Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 41792 del 28/12/2021

Cassazione civile sez. III, 28/12/2021, (ud. 17/11/2021, dep. 28/12/2021), n.41792

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 22518/2019 R.G. proposto da:

Asl Roma “(OMISSIS)”, rappresentata e difesa dall’Avv. Vito Iorio, e

dall’Avv. Rocco Crincoli, con domicilio eletto presso lo studio del

primo in Roma, Via Scire’, n. 15;

– ricorrente –

contro

Unicredit Factoring S.p.a., rappresentata e difesa dall’Avv.

Francesco Pilato (detto Franco), con domicilio eletto presso il suo

studio in Roma, Via F. Cesi n. 44;

– controricorrente –

e nei confronti di:

F.E.N.I.G. S.r.l., con socio unico (“Fenig”), rappresentata e difesa

dall’Avv. Rosalba Meli, e dall’Avv. Edoardo Panunzio, con domicilio

eletto presso lo studio della prima in Roma, Viale Pasteur, n. 5;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza della Corte di appello di Milano, n. 2141/2019,

pubblicata il 16 maggio 2019.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 17 novembre

2021 dal Consigliere Dott. Emilio Iannello.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con decreto n. 31645/2007 il Tribunale di Milano ingiunse alla Asl Roma (OMISSIS) (ora Asl Roma (OMISSIS)) di pagare in favore di Unicredit Factoring S.r.l. l’importo di Euro 12.408.497,18, oltre interessi e spese, richiesto da quest’ultima in virtù di cessione in suo favore operata – con contratto del 23 maggio 2006, modificato con successivo atto del 23 gennaio 2007 – dei crediti maturati nei confronti dell’azienda sanitaria dalla Fenig S.r.l. per prestazioni medico-sanitarie erogate in regime di convenzione negli anni 2005 e 2006.

L’ingiunta propose opposizione eccependo l’intervenuto pagamento dei crediti riferiti alle prestazioni rese nel 2005 e, quanto alle altre, l’infondatezza della pretesa per mancata certificazione.

Nel prosieguo le parti concordemente attestarono l’intervenuto pagamento della ulteriore somma di Euro 7.080.359,76 e l’opposta dichiarò che, pertanto, la pretesa doveva intendersi limitata al residuo importo di Euro 4.521.418,49, oltre interessi.

Il tribunale – dato atto dell’integrale pagamento delle prestazioni rese nel 2005 e del pagamento di diverse fatture relative al 2006 – in accoglimento dell’opposizione revocò il decreto ingiuntivo e rigettò per intero la domanda di Unicredit, ritenendo fondata l’eccezione di inesistenza del credito in capo alla cessionaria, in mancanza di prova della certificazione dei crediti.

2. Interpose gravame Unicredit e nel giudizio spiegò intervento volontario la cedente Fenig S.r.l., chiedendo, così come l’Asl appellata, il rigetto dell’appello e la conferma integrale della sentenza impugnata.

Con sentenza n. 4040/2016 del 27 ottobre 2016 la Corte d’appello di Milano, respinta l’eccezione di inammissibilità dell’intervento, rigettò l’appello ritenendo, conformemente al primo giudice, che, non avendo l’opposta (appellante) dato prova della certificazione dei residui crediti non pagati, per essi non si poteva considerare operante la cessione.

3. Unicredit Factoring S.p.a. impugnò per revocazione questa sentenza, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2 e 3, in quanto asseritamente effetto del dolo delle altre parti in suo danno e perché basata su prove false e su circostanze smentite dalla decisiva documentazione conosciuta dalla parte impugnante solo in data 6 dicembre 2016.

Dedusse di essere infatti venuta a sapere in tale data, dopo la pubblicazione della sentenza d’appello, grazie ad una comunicazione di un funzionario dell’Asl e a una successiva richiesta di accesso agli atti, che l’azienda sanitaria non solo aveva certificato, ma aveva anche pagato alla casa di cura Fenig, in pendenza del contenzioso con Unicredit, le fatture dell’anno 2006 recanti crediti oggetto di cessione e ciò previo rilascio da parte di Fenig di una dichiarazione liberatoria mendace, in cui questa attestava che i crediti erano “nella propria esclusiva ed incondizionata titolarità”.

