Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4181 del 19/02/2020

Cassazione civile sez. lav., 19/02/2020, (ud. 05/03/2019, dep. 19/02/2020), n.4181

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2273-2015 proposto da:

G.O.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

CALABRIA, 56 presso lo studio dell’avvocato FILIPPO MORLACCHINI,

rappresentato e difeso dall’avvocato PATRIZIA SABELLA;

– ricorrente –

contro

CENTRO SALENTO AMBIENTE S.P.A., in persona del legale rappresentante

pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA F. CIVININI 105,

presso lo studio dell’avvocato LUIGINA BIANCHI, rappresentato e

difeso dall’avvocato VINCENZO NAPOLITANO;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 2014/2014 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 28/08/2014 R.G.N. 2758/2013.

LA CORTE, visti gli atti e sentito il consigliere relatore:

Fatto

RILEVA

che:

con ricorso depositato il 26 settembre 2012 G.O.M. conveniva in giudizio davanti al giudice del lavoro di Lecce la società CENTRO SALENTO AMBIENTE instando per la declaratoria di nullità del termine finale apposto ai contratti a tempo determinato con i quali era stato assunto da parte convenuta, con conseguente conversione del rapporto in contratto a tempo indeterminato, chiedendo altresì la condanna della resistente al pagamento delle somme dovute a titolo di retribuzione per il periodo durante il quale il rapporto era rimasto sospeso quale ristoro dei danni patiti. Il giudice adito con sentenza numero 7375 in data 8 ottobre 2013 rigettava la domanda. Tale pronuncia veniva appellata dal g. con ricorso depositato il 14 novembre 2013, respinto tuttavia dalla Corte d’Appello di Lecce con sentenza n. 2014 in data 7 luglio – 28 agosto 2014, compensando le spese relative al secondo grado del giudizio;

avversi detta sentenza, non notificata, ha proposto ricorso per cassazione il signor G.O.M., come da atto del 27 dicembre 2014, affidato a due motivi, cui ha resistito la S.p.A. CENTRO SALENTO AMBIENTE mediante controricorso con ricorso incidentale, affidato ad un solo motivo, notificato il 4 febbraio 2015;

in seguito, fissata adunanza camerale per il giorno 5 marzo 2019, con relativi avvisi di rito, tempestivamente comunicati, il ricorrente ha depositato comparsa di costituzione di nuovo difensore (avv. Patrizia Sabella del foro di Lecce, in sostituzione dell’avv. Ga.Gi.Ma., deceduto il (OMISSIS), eleggendo domicilio eletto in Roma presso lo studio dell’avvocato Filippo Morlacchini).

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo il ricorrente principale ha denunciato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione falsa applicazione degli artt. 1372,1175,1375 e 2697 c.c., per aver i giudici di merito ritenuto la risoluzione consensuale del dedotto rapporto contrattuale in base unicamente al tempo trascorso tra la cessazione del suddetto rapporto e l’impugnazione dei relativi contratti di assunzione, all’uopo richiamando la giurisprudenza secondo cui di per sè il trascorrere del tempo non costituisce sufficiente indice sintomatico di una univoca comune volontà dei contraenti da cui poter desumere il mutuo consenso, laddove nel caso di specie esso G. dalla scadenza dell’ultimo contratto a termine, risalente al due gennaio 2006 non aveva più lavorato ed era tuttora privo di occupazione;

con il secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, il ricorrente principale ha denunciato la nullità della sentenza impugnata ovvero del procedimento per violazione dell’art. 112 codice di rito, ovvero per omessa pronuncia, avendo l’impugnata sentenza respinto l’appello con l’unica motivazione concernente il riconosciuto mutuo consenso, donde la definitiva risoluzione contrattuale del rapporto contrattuale. Nessuna valutazione aveva compiuto la Corte territoriale sulla eccepita illegittimità dei due contratti a termine stipulati dal lavoratore, come anche della proroga disposta in relazione al secondo. Per contro, esso ricorrente aveva esplicitamente e compiutamente reiterato ogni deduzione in ordine all’anzidetta illegittimità, chiedendo per l’effetto accertarsi la conversione del rapporto a suo tempo instaurato in rapporto a tempo indeterminato con conseguente diritto alla riassunzione. Di conseguenza, risultava violato il principio di cui all’art. 112 c.p.c., in base al quale il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti della stessa. Nel caso di specie, in particolare, il contratto di assunzione in argomento, anzichè esplicitare le concrete effettive ragioni che avrebbero necessitato l’instaurazione di un rapporto a termine, contenevano unicamente formule di stile, prive di qualsivoglia riferimento alla specifica situazione aziendale, con l’effetto di aver impedito al lavoratore la conoscenza, prima ancora che la verifica, di tali eventuali ragioni. Ciò valeva per il contratto di assunzione concernente il periodo 6 giugno – 6 ottobre 2005, recante la mera indicazione della sostituzione di lavoratori assenti per fruizione di periodo feriale, come anche per il successivo stipulato in relazione all’arco temporale 2 novembre – 2 dicembre 2005, motivato con astratte e generiche esigenze organizzative del servizio, ed a maggior ragione per la proroga del secondo contratto disposta sino al 2 gennaio 2006, senza il benchè minimo riferimento, neanche generico o di stile, alle esigenze temporanee;

