Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4180 del 16/02/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 16/02/2017, (ud. 15/12/2016, dep.16/02/2017),  n. 4180

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso 7925/2016 proposto da:

Z.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ILLIRIA 19,

presso lo studio dell’avvocato ROSSELLA ZAINA, che lo rappresenta e

difende giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO;

– controricorrente –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositato il

29/09/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/12/2016 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO.

Fatto

FATTO E DIRITTO

La Corte d’Appello di Perugia con decreto del Consigliere delegato del 13 maggio 2015 dichiarava improponibile il ricorso proposto da Z.D. con il quale era richiesta la condanna del Ministero della Giustizia all’equa riparazione per l’irragionevole durata del procedimento civile di opposizione a decreto ingiuntivo svoltosi dinanzi al Giudice di Pace di Civitavecchia, in primo grado, ed in appello dinanzi al Tribunale della medesima città dal 29 aprile 2006 al 23/10/2014, allorquando il giudizio di appello veniva cancellato dal ruolo con la contestuale dichiarazione di estinzione.

Osservava il decreto che il ricorso era stato presentato prima del decorso del termine di riassunzione di cui all’art. 307 c.p.c., comma 1, e che non risultava quindi che la decisione che aveva definito il giudizio fosse irretrattabile, come richiesto dalla L. n. 89 del 2001, art. 4.

A seguito di opposizione, la Corte di Appello, in composizione collegiale, con decreto del 29/09/2015, confermava il decreto opposto, rilevando che il giudizio presupposto era iniziato nel 2006, e quindi prima della modifica di cui all’art. 181 c.p.c., ad opera del D.L. n. 112 del 2008, cosicchè non poteva trovare applicazione la previsione normativa sopravvenuta che consente, in caso di cancellazione della causa dal ruolo per mancata comparizione delle parti, anche di adottare il provvedimento di estinzione del giudizio.

Nella fattispecie quindi il Tribunale aveva solo disposto la cancellazione della causa dal ruolo, e conseguentemente il termine semestrale per la proponibilità della domanda di equo indennizzo, non poteva decorrere dalla data della cancellazione, occorrendo altresì attendere, ai fini dell’estinzione, il decorso del termine stabilito dall’art. 307 c.p.c. per la eventuale riassunzione.

Per la cassazione di questo decreto la ricorrente ha proposto ricorso affidato ad un motivo.

Il Ministero della Giustizia ha resistito con controricorso.

Con l’unico motivo di ricorso si denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 181, 307 e 309 c.p.c., in relazione al principio della cd. apparenza e dell’affidamento, nonchè della qualificazione del provvedimento data dal giudice.

Si osserva che in realtà il Tribunale con il provvedimento del 23 ottobre 2014 non si era limitato a disporre la cancellazione della causa dal ruolo, ma aveva altresì ordinato l’estinzione del giudizio.

Trattasi pertanto di un provvedimento avente natura definitiva che determina l’estinzione immediata, non apparendo quindi possibile invocare la decorrenza altresì del termine per la riassunzione.

A fronte di tale formale contenuto della decisione, i giudici chiamati a decidere sull’equo indennizzo non potevano sovrapporre la loro valutazione in tema di applicazione della novella dell’art. 181 c.p.c., dovendo avere invece prevalenza la qualificazione data dal giudice a quo al proprio provvedimento, ed all’affidamento insorto nelle parti in ragione dello stesso contenuto.

Ne consegue che, essendo stata dichiarata l’estinzione, è esclusa la possibilità della riassunzione, e che quindi la domanda avanzata ex L. n. 89 del 2001 è proponibile.

Effettivamente deve reputarsi erronea la valutazione compiuta dalla Corte d’Appello in punto di pretesa inapplicabilità alla fattispecie della nuova disciplina di cui all’art. 181 c.p.c., come introdotta dal D.L. n. 11 del 2008, trattandosi di considerazioni che, sebbene corrette in punto di diritto, non si confrontano con quello che è l’effettivo tenore del provvedimento adottato dal Tribunale di Civitavecchia, il quale, facendo erronea applicazione delle norme de quibus, non si è limitato alla sola cancellazione della causa dal ruolo, ma ha anche formalmente dichiarato estinto il giudizio.