4. Con sentenza n. 2141/2019, pubblicata il 16 maggio 2019, la Corte d’appello di Milano, ritenuta la tempestività del mezzo straordinario di impugnazione e ritenuta la sussistenza dell’ipotesi di cui all’art. 395 c.p.c., n. 1 (dolo), ha revocato la sentenza d’appello e, in sede rescissoria, in parziale accoglimento dell’appello di Unicredit, confermata la revoca del decreto ingiuntivo, ha condannato l’Asl Roma (OMISSIS) a pagare in suo favore la somma di Euro 4.003.332,80, oltre agli interessi ex D.Lgs. n. 231 del 2002, “a decorrere dalla data della certificazione emessa dalla Asl in relazione a ogni singolo credito ceduto sino al saldo effettivo”; ha inoltre dichiarato inammissibili l’intervento volontario di Fenig nel giudizio di appello e la domanda subordinata nei confronti di questa proposta da Unicredit.

4.1. In motivazione, per quanto qui interessa, a fondamento della pronuncia rescindente ha in sintesi osservato che:

– in data 6 dicembre 2016 l’Asl comunicò a Unicredit che (si cita dalla testuale trascrizione contenuta in sentenza): “le fatture anno 2006 relative alla richiesta del 16 novembre 2016, per un totale di Euro 4.636.342,60 sono state liquidate dalla UOC Accreditamento con provvedimento n. 1108 del 15 maggio 2013 per Euro 4.003.332,80, in ottemperanza al provvedimento commissariale ad acta in esecuzione alla sentenza n. 7180/2012 del Tar Lazio. Tali fatture sono state certificate e pagate con mandati nn. 1619 e 1620 del 6 settembre 2013 alla casa di Cura Fenig sulla base della dichiarazione liberatoria da loro sottoscritta rilasciata ai sensi del D.L. n. 35 del 2013”;

– le fatture menzionate nell’allegato alla comunicazione erano quelle oggetto del contratto di cessione e del contenzioso di cui alla sentenza impugnata: nn. 431, 881, 1445, 1843, 2205, 2719 del 2006;

– per tutto l’arco del giudizio di secondo grado, l’azienda sanitaria aveva invece negato, sino alla memoria di replica e con evidente malafede processuale, l’intervenuta certificazione dei crediti ed aveva conseguentemente continuato a negare che le fatture rientrassero nel perimetro della cessione e che Unicredit fosse titolata ad azionarle; aveva persino sottaciuto di avere versato (in data 6 settembre 2013) l’ingente somma certificata a un soggetto non titolato;

– proprio la mancata certificazione dei residui crediti relativi alle fatture del 2006, aveva costituito la ragione giustificativa del confermato rigetto della domanda di Unicredit;

– Fenig, dal canto suo, aveva contestato per tutto il giudizio di secondo grado (e finanche nel giudizio di revocazione) la titolarità del credito in capo a Unicredit e, fatto gravissimo, aveva dolosamente occultato di avere ricevuto l’ingente versamento relativo alle fatture cedute;

– nella memoria di replica depositata il 10/10/2016 Fenig aveva laconicamente e genericamente dichiarato che dopo l’instaurazione del giudizio di appello era intervenuta la certificazione dei crediti di cui alle fatture oggetto del giudizio e si era spinta persino a sostenere che “verosimilmente il pagamento delle somme (era avvenuto, n.d.r.) in favore della cessionaria”;

– la descritta condotta processuale di entrambe le parti integra dolo revocatorio;

– infatti, “(l’)Azienda Ospedaliera (sic) non ha posto in essere una mera attività di difesa consentita, limitandosi a non allegare fatti a sé sfavorevoli, ma ha tenuto una condotta processuale deliberatamente fraudolenta, concretantesi in artifici e raggiri volti a determinare l’errore del giudice, avendo tenuto nascosto ad arte, e per anni, unitamente all’altra parte intervenuta volontariamente (e, peraltro, del tutto inammissibilmente, alla stregua dell’art. 344 c.p.c.) nel giudizio di appello ad adiuvandum l’Asl con essa collusa, circostanze decisive, facenti parte di un macchinazione volta all’occultamento dell’indebito, ingente versamento in danno di Unicredit a un altro soggetto non titolato;

– “non è qui in discussione il principio nemo tenetur se detegere, perché nel caso di specie l’occultamento del completamento dell’iter certificativo e del successivo versamento ad un soggetto non legittimato, in luogo del titolato Unicredit, non è espressione del diritto di difesa, ma è condotta essenziale di una macchinazione fraudolenta, diretta a trarre in inganno la controparte e il giudice, al fine di danneggiare dolosamente un soggetto per favorirne un altro. La condotta è tanto più grave se si considera la natura pubblica dell’ente, gravata da obblighi di gestione e di rendicontazione trasparente e diligente (anche alla stregua dei fondamentali doveri costituzionali di cui all’art. 97 Cost.), nonché l’indebita distrazione di fondi pubblici”;