con l’unico motivo a sostegno del ricorso incidentale la società controricorrente ha denunciato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 la violazione falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., in quanto la Corte d’Appello, rigettando l’interposto gravame in applicazione del citato art. 91 avrebbe dovuto condannare il soccombente al rimborso delle relative spese, avendone invece disposto la compensazione con la generica indicazione “attesa la peculiarità del caso concreto”. Per contro, nel caso di specie in base all’art. 92 c.p.c., secondo il testo ratione temporis applicabile, la compensazione risultava consentita soltanto in caso di soccombenza reciproca ovvero nell’ipotesi di novità della questione trattata o di mutamento della giurisprudenza, ipotesi tuttavia nel caso di specie insussistenti, donde la violazione dell’art. 91 in tema di soccombenza, di modo che l’impugnata sentenza andava cassata quanto alla dichiarata compensazione delle spese, con conseguente condanna il ricorrente al rimborso delle spese relative al giudizio di appello, da liquidarsi in complessivi Euro 2765,00 conformemente ai parametri vigenti e senza alcuna maggiorazione;

tanto premesso, va in primo luogo evidenziata la natura e la portata, meramente nonchè necessariamente, illustrativa dell’anzidetta comparsa di nuovo difensore, poichè una volta consumato il potere di impugnazione, in base ai rimedi processuali consentiti e disciplinati dal codice di rito nei termini ivi rigorosamente fissati, non è possibile introdurre altre e diverse questioni, se non chiarendo quelle in precedenza dedotte, pure in relazione ad eventuale jus superveniens, se del caso derivante anche da pronunce di illegittimità costituzionale;

ciò detto, entrambi i motivi del ricorso principale vanno disattesi, mentre può essere accolta, per quanto di ragione, la doglianza di cui al ricorso incidentale;

invero, quanto al primo motivo, va rilevato che entrambi i giudici di merito, sia in primo che in secondo grado, hanno conformemente accertato, in via preliminare, ed in punto di fatto il mutuo consenso, eccepito da parte convenuta, quale causa definitiva di risoluzione del complesso rapporto contrattuale dedotto da parte attrice;

tale accertamento fattuale, non sindacabile se non la deduzione di un eventuale vizio rilevante ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame di un fatto decisivo ai fini della risoluzione della vertenza (vizio nel caso di specie comunque non ritualmente dedotto, ma nemmeno deducibile stante l’anzidetta doppia conforme, con conseguente preclusione ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c., ultimi due commi anch’esso qui ratione temporis operante, visto che l’appello fu proposto nell’anno 2013 e la successiva pronuncia venne emessa e pubblicata nell’anno successivo, dopi poi il ricorso del 2015), cristallizza la ricostruzione della vicenda negli acclarati termini di risoluzione consensuale, non più di conseguenza sindacabile in sede di legittimità sotto il profilo del vizio ovvero della violazione di legge (v. da ultimo in proposito anche Cass. I civ., ordinanza n. 640 del 14/01/2019, secondo cui le espressioni violazione o falsa applicazione di legge, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, descrivono i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto: a) quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto; b) quello afferente all’applicazione della norma stessa una volta correttamente individuata ed interpretata. Il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata; il vizio di falsa applicazione di legge consiste, o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perchè la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione. Non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 360, comma 1, n. 3, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità.

cfr. inoltre, più specificamente, il principio affermato sull’argomento da Cass. lav. con sentenza n. 29781 del 12/12/2017, secondo cui in tema di contratti a tempo determinato, l’accertamento della sussistenza di una concorde volontà delle parti diretta allo scioglimento del vincolo contrattuale costituisce apprezzamento di merito che, se immune da vizi logici, giuridici e adeguatamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità, secondo le rigorose regole sui motivi che possono essere fatti valere al fine di incrinare la ricostruzione di ogni vicenda storica antecedente al contenzioso giudiziale, previste dall’art. 360 c.p.c., n. 5, tempo per tempo vigente.); parimenti, va disatteso il secondo motivo di ricorso, laddove non solo sussiste un evidente difetto di allegazione, rilevante ai sensi e per gli effetti di quanto previsto e sanzionato in particolare dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6 – avendo omesso il ricorrente principale di riportare sufficientemente con precise riproduzioni i motivi dell’appello a suo tempo proposto avverso la sentenza di primo grado- per cui si lamenta l’asserita omessa pronuncia, ma la doglianza si appalesa altresì inconferente sotto il profilo logico-giuridico, in quanto, una volta ritenuta, evidentemente in via preliminare, da giudici aditi la risoluzione consensuale dei contratti de quibus, perciò anche il difetto di ogni interesse in ordine ai loro successivi effetti, vengono meno pure le ragioni più strettamente giuridiche inerenti alla loro invalidità, parziale;

