale probatorio è immune da vizi logico-giuridici.

7. In definitiva, le censure appaiono prive di pregio, sia perchè non scalfiscono la ratio decidendi basata sull’interpretazione dei profili professionali dell’Accordo sindacale specifico del 26 luglio 1991, sia perchè attraverso le stesse si tenta una rivisitazione del materiale istruttorio non consentita nella presente sede di legittimità.

8. Le considerazioni sinora esposte si attagliano anche al secondo motivo di ricorso concernente la non condivisa valutazione delle risultanze testimoniali che hanno consentito alla Corte territoriale di acquisire elementi utili alla verifica delle mansioni espletate in concreto dai lavoratori e sul conseguente inquadramento delle stesse nella corrispondente categoria rivendicata di cui al suddetto Accordo sindacale, risolvendosi nel sollecitare soltanto una nuova lettura delle risultanze probatorie, operazione preclusa in questa sede di legittimità. Quanto alla contestuale denuncia di una violazione di legge ed in particolare dell’art. 116 c.p.c. e art. 2697 c.c., parte ricorrente incorre nell’equivoco di ritenere che la violazione o la falsa applicazione di norme di legge, sostanziale o processuale, dipendano o siano ad ogni modo dimostrate dall’erronea valutazione del materiale istruttorio. Al contrario, un’autonoma questione di non corretta applicazione dell’art. 116 c.p.c. e art. 2697 c.c. può porsi, rispettivamente, solo allorchè il ricorrente alleghi che il giudice di merito: 1) abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge; 2) abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione; 3) abbia invertito gli oneri probatori. E poichè nessuna di queste tre situazioni è rappresentata nei motivi anzidetti, le relative doglianze sono prive di pregio (vedi in tali sensi, Cass., cit. n. 3547/2016).

9. Va, peraltro, rimarcato, quanto ai profili di violazione di legge, che è costante l’insegnamento di questa Corte per cui il vizio di violazione e falsa applicazione della legge di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (cfr. Cass. n. 16038/13). E’ di tutta evidenza, pertanto, che pur con una intitolazione della violazione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, parte ricorrente non ha posto altro che pure questioni di merito, il cui esame è per definizione escluso nella presente sede di legittimità.

10. Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2946 c.c., art. 2948 c.c., n. 4, art. 2697 c.c., nonchè dell’art. 116 c.p.c., ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia. Si critica la sentenza impugnata per aver conferito valore interruttivo della prescrizione alle lettere con le quali i ricorrenti rivendicavano il superiore inquadramento e le conseguenti differenze retributive, nonostante la genericità del tenore delle stesse. Al di là di ogni considerazione in ordine ai profili di inammissibilità che connotano il motivo nel cui contesto trovino formulazione, al tempo stesso, censure aventi ad oggetto violazione di legge e vizi della motivazione, giacchè in tal modo si finisce per affidare alla Corte di cassazione il compito di enucleare dalla mescolanza dei motivi la parte concernente il vizio di motivazione, che invece deve avere una autonoma collocazione, (vedi ex plurimis, Cass. 8 giugno 2012 n. 9431), si impone l’evidenza della ulteriore ragione di inammissibilità che connota la censura per difetto di specificità ed autosufficienza. Essa non reca, invero, l’esposizione del tenore delle missive oggetto della statuizione impugnata per quanto di rilievo ai fini della doglianza sollevata, non essendo compito della Corte stessa quello di ricercarlo autonomamente. In conclusione, alla stregua delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto….”. V. altresì similmente Cass. lav. n. 30545 del 9/5 – 26/11/2018);

analoghi motivati accertamenti un punto di fatto sono stati operati anche nel caso in esame dagli aditi giudici di merito, con riferimento anche qui all’accordo sindacale del 26 luglio 1991 ed in relazione alla nona categoria, specialmente quella attinente al capo settore stazioni adibito ad attività di vigilanza, coordinamento e controllo su più impianti anche di rilevante importanza nel settore della circolazione (cfr. in part. pag. 5 e ss. della sentenza impugnata);

del tutto inammissibile, infine, si appalesa il quinto e ultimo motivo del ricorso principale, attesa l’estrema genericità delle allegazioni svolte sul punto alle pagine 85 e 86 del ricorso per cassazione, in violazione dei principi di specificità e di autosufficienza occorrenti a norma dell’art. 366 c.p.c., laddove la sommaria contestazione dei conteggi in questione difetta del suo presupposto, non essendo state riportate le avversarie elaborazioni di calcolo in ordine alle quali la Corte di merito rilevava il fatto che l’appellante si era limitata ad eccepirne l’inesattezza. Con l’ulteriore precisazione, inoltre, che l’omesso esame di cui al vigente art. 360 c.p.c., n. 5, nella specie ratione temporis applicabile, con riferimento alla sentenza impugnata risalente all’anno 2014, deve riguardare una precisa circostanza fattuale, in storico, perciò non equiparabile ad una contestazione di conteggi, di cui ad ogni modo la Corte d’Appello ha invece evidentemente tenuto conto, sicchè al più la critica mossa da parte ricorrente andava, eventualmente, denunciata come difetto di motivazione, inferiore al minimo costituzionale occorrente a norma degli art. 111 Cost., art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 118 disp. att. c.p.c., quindi ritualmente ed univocamente in termini di nullità ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4;

pertanto, il ricorso deve essere rigettato, sicchè le relative spese seguono il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo liquidata;

infine, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, giusta la corrispondente declaratoria, limitatamente al ricorso principale, stante il conseguente mero assorbimento di quello incidentale, condizionato all’accoglimento del primo.

PQM

La Corte RIGETTA il ricorso, dichiarando inoltre assorbito quello incidentale condizionato. Condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro =200,00= per esborsi ed in Euro =7000,00= per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge, con attribuzione all’avv. Patrizia Pelliccioni, procuratrice antistataria costituta per i controcorrenti

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della sola ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 7 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2020

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