Tuttavia, e sebbene meriti adesione l’affermazione di parte ricorrente secondo cui in tal caso debba darsi prevalenza alla qualificazione formale del provvedimento offerta dal giudice del giudizio presupposto, non appaiono condivisibili le conclusioni che lo stesso ricorrente intende trarre dal fatto che siano state congiuntamente disposte la cancellazione e l’estinzione del giudizio.

Ed, invero deve richiamarsi il costante orientamento di questa Corte per il quale (cfr. da ultimo Cass. n. 17522/2015) l’ordinanza del giudice di estinzione del processo ove adottato dal tribunale in composizione monocratica, è assimilabile alla sentenza del tribunale che, in composizione collegiale e ai sensi dell’art. 308 c.p.c., comma 2, respinge il reclamo contro l’ordinanza di estinzione del giudice istruttore, sicchè ha natura sostanziale di sentenza e deve essere impugnato (nella fattispecie decisa dal precedente citato) con l’appello (conf. Cass. 20631/2011; Cass. n. 22917/2010).

Orbene poichè nel caso in esame il Tribunale operava pacificamente come giudice monocratico (trattasi di giudizio di appello avverso sentenza del giudice di pace), il provvedimento di estinzione, ancorchè adottato con la forma dell’ordinanza, ha, per quanto detto, sostanza di sentenza, sicchè la sua definitività è condizionata in ogni caso al decorso del termine previsto per la sua impugnazione con ricorso in cassazione, e cioè, in assenza di allegazione della sua notifica, del termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c. (che ratione temporis è ancora quello annuale).

La conseguenza sarebbe quindi, previa correzione della motivazione del provvedimento impugnato, che dovrebbe essere confermata la dichiarazione di improponibilità del ricorso proposto dallo Z..

Tuttavia deve a tal riguardo ribadirsi quanto già espresso da questa Corte in altri provvedimenti, circa il fondato dubbio di compatibilità costituzionale della norma in esame.

Effettivamente deve reputarsi che nel ritenere che la proponibilità della domanda di equa riparazione sia esclusa prima del passaggio in giudicato della sentenza che ha definito il giudizio presupposto, la Corte territoriale si sia conformata alla giurisprudenza di questa Suprema Corte.

Sul punto, vale la pena di ricordare che l’originario tessuto normativo della L. n. 89 del 2001 (c.d. legge Pinto) ha subito significative modifiche ad opera del D.L. n. 83 del 2012, art. 55, che ha – tra l’altro – sostituito proprio la L. n. 89 del 2001, art. 4.

Infatti, mentre l’originario testo di tale ultima disposizione prevedeva che “La domanda di riparazione può essere proposta durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il medesimo procedimento, è divenuta definitiva”, ora – a seguito della riforma del 2012 – l’art. 4 della legge Pinto stabilisce che “La domanda di riparazione può essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva”.

Seppure sul piano puramente letterale il nuovo testo non esclude espressamente la proponibilità della domanda di equa riparazione durante la pendenza del giudizio presupposto, tuttavia alla esclusione di tale proponibilità si è pervenuti a seguito di un’interpretazione fondata sul criterio sistematico e sull’intenzione del legislatore; valorizzando il fatto che la riforma del 2012 ha condizionato l’an e il quantum del diritto all’indennizzo alla definizione del giudizio, prevedendo anche una serie di ipotesi di esclusione del diritto all’indennizzo dipendenti dalla condotta processuale della parte e financo dall’esito del giudizio (condanna del soccombente a norma dell’art. 96 cod. proc. civ.).

Si è così affermato, nella giurisprudenza di questa Corte suprema costituente ormai “diritto vivente”, che, in tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, nel regime introdotto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, la proponibilità della domanda di indennizzo è preclusa dalla pendenza del giudizio presupposto (Sez. 9 Sentenza n. 19479 del 16/09/2014, Rv. 632159), dovendo ritenersi che il dies a quo, da cui computare il termine di sei mesi previsto a pena di decadenza per la proposizione della relativa domanda, è segnato dalla definitività del provvedimento conclusivo del procedimento nell’ambito del quale la violazione si assume consumata, definitività che va collocata al momento della scadenza del termine previsto per proporre l’impugnazione ordinaria (Sez. 6 – 1, Sentenza n. 13324 del 26/07/2012, Rv. 623537; Sez. 6 – 2, Sentenza n. 21859 del 05/12/2012, Rv. 624426) ovvero al momento del deposito della decisione della Corte di cassazione che rigetta o dichiara l’inammissibilità del ricorso, determinando così il passaggio in giudicato della sentenza impugnata (Sez. 6 – 2, Sentenza n. 21863 del 05/12/2012, Rv. 624239).