in altri termini, a parte la rilevata assenza del requisito di autosufficienza, attesa la risoluzione consensuale del rapporto contrattuale, riscontrata in via preliminare dai giudici di merito ed insindacabile per le anzidette ragioni in questa sede di legittimità, in relazione allo scadere della suddetta proroga (in data due gennaio 2006), con conseguente sua definitiva cessazione, è stata evidentemente ritenuta assorbita ogni altra questione inerente alla validità o meno della durata a tempo determinato a suo tempo convenuta, presupponendo d’altro canto il mutuo consenso di cui all’art. 1372 c.c. la libera disponibilità delle parti interessate dei connessi diritti, che di conseguenza si estinguono (cfr. tra le altre Cass. III civ. n. 3502 del 4/12/1971: qualora una parte faccia valere un diritto derivante da un contratto e, pur in difetto della relativa eccezione del convenuto, risulti dagli atti che il contratto è stato consensualmente risolto, poichè la risoluzione consensuale costituisce un fatto estintivo – operante ipso jure – dei diritti nascenti dal contratto, la domanda dell’attore deve essere respinta per la sua infondatezza. Sulla rilevabilità di ufficio del mutuo consenso v. peraltro anche Cass. II cv. n. 10201 del 20/06/2012, secondo cui la risoluzione consensuale del contratto non costituisce oggetto di eccezione in senso proprio, essendo lo scioglimento per mutuo consenso un fatto oggettivamente estintivo dei diritti nascenti dal negozio bilaterale, desumibile dalla volontà in tal senso manifestata, anche tacitamente, dalle parti, che può essere accertato d’ufficio dal giudice pure in sede di legittimità, ove non vi sia necessità di effettuare indagini di fatto. Più recentemente in senso conforme cfr. altresì Cass. lav. n. 23586 del 28/09/2018, laddove tra l’altro in motivazione, è stata confermata la risoluzione consensuale ritenuta dalla Corte di merito con riferimento a contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, impugnato con azione di nullità parziale, visto che l’attrice aveva atteso oltre cinque anni prima di instaurare giudizio, con conseguente totale mancanza di operatività del rapporto contrattuale, perciò da valutarsi come dichiarazione risolutoria. Quindi, disattese le preliminari doglianze per l’asserito vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 riguardo al mutuo consenso e pretesa violazione dell’art. 2697 c.c., restavano assorbite le ulteriori censure, la cui valutazione giustamente è stata anche considerata – all’evidenza implicitamente – superata dalla Corte distrettuale, una volta riconosciuta la risoluzione consensuale del dedotto rapporto contrattuale, ancorchè a suo tempo per ipotesi invalidamente stipulato);

quanto al ricorso incidentale, lo stesso appare fondato alla luce dell’art. 92 c.p.c., comma 2, modificato con la L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 11, – in S.O. n. 95, relativo alla G.U. 19/06/2009, n. 140 – (secondo il testo in vigore dal 4-7-2009 al 10.11.2014: “Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti.”, tenuto conto che il ricorso introduttivo del giudizio risale al 26 settembre 2012 e che il dispositivo della sentenza qui impugnata, come di rito letto all’esito dell’udienza di discussione, è del sette luglio 2014, perciò non rilevando la successiva pubblicazione del 28-08-14);

per contro, nel caso di specie, esclusa evidentemente ogni ipotesi di reciproca o parziale soccombenza, visto che l’interposto gravame è stato integralmente rigettato, la Corte leccese ha ciò nondimeno per intero compensato le spese di secondo grado, essendosi limitata su punto ad enunciare una non meglio indicata “peculiarità del caso concreto”, espressione che per la sua estrema genericità viola palesemente l’obbligo di motivazione specifica imposta dalla suddetta norma, a fronte peraltro dell’ordinaria regola per cui le spese vanno poste a carro della parte rimasta soccombente, derogabile quindi nei soli limiti eccezionalmente ammessi dal codice di rito;

di conseguenza, si impone la cassazione sul punto della impugnata pronuncia con necessario rinvio alla Corte di merito, in proposito competente, perchè applichi correttamente il succitato art. 92, comma 2, tenuto conto peraltro anche dei principi di diritto enunciati dalla Corte Costituzionale con la sentenza in data 7 marzo – 19 aprile 2018, n. 77 (in G.U. la s.s. 26/04/2018, n. 17), laddove è stata dichiarata “l’illegittimità costituzionale dell’art. 92 c.p.c., comma 2, nel testo modificato dal D.L. 12 settembre 2014, n. 132, art. 13, comma 1, convertito, con modificazioni, nella L. 10 novembre 2014, n. 162, nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni” (“…La prescrizione dell’espressa indicazione dei “giusti motivi” nella motivazione della decisione del giudice sulle spese di lite non apparve però ancora sufficiente a contrastare una tendenza, esistente nella prassi, al frequente ricorso da parte del giudice alla facoltà di compensare le spese di lite anche in caso di soccombenza totale. Il legislatore è quindi intervenuto una seconda volta proprio sulla clausola generale accentuandone, in chiave limitativa, il carattere derogatorio rispetto alla regola generale che vuole che alla soccombenza totale segua anche la condanna al pagamento delle spese di lite. La L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 11, (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonchè in materia di processo civile), ha così riformulato l’art. 92, comma 2: “Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti”.