– “sussistono quindi tutti gli elementi richiesti per l’integrazione del dolo revocatorio: l’attività deliberatamente fraudolenta, giudiziale o stragiudiziale (nel caso di specie entrambe), che provoca i suoi effetti nel processo attraverso la manipolazione di fatti o atti di causa, tale da produrre su di essi un accertamento contrario a quello che si sarebbe formato in assenza della frode; sotto il profilo soggettivo il dolo che inganna non solo l’altra parte, menomandone le capacità di difesa nel giudizio, ma anche il giudice quale autore della sentenza; sotto il profilo oggettivo, il necessario rapporto di causa/effetto tra il dolo posto in essere e la sentenza resa, nel senso che l’elemento viziato dal dolo corrisponde a quello in base al quale si è formata la decisione (Cass. 3460/2015; Cass. 2398/2015; Cass. 12975/2014)”;

– l’accoglimento del motivo di revocazione di cui dell’art. 395 c.p.c., n. 1, determina l’assorbimento degli altri motivi di revocazione dei quali comunque può considerarsi fondato quello riferito all’ipotesi di cui dell’art. 395 c.p.c., n. 3, considerate:

a. l’esistenza di un documento, preesistente alla sentenza impugnata, ma scoperto dopo la sua pronuncia;

b. la decisività di detto documento, intesa come astratta idoneità a formare un diverso convincimento del giudice;

c. l’impossibilità per la parte di produrre detto documento per tutta la durata del giudizio perché ne ignorava l’esistenza per fatto a essa non addebitabile;

– quanto a quest’ultimo requisito, in particolare, considerata la condotta processuale delle parti, non può ravvisarsi una colpevole inerzia della parte per non avere richiesto l’esibizione di detti documenti, della cui esistenza non era a conoscenza, tramite istanza ex art. 210 c.p.c.;

– anzi, a ben vedere, tale istanza non era neppure possibile nell’ordinario processo di cognizione, in mancanza di prova che la parte nei cui confronti doveva essere emesso l’ordine di esibizione li possedesse, nonché di specifica indicazione dei documenti oggetto dell’ordine di esibizione.

5. Avverso tale sentenza l’Asl Roma (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi, cui ha resistito con controricorso Unicredit S.p.a..

Fenig ha depositato controricorso con il quale ha proposto ricorso incidentale con tre mezzi, al quale Unicredit ha controdedotto con successivo controricorso.

La trattazione è stata fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero. La ricorrente ha depositato memoria.

Unicredit ha depositato c.d. “comparsa di costituzione (di, n.d.r.) nuovo procuratore” a seguito del sopravvenuto decesso del precedente, con allegata conferente documentazione, e separata memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Va preliminarmente rilevata l’irritualità del conferimento dell’incarico al nuovo difensore da parte della controricorrente Unicredit, avvenuto attraverso il rilascio di procura speciale (non già nelle forme dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, ma) in calce a c.d. “comparsa di costituzione (di) nuovo procuratore”.

Trattandosi infatti di giudizio già pendente alla data di entrata in vigore della L. 18 giugno 2009, n. 69 (v. art. 58, comma 1), non può trovare applicazione il nuovo disposto dell’art. 83 c.p.c., comma 3 (come modificato dalla L. n. 69 del 2009, art. 45, comma 9), che ora ammette (integrando, sul punto, la precedente versione della medesima norma) la costituzione in giudizio della parte anche mediante il conferimento della procura speciale con apposizione in calce o a margine “della memoria di nomina del nuovo difensore, in aggiunta o in sostituzione del difensore originariamente designato”.

Pertanto, nel caso in esame, ricadente sotto la previgente disciplina, per la nomina del nuovo difensore sarebbe stato necessario osservare, in via esclusiva, le forme prescritte dal comma 2 dello stesso art. 83 del codice di rito, non essendo ammesse altre modalità (v. Cass. Sez. U. 2/04/2013, n. 9692, in motivazione p. 1.3; v. anche ex aliis Cass. 15/05/2020, n. 8973; 04/02/2020, n. 2461; 06/12/2018, n. 31567; 20/01/2016, n. 955; 21/11/2011 n. 24632; 09/02/2011, n. 3187).

2. E’ appena il caso poi di rammentare – non essendo peraltro da alcuno sollevata questione al riguardo – che la morte del procuratore della controricorrente, sopravvenuta al deposito del ricorso per cassazione e dello stesso controricorso, non determina effetto interruttivo del processo di legittimità, che essendo dominato dall’impulso d’ufficio, prosegue senza la necessità di alcun particolare adempimento (v. ex multis Cass. Sez. U. 21/06/2007, n. 14385; 31/10/2011, n. 22624).