La conclusione secondo cui la proponibilità della domanda di indennizzo è preclusa, durante la pendenza del giudizio nel cui ambito la violazione della ragionevole durata del processo si assume essersi verificata è stata condivisa dalla Corte costituzionale con la sentenza 25 febbraio 2014 n. 30.

Il giudice delle leggi, nel vagliare la questione di legittimità costituzionale del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 55, comma 1, lett. d) (convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, art. 1, comma 1) in riferimento all’art. 3 Cost., art. 111 Cost., comma 2, e art. 117 Cost., comma 1, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ha ritenuto sussistente il denunciato vulnus delle norme costituzionali, come integrate dalle norme della CUIDU in forza del parametro costituzionale di cui all’art. 117 Cost. (nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali), ritenendo che il differimento della esperibilità del ricorso alla definizione del procedimento in cui il ritardo è maturato ne pregiudichi l’effettività anche alla stregua del parametro di cui all’art. 13 CEDU. Ha tuttavia ritenuto che l’intervento additivo invocato dal rimettente – consistente sostanzialmente in un’estensione della fattispecie relativa all’indennizzo conseguente al processo tardivamente concluso a quella caratterizzata dalla pendenza del giudizio – non fosse ammissibile, “sia per l’inidoneità dell’eventuale estensione a garantire l’indennizzo della violazione verificatasi in assenza della pronuncia irrevocabile, sia perchè la modalità dell’indennizzo non potrebbe essere definita a rime obbligate a causa della pluralità di soluzioni normative in astratto ipotizzabili a tutela del principio della ragionevole durata del processo”.

La Corte costituzionale, con la richiamata sentenza n. 30 del 2014, ha pertanto invitato il legislatore ad intervenire per risolvere, nell’esercizio della discrezionalità che gli compete, il vulnus costituzionale riscontrato, concludendo tuttavia che “non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al problema individuato nella presente pronuncia”.

A seguito di tale pronuncia, questa Suprema Corte ha prima affermato che la L. n. 89 del 2001, art. 4 – laddove subordina la proponibilità della domanda di equa riparazione per l’irragionevole durata di un processo alla condizione della sua preventiva definizione – non può essere disapplicato dal giudice in forza della sentenza costituzionale n. 30 del 2014, da questa evincendosi che la norma resta legittima, sia pure ad tempus, in attesa della sua riscrittura da parte del legislatore (Sez. 6 – 2, Sentenza n. 20463 del 12/10/2015, Rv. 636597); successivamente, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 89 del 2001, art. 4, ritenendo che il legislatore, con la L. 28 dicembre 2015, n. 208 (art. 1, comma 777), introducendo un sistema di rimedi preventivi diretti a impedire la stessa formazione del ritardo processuale (artt. 1-bis e 1-ter della legge Pinto), avesse aderito all’invito rivoltogli dalla Corte costituzionale con la richiamata sentenza n. 30 del 2014 (Sez. 6 – 2, Sentenza n. 13556 del 01/07/2016, Rv. 640328).

Orbene, il Collegio, come già ritenuto in precedenti occasioni, dissente da tale ultima decisione e ritiene – invece – che, con la legge n. 208 del 2015, il legislatore non abbia risolto il problema oggetto del monito rivoltogli dalla Corte costituzionale.

Infatti, il sistema di rimedi preventivi introdotto dalla recente legge del 2015 è volto a prevenire la irragionevole durata del processo; esso, tuttavia, non sfiora il problema della effettività della tutela indennitaria una volta che l’irragionevole durata del procedimento si sia verificata, come è evidenziato dal fatto che la nuova normativa ha lasciato inalterato il testo della L. n. 89 del 2001, art. 4 (come sostituito del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 55, comma 1, lett. d)), che detta i termini di proponibilità della domanda di equa riparazione.