I “giusti motivi” sono diventati le “gravi ed eccezionali ragioni”: ciò significava che il perimetro della clausola generale si era ridotto, ritenendo il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità – che si è già rilevato essere ampia, secondo la giurisprudenza di questa Corte – che una più estesa applicazione della regola di porre a carico del soccombente totale le spese di lite rafforzasse il principio di responsabilità di chi promuoveva una lite, o resisteva in giudizio, con conseguente effetto deflativo sul contenzioso civile.

13.- Al fondo di questo contesto riformatore è la consapevolezza, sempre più avvertita, che, a fronte di una crescente domanda di giustizia, anche in ragione del riconoscimento di nuovi diritti, la giurisdizione sia una risorsa non illimitata e che misure di contenimento del contenzioso civile debbano essere messe in opera.

Per altro verso, quando non di meno la lite arriva all’esito finale della decisione giudiziaria, appare giustificato che l’alea del processo debba allora gravare sulla parte totalmente soccombente secondo una più stretta regola generale, limitando alla ricorrenza di “gravi e eccezionali ragioni” la facoltà per il giudice di compensare le spese di lite.

Questo raggiunto equilibrio è stato però alterato da un’ulteriore, più recente, modifica del censurato art. 92 c.p.c., comma 2.

14.- Da ultimo infatti, sull’abbrivio riformatore cominciato nel 2005, il legislatore, nel 2014, è andato ancora oltre ed ha ristretto ulteriormente il perimetro della deroga alla regola che vuole che le spese di lite gravino sulla parte totalmente soccombente: non più la clausola generale delle “gravi ed eccezionali ragioni”, ma due ipotesi nominate (oltre quella della soccombenza reciproca che non è mai mutata), ossia l’assoluta novità della questione trattata ed il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti. Così ha disposto, da ultimo, il D.L. n. 132 del 2014, art. 13, comma 1, convertito, con modificazioni, nella L. n. 162 del 2014 (norma che, per espressa previsione dell’art. 13, comma 2 D.L. citato, si applica ai procedimenti introdotti a decorrere dal trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della relativa legge di conversione, avvenuta l’11 novembre 2014). Si legge nella Relazione al disegno di legge di conversione in legge del D.L. n. 132 del 2014: “Nonostante le modifiche restrittive introdotte negli ultimi anni, nella pratica applicativa si continua a fare larghissimo uso del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali, con conseguente incentivo alla lite, posto che la soccombenza perde un suo naturale e rilevante costo, con pari danno per la parte che risulti aver avuto ragione”. Questo più recente sviluppo normativo, che ha portato alla formulazione della disposizione censurata, mostra chiaramente che il legislatore ha voluto far riferimento a due ipotesi tassative, oltre quella della soccombenza reciproca, rimasta invariata nel tempo, come correttamente ritengono entrambi i giudici rimettenti.

15.- Però la rigidità di queste due sole ipotesi tassative, violando il principio di ragionevolezza e di eguaglianza, ha lasciato fuori altre analoghe fattispecie riconducibili alla stessa ratio giustificativa.

La prevista ipotesi del mutamento della giurisprudenza su una questione dirimente è connotata dal fatto che, in sostanza, risulta modificato, in corso di causa, il quadro di riferimento della controversia. Questa evenienza sopravvenuta – che concerne prevalentemente la giurisprudenza di legittimità, ma che, in mancanza, può anche riguardare la giurisprudenza di merito – non è di certo nella disponibilità delle parti, le quali si trovano a doversi confrontare con un nuovo principio di diritto, sì che, nei casi di non prevedibile overruling, l’affidamento di chi abbia regolato la propria condotta processuale tenendo conto dell’orientamento poi disatteso e superato, è nondimeno tutelato a determinate condizioni, precisate in una nota pronuncia delle sezioni unite civili della Corte di cassazione (sentenza 11 luglio 2011, n. 15144).

Il fondamento sotteso a siffatta ipotesi – che, ove anche non prevista espressamente, avrebbe potuto ricavarsi per sussunzione dalla clausola generale delle “gravi ed eccezionali ragioni” – sta appunto nel sopravvenuto mutamento del quadro di riferimento della causa che altera i termini della lite senza che ciò sia ascrivibile alla condotta processuale delle parti. Ma tale ratio può rinvenirsi anche in altre analoghe fattispecie di sopravvenuto mutamento dei termini della controversia senza che nulla possa addebitarsi alle parti: tra le più evidenti, una norma di interpretazione autentica o più in generale uno jus superveniens, soprattutto se nella forma di norma con efficacia retroattiva; o una pronuncia di questa Corte, in particolare se di illegittimità costituzionale; o una decisione di una Corte Europea; o una nuova regolamentazione nel diritto dell’Unione Europea; o altre analoghe sopravvenienze. Le quali tutte, ove concernenti una “questione dirimente” al fine della decisione della controversia, sono connotate da pari “gravità” ed “eccezionalità”, ma non sono iscrivibili in un rigido catalogo di ipotesi nominate: necessariamente debbono essere rimesse alla prudente valutazione del giudice della controversia.

Ciò può predicarsi anche per l’altra ipotesi prevista dalla disposizione censurata – l’assoluta novità della questione – che è riconducibile, più in generale, ad una situazione di oggettiva e marcata incertezza, non orientata dalla giurisprudenza. In simmetria è possibile ipotizzare altre analoghe situazioni di assoluta incertezza, in diritto o in fatto, della lite, parimenti riconducibili a “gravi ed eccezionali ragioni”.

Del resto la stessa ipotesi della soccombenza reciproca, che, concorrendo con quelle espressamente nominate dalla disposizione censurata, parimenti facoltizza il giudice della controversia a compensare le spese di lite, rappresenta un criterio nient’affatto rigido, ma implica una qualche discrezionalità del giudice che è chiamato ad apprezzare la misura in cui ciascuna parte è al contempo vittoriosa e soccombente, tanto più che la giurisprudenza di legittimità si va orientando nel ritenere integrata l’ipotesi di soccombenza reciproca anche in caso di accoglimento parziale dell’unica domanda proposta (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 22 febbraio 2016, n. 3438).

Si ha quindi che contrasta con il principio di ragionevolezza e con quello di eguaglianza (art. 3 Cost., comma 1) aver il legislatore del 2014 tenuto fuori dalle fattispecie nominate, che facoltizzano il giudice a compensare le spese di lite in caso di soccombenza totale, le analoghe ipotesi di sopravvenienze relative a questioni dirimenti e a quelle di assoluta incertezza, che presentino la stessa, o maggiore, gravità ed eccezionalità di quelle tipiche espressamente previste dalla disposizione censurata. La rigidità di tale tassatività ridonda anche in violazione del canone del giusto processo (art. 111 Cost., comma 1) e del diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24 Cost., comma 1) perchè la prospettiva della condanna al pagamento delle spese di lite anche in qualsiasi situazione del tutto imprevista ed imprevedibile per la parte che agisce o resiste in giudizio può costituire una remora ingiustificata a far valere i propri diritti.

Ciò orienta la pronuncia di illegittimità costituzionale che si va a rendere nel senso che parimenti le ipotesi illegittimamente non considerate dalla disposizione censurata possono identificarsi in quelle che siano riconducibili a tale clausola generale e che siano analoghe a quelle tipizzate nominativamente nella norma, nel senso che devono essere di pari, o maggiore, gravità ed eccezionalità. Le quali ultime quindi – l'”assoluta novità della questione trattata” ed il “mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti” – hanno carattere paradigmatico e svolgono una funzione parametrica ed esplicativa della clausola generale.

Va quindi dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 92 c.p.c., comma 2, nella parte in cui non prevede che il giudice, in caso di soccombenza totale, possa non di meno compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni.

L’obbligo di motivazione della decisione di compensare le spese di lite, vuoi nelle due ipotesi nominate, vuoi ove ricorrano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, discende dalla qenerale prescrizione dell’art. 111 Cost., comma 6, che vuole che tutti i provvedimenti giurisdizionali siano motivati.

17.- L’accoglimento della sollevata questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 3 Cost., comma 1, art. 24 Cost., comma 1 e art. 111 Cost., comma 1- indicati da entrambe le ordinanze di rimessione – comporta l’assorbimento della questione in riferimento agli ulteriori plurimi parametri indicati nella sola ordinanza del Tribunale ordinario di Reggio Emilia (art. 25 Cost., comma 1; artt. 102 e 104 Cost.; nonchè, per il tramite dell’art. 117 Cost., comma 1, l’art. 47 CDFUE e gli artt. 6 e 13 CEDU) perchè tutti orientati ad ottenere la medesima dichiarazione di illegittimità costituzionale.

Residua però il particolare profilo di censura che fa riferimento alla posizione del lavoratore come parte “debole” del rapporto controverso; censura che costituisce autonoma e distinta questione, ridimensionata ma non del tutto assorbita dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata.

… La questione è posta con riferimento al principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 Cost., comma 2, che esigerebbe – secondo il giudice rimettente – un trattamento differenziato, ma di vantaggio, per il lavoratore in quanto soggetto più “debole”, costretto ad agire giudizialmente, mentre il censurato art. 92 c.p.c., comma 2, avrebbe in concreto l’effetto opposto.

Sarebbero altresì violati, per il tramite dell’art. 117 Cost., comma 1, anche gli artt. 14 CEDU e 21 CDFUE, in punto di discriminazione fondata, rispettivamente, “sulla ricchezza” o su “ogni altra condizione” (art. 14 CEDU) o sul “patrimonio” (art. 21 CDFUE).

18.- La questione non è fondata.

Rileva in proposito da una parte il generale canone della par condicio processuale previsto dell’art. 111 Cost., comma 2 secondo cui “(o)gni processo si svolge (…) tra le parti, in condizioni di parità”. Per altro verso la situazione di disparità in cui, in concreto, venga a trovarsi la parte “debole” – ossia quella per la quale possa essere maggiormente gravoso il costo del processo, anche in termini di rischio di condanna al pagamento delle spese processuali, sì da costituire un’indiretta remora ad agire o resistere in giudizio – trova un possibile riequilibrio, secondo il disposto dell’art. 24 Cost., comma 3 in “appositi istituti” diretti ad assicurare “ai non abbienti (…) i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione”.