In particolare, il Collegio ritiene che, anche a seguito della L. n. 208 del 2015, è rimasto irrisolto il problema del differimento dell’esperibilità del ricorso alla definizione del procedimento presupposto; problema che presenta perduranti profili di illegittimità costituzionale del vigente testo della L. n. 89 del 2001, art. 4 – in rapporto agli artt. 3 e 24 Cost., art. 111 Cost., comma 2, e art. 117 Cost., comma 1 – nel momento in cui si risolve nella definitiva inammissibilità della domanda proposta durante la pendenza del procedimento presupposto, pur quando, nelle more, il provvedimento che ha definito quest’ultimo sia passato, in cosa giudicata.

Sul punto, non va sottaciuto che l’adeguamento dell’impianto normativo della legge Pinto alle norme costituzionali e a quelle della CEDU non implica necessariamente la messa in discussione del principio – posto a base della detta legge – per cui l’equa riparazione può essere riconosciuta solo a seguito della conclusione del procedimento presupposto. Anzi, può rilevarsi come risultano del tutto ragionevoli e, per certi versi, costituzionalmente obbligate le scelte del legislatore di prevedere ipotesi di esclusione dell’indennizzo (art. 2, comma 2-qinquies) collegate alla colpevole condotta della parte, come tali verificabili solo avuto riguardo all’esito definitivo del procedimento; e d’altra parte, sarebbe difficile non intravedere una lesione del parametro costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost., comma 2) ove la normativa relativa all’equo indennizzo dovesse consentire la proposizione di plurime domande in corrispondenza del numero dei gradi o delle fasi del medesimo procedimento presupposto, con un effetto di moltiplicazione delle controversie che potrebbe sfociare persino in quel deprecabile fenomeno che la dottrina definisce “abuso del processo”.

Ciò, tuttavia, non può significare che la proposizione della domanda di equo indennizzo in pendenza del giudizio presupposto comporti la definitiva inaccoglibilità della pretesa indennitaria; essendo in tal caso evidente come la L. n. 89 del 2001, art. 4, come sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 55, comma 1, lett. d), come interpretato nel diritto vivente, risulti difficilmente compatibile con gli artt. 3 e 24 Cost., art. 111 Cost., comma 2, e art. 117 Cost., comma 1, quest’ultimo in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 della CEDU.

In altre parole, la previsione che la domanda di equo indennizzo possa validamente proporsi solo dopo il passaggio in giudicato del provvedimento che ha definito il giudizio presupposto non può tradursi – sul piano della legittimità costituzionale – nella definitiva inammissibilità della domanda erroneamente proposta prima di tale passaggio in giudicato.

Nella specie, la ricorrente, avendo proposto domanda di equo indennizzo prima che passasse il giudicato il provvedimento che aveva definito il giudizio presupposto, si è vista precludere del tutto l’accesso alla tutela indennitaria. Risulta perciò sussistente l’evidenziato vulnus – costituzionale e risulta rilevante la relativa questione di legittimità costituzionale, che va nuovamente sottoposta al giudice delle leggi, stante il perdurante inadempimento del legislatore al monito impartito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 30 del 2014.

In definitiva, va dichiarata rilevante e non manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 4, come sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 55, comma 1, lett. d), (Misure urgenti per la crescita del Paese) convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, art. 1, comma 1, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., art. 111 Cost., comma 2, e art. 117 Cost., comma 1, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, e art. 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la L. 4 agosto 1955, n. 848, nella parte in cui condiziona la proponibilità della domanda di equa riparazione alla previa definizione del procedimento presupposto.

Ai sensi della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23, alla dichiarazione di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, segue la sospensione del giudizio e l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.

PQM

La Corte Suprema di Cassazione visti l’art. 134 Cost., e L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23;

dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., art. 111 Cost., comma 2, e art. 117 Cost., comma 1, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, e art. 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la L. 4 agosto 1955, n. 848, la questione di legittimità costituzionale della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 4, come sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 55, comma 1, lett. d) (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, art. 1, comma 1;

dispone la sospensione del presente giudizio;

ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti del giudizio di cassazione, al pubblico ministero presso questa Corte e al Presidente del Consiglio dei ministri;

ordina, altresì, che l’ordinanza venga comunicata dal cancelliere ai Presidenti delle due Camere del Parlamento;

dispone l’immediata trasmissione degli atti, comprensivi della documentazione attestante il perfezionamento delle prescritte notificazioni e comunicazioni, alla Corte costituzionale.

Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2017

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