Nel binario segnato da questi due concorrenti principi costituzionali si colloca la disposizione censurata che, non considerando la situazione soggettiva, nel rapporto controverso, della parte totalmente soccombente, è ispirata al principio generale della par condicio processuale. Anche le due richiamate ipotesi che facoltizzano il giudice a compensare, in tutto o in parte, le spese di lite – le quali, a seguito della presente dichiarazione di illegittimità costituzionale, sono non più tassative, ma parametriche di altre analoghe ipotesi di “gravi e eccezionali ragioni” – rinviano comunque a condizioni prevalentemente oggettive e non già a situazioni strettamente soggettive della parte soccombente, quale l’essere essa la parte “debole” del rapporto controverso.

Finanche la L. 11 agosto 1973, n. 533 (Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie) – la quale pur conteneva disposizioni ispirate al favor per questo contenzioso al fine di agevolare la tutela giurisdizionale del lavoratore, quali quelle che prevedevano l’esenzione da ogni spesa o tassa (art. 10) ed il patrocinio a spese dello Stato per le parti non abbienti (art. 11) – non aveva derogato al disposto dell’art. 92 c.p.c., quanto alla condanna della parte totalmente soccombente al pagamento delle spese di lite. In ogni caso per il lavoratore operava la regola generale della condanna della parte totalmente soccombente al pagamento delle spese di lite, salva la facoltà per il giudice di compensarle sulla base della già richiamata clausola generale, all’epoca vigente, dei “giusti motivi”. Ed opera tuttora la stessa regola, salva la facoltà per il giudice di compensarle ove ricorrano, secondo la disciplina attualmente vigente, le due ipotesi nominativamente previste dall’art. 92 c.p.c., comma 2 oltre – a seguito della presente dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata – anche altre analoghe “gravi ed eccezionali ragioni”.

Solo per le controversie in materia previdenziale proposte nei confronti degli istituti di previdenza ed assistenza la L. n. 533 del 1973, art. 9 aveva sostituito l’art. 152 disp. att. c.p.c., disponendo che il lavoratore soccombente nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali non era assoggettato al pagamento di spese, competenze ed onorari a favore degli istituti di assistenza e previdenza, a meno che la pretesa non fosse manifestamente infondata e temeraria; disposizione questa, peraltro anticipata, in una portata più limitata, dal dettato della L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 57 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale) e successivamente estesa anche alle controversie di natura assistenziale dalla sentenza n. 85 del 1979.

Ma il collegamento dell’esonero con la condizione di “non abbiente” è stato dapprima prefigurato, come possibile, da questa Corte (sentenza n. 135 del 1987) e poi posto a fondamento della dichiarazione di illegittimità costituzionale del D.L. 19 settembre 1992, n. 384, art. 4, comma 2, (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonchè disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, in L. 14 novembre 1992, n. 438, per aver, tale disposizione, operato un’indiscriminata abrogazione dell’esonero stesso, trascurando qualunque distinzione tra abbienti e non abbienti (sentenza n. 134 del 1994); esonero poi ripristinato dal D.L. 30 settembre 2003, n. 269, art. 42, comma 11, (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella L. 24 novembre 2003, n. 326, in favore della parte soccombente che risulti “non abbiente”, essendo l’esonero condizionato all’integrazione di un requisito reddituale significativo della debolezza economica del ricorrente (ordinanza n. 71 del 1998).

Quindi da una parte la condizione soggettiva di “lavoratore” non ha mai comportato alcun esonero dall’obbligo di rifusione delle spese processuali in caso di soccombenza totale nelle controversie promosse nei confronti del datore di lavoro; d’altra parte nelle controversie di previdenza ed assistenza sociale, promosse nei confronti degli enti che erogano prestazioni di tale natura, la condizione di assicurato o beneficiario della prestazione deve concorrere con un requisito reddituale perchè, in via eccezionale, possa comportare siffatto esonero.

La ragione di tale eccezione in favore della parte soccombente “non abbiente”, e quindi “debolè, risiede nella diretta riferibilità della prestazione previdenziale o assistenziale, oggetto del contenzioso, alla speciale tutela prevista dall’art. 38 Cost., comma 2 che mira a rimuovere, o ad alleviare, la situazione di bisogno e di difficoltà dell’assicurato o dell’assistito. Invece la qualità di “lavoratore” della parte che agisce (o resiste), nel giudizio avente ad oggetto diritti ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, non costituisce, di per sè sola, ragione sufficiente – pur nell’ottica della tendenziale rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale alla tutela giurisdizionale (art. 3 Cost., comma 2) – per derogare al generale canone di par condicio processuale quanto all’obbligo di rifusione delle spese processuali a carico della parte interamente soccombente. Di ciò non si è dubitato in riferimento all’art. 92 c.p.c., comma 2, nel testo vigente fino al 2009; ma lo stesso può affermarsi nell’attuale formulazione della medesima disposizione, quale risultante dalla presente dichiarazione di illegittimità costituzionale. Dalla quale comunque consegue che la circostanza – segnalata dal giudice rimettente – che il lavoratore, per la tutela di suoi diritti, debba talora promuovere un giudizio senza poter conoscere elementi di fatto, rilevanti e decisivi, che sono nella disponibilità del solo datore di lavoro (cosiddetto contenzioso a controprova), costituisce elemento valutabile dal giudice della controversia al fine di riscontrare, o no, una situazione di assoluta incertezza in ordine a questioni di fatto in ipotesi riconducibili alle “gravi ed eccezionali ragioni” che consentono al giudice la compensazione delle spese di lite.

19.- Nè la ritenuta non fondatezza della questione di legittimità costituzionale è revocata in dubbio dai citati parametri sovranazionali interposti, che vietano trattamenti discriminatori basati sul censo.

La considerazione che sovente il contenzioso di lavoro possa presentarsi in termini sostanzialmente diseguali, nel senso che il lavoratore ricorrente, che agisca nei confronti del datore di lavoro, sia parte “debole” del rapporto controverso, giustifica norme di favore su un piano diverso da quello della regolamentazione delle spese di lite, una volta che quest’ultima è resa meno rigida a seguito della presente dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 92 c.p.c., comma 2 con l’innesto della clausola generale delle “gravi ed eccezionali ragioni”. Si sono già ricordate le disposizioni di favore contenute nella L. n. 533 del 1973, artt. 10 e 11 (peraltro successivamente abrogati); ad esse può aggiungersi anche il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 3, recante “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)”, il quale prevede che il contributo unificato per le spese di giustizia è ridotto alla metà per le controversie individuali di lavoro o concernenti rapporti di pubblico impiego.

Più in generale può dirsi che è rimesso alla discrezionalità del legislatore ampliare questo favor praestatoris, ad esempio rimodulando, in termini di minor rigore o finanche di esonero, il previsto raddoppio di tale contributo in caso di rigetto integrale, o di inammissibilità, o di improcedibilità dell’impugnazione (D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater).

20.- In conclusione risulta non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, mirante ad innestare nella disposizione censurata, come deroga alla regola secondo cui la parte soccombente è condannata alla rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa – oltre alle ipotesi nominativamente previste dalla disposizione stessa, come integrate dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale nei termini di cui sopra al punto 16. – un’ulteriore deroga centrata sulla natura della lite, perchè controversia di lavoro, ed a favore solo del lavoratore che agisca in giudizio nei confronti del datore di lavoro”);

pertanto, il ricorso principale va respinto, mentre va accolto, nei sensi di cui sopra, quello incidentale, con conseguente rinvio a tale ultimo riguardo alla Corte d’Appello, che all’esito provvederà anche al regolamento delle spese relative a questo giudizio di legittimità;

sussistono, infine, anche i presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, atteso l’esito interamente negativo della qui proposta impugnazione principale, ciò che invece non è per quella incidentale, siccome accolta (a nulla rilevando, invero, per quanto di competenza di questa organo giudicante, l’ammissione – comunque in via provvisoria ed anticipata – al patrocinio a spese dello Stato, deliberata dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce in data 15-10-2014 sull’istanza pervenuta il 31 luglio 2014 nell’interesse di G.O.M., per cui dovrà avvenire anche il definitivo accertamento del diritto al beneficio da parte del competente giudice di merito in sede di liquidazione degli onorari spettanti all’avvocato incaricato dal diretto interessato – cfr. Cass. I civ. n. 22616 del 02/12/2004, secondo cui in tema di patrocinio a spese dello Stato, in base al regime di cui al D.Lgs. n. 113 del 2002, deve ritenersi che la competenza sull’istanza e sul procedimento di liquidazione degli onorari del difensore per il ministero prestato nel giudizio di cassazione spetti al giudice di rinvio o a quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato – a seguito dell’esito del giudizio di cassazione – così come prevedeva la norma della L. n. 217 del 1990, art. 15-quattuordecies atteso che la circostanza che nel D.Lgs. n. 113 del 2002, art. 82 – il cui testo viene riportato nel D.P.R. n. 115 del 2002, art. 82 – la previsione di quella norma non sia stata espressamente riprodotta – al contrario di quanto risulta nell’art. 83, relativo alla liquidazione del compenso per l’attività agli ausiliari ed ai consulenti tecnici di parte-deve ritenersi frutto – in base ad un’interpretazione ragionevole e costituzionalmente corretta- di un mero errore di scomposizione dello stesso art. 15-quattuordecies, che nella redazione del testo unico, di cui al citato D.Lgs. n. 113, risulta appunto distinto nelle due disposizioni dell’art. 82 e dell’art. 83, delle quali si impone una lettura unitaria. In senso analogo v. anche Cass. I civ., sentenza n. 3122 del 16/02/2005, pressochè conforme Cass. I civ. n. 16986 del 25/07/2006. Cfr. pure Cass. III civ., ordinanza n. 11028 del 13/05/2009, secondo la quale la competenza sulla liquidazione degli onorari al difensore per il ministero prestato nel giudizio di cassazione spetta, ai sensi del Decreto n. 115 del 2002, art. 83 come modificato dalla L. 24 febbraio 2005, n. 25, art. 3 al giudice di rinvio, oppure a quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato a seguito dell’esito del giudizio di cassazione. Nel caso di cassazione e decisione nel merito, la competenza spetta a quello che sarebbe stato il giudice di rinvio ove non vi fosse stata decisione nel merito. Conforme Cass. I civ. n. 23007 del 12/11/2010.

Invero, assume rilievo preliminare che il versamento, per il ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater costituisce oggetto di un’ obbligazione che sorge ex lege per effetto del rigetto integrale dell’impugnazione, ovvero della dichiarazione di improcedibilità o di inammissibilità della stessa -“Quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo ad.za unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso” – dunque presupposti esclusivamente processuali, di cui il giudice deve dare atto, in base all’univoco testo della norma, perciò limitatamente alle ipotesi ivi contemplate di esito interamente negativo della proposta impugnazione. Trattasi, infatti, di obbligazione di natura tributaria dell’obbligazione, che sorge direttamente dalla legge al verificarsi del relativo presupposto, rispetto al quale il provvedimento possiede mera funzione ricognitiva. Il presupposto, in altri termini, è solo quello dianzi menzionato e risultante dalla norma, la quale esige dunque dal giudice unicamente l’attestazione dell’avere adottato una decisione di inammissibilità o improcedibilità o di reiezione integrale dell’impugnazione, anche incidentale, competendo poi in via esclusiva all’Amministrazione di valutare se, nonostante l’attestato tenore della pronuncia, vi sia in concreto, a causa di fattori soggettivi, la possibilità di esigere la doppia contribuzione. Qualora l’Amministrazione constati la prenotazione a debito – come nel caso del patrocinio a spese dello Stato -, le ulteriori deliberazioni rimangono di sua spettanza, tanto è vero che solo contro di esse può estrinsecarsi – se del caso – la reazione della parte, mediante i mezzi di tutela avverso l’eventuale illegittima pretesa di riscossione. Cfr. parimenti Cass. III civ. n. 13055 del 25/05/2018, secondo cui, infatti, il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater esige dal giudice unicamente l’attestazione dell’avere adottato una decisione di inammissibilità o improcedibilità o di “respingimento integrale” dell’impugnazione, anche incidentale, competendo in via esclusiva all’Amministrazione valutare se, nonostante l’attestato tenore della pronuncia, spetti in concreto la doppia contribuzione. Ne consegue che, qualora l’Amministrazione constati l’esenzione o la prenotazione a debito – come nell’ipotesi di ammissione al patrocinio a spese dello Stato – le ulteriori deliberazioni rimangono di sua spettanza ed è contro di esse che potrà estrinsecarsi la reazione della parte, mediante i mezzi di tutela avverso l’eventuale illegittima pretesa di riscossione, senza che l’attestazione del giudice civile possa leggersi come di debenza della doppia contribuzione, non avendo essa tale oggetto.

Del resto, come sì evince dalla circolare 8-7-2015 appositamente emanata dal Ministero della Giustizia, gli uffici giudiziari sono ovviamente tenuti a dare esecuzione al provvedimento del giudice che, nel definire il procedimento d’impugnazione, abbia dato atto dell’obbligo di pagamento dell’ulteriore importo pari a quello, ove dovuto, per il ricorso. Nei procedimenti con la parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, ogni spesa, anticipata o prenotata a debito, va poi annotata nei registri previsti dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 161 come individuati dal D.M. 28 maggio 2003, e nel correlato foglio notizie ex art. 280 D.P.R. citato. Ne deriva, poi, che nessuna azione di recupero può essere mai esperita nei confronti della parte ammessa al patrocinio – ciò che risulta pure riconosciuto dallo stesso Ministero della Giustizia con circolare del 7.2.2011 – La prassi ministeriale postula, in questa prospettiva, che, alla definizione della causa, “i funzionari addetti alla tenuta del foglio notizie” debbono curare l’annotazione delle spese ed espletare il successivo controllo ai fini del recupero, provvedendo quindi alla relativa chiusura ed attestando in calce ad essa la presenza o assenza di spese da recuperare. Invero “la sottoscrizione del foglio notizie costituisce assunzione di responsabilità”. La conseguenza è che la cancelleria deve dare esecuzione al provvedimento giurisdizionale, limitando le attività alla mera annotazione dell’importo nel foglio notizie e nel registro. E tuttavia, dopo tale incombente, il foglio notizie, ove perdurino le condizioni che hanno dato origine all’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, va semplicemente chiuso con la dicitura che non vi è titolo per il recupero, considerato che il recupero nei confronti della parte ammessa al patrocinio è esclusivamente previsto nelle ipotesi di revoca del patrocinio o nelle ipotesi normativamente previste di rivalsa D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 134).

PQM

la Corte RIGETTA IL RICORSO PRINCIPALE. ACCOGLIE QUELLO INCIDENTALE, in relazione al quale CASSA in parte qua l’impugnata sentenza, per cui RINVIA alla Corte d’Appello di Lecce, in diversa composizione, anche per le spese di questo giudizio di legittimità, oltre che per il regolamento delle spese del giudizio d’appello e di quello di rinvio.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del solo ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello (ove dovuto, nei sensi di cui alla motivazione che precede) per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 5 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2020

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