Sotto altro profilo, peraltro, la nomina – ancorché, come detto, invalida ai fini dell’esercizio dello jus postulandi – di nuovo difensore intervenuta in data 8 giugno 2021 è fatto storico documentato che dimostra di per sé che la parte ha comunque avuto notizia, nonostante il decesso del difensore domiciliatario, del provvedimento di fissazione dell’odierna adunanza camerale, non potendosi pertanto ipotizzare, nemmeno sotto tale profilo, alcun vulnus del suo diritto di difesa.

3. Con il primo motivo del ricorso principale l’Asl Roma (OMISSIS) denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, “omesso esame di un fatto decisivo della controversia; insufficiente e contraddittoria motivazione; violazione dell’art. 395 c.p.c., n. 3 e art. 396 c.p.c.; inammissibilità per tardività; mancato assolvimento dell’onere della prova della tempestività” (così nell’intestazione).

Lamenta che erroneamente la corte d’appello ha respinto l’eccezione di tardività della proposizione del ricorso per revocazione straordinaria per essere intervenuta successivamente al termine di 30 giorni dalla conoscenza del fatto legittimante, ritenendo che tale conoscenza fosse maturata solo con la materiale apprensione del documento, il 6 dicembre 2016 e non il 10 ottobre 2016, data in cui Unicredit aveva saputo tramite atto depositato in giudizio da Fenig che le fatture erano state certificate: ciò in contrasto con la costante giurisprudenza di legittimità secondo cui il termine per impugnare deve farsi decorrere dal giorno in cui la parte ha avuto notizia dell’esistenza del documento assunto come decisivo, e non dalla data di materiale apprensione del documento stesso.

Soggiunge che la corte territoriale ha inoltre omesso di considerare che la documentazione rilasciata in data 6 dicembre 2016 dall’Azienda Usl Roma (OMISSIS) in esito alla richiesta di accesso agli atti, avrebbe potuto essere acquisita prima, con la normale diligenza, anche in tal caso violando principio consolidato nella giurisprudenza della cassazione secondo cui la sentenza non è revocabile quando la mancata ovvero tardiva acquisizione del documento sia dipesa da una negligenza di parte, gravando sull’attore in revocazione l’onere di dimostrare la non imputabilità del fatto da cui è dipesa l’impossibilità di produrre il documento nel primo giudizio.

La ricorrente indica poi un “ulteriore vizio di motivazione” nel non avere la corte di appello considerato che la Unicredit non aveva provato l’osservanza del termine di trenta giorni ai fini del riconoscimento della tempestività del ricorso per revocazione. Afferma al riguardo che la sola prova del rilascio materiale dei documenti posti a fondamento della domanda di revocazione “non può ritenersi sufficiente a provare la data del “recupero” in senso di conoscenza dell’esistenza del documento”.

Rimarca che, nella valutazione dell’assolvimento o meno di tale onere, Cass., 5 giugno 1993, n. 6322, ha ravvisato negligenza nella mancata verificazione dell’ipotesi che il documento esista e, in ogni caso, il riscontro del difetto di diligenza si ha per realizzato laddove, come nel caso in esame, la parte, essendo a conoscenza che il documento esiste e che esso è in possesso dell’avversario o di un terzo, non ne abbia richiesto l’esibizione ex art. 210 c.p.c. (Cass. 20/03/2009, n. 6821).

4. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “violazione dell’art. 395 c.p.c., n. 1; insussistenza del dolo revocatorio”.

Deduce che le circostanze che il giudice a quo ha ritenuto integrare dolo revocatorio – ossia, quanto ad essa ricorrente, avere versato le somme relative ai crediti previamente certificati a un soggetto che sapeva non essere titolato e, quanto a Fenig, avere percepito le somme relative ai crediti rientranti nel perimetro della cessione da essa stipulata con UNICREDIT, previa loro certificazione – non sussistono e comunque non sono provate.

Rileva che:

– la certificazione delle fatture, condizione essenziale per il riconoscimento della titolarità dei crediti alla Unicredit e non più alla Fenig, è intervenuta solo nel corso del giudizio di appello;

– pertanto, l’Asl ha detto il vero quando si è costituita;

– la titolarità delle fatture è stata acquisita da Unicredit solo nel corso del giudizio di appello e, segnatamente, in data 15 maggio 2013, ossia a distanza di circa otto anni dalla cessione, che le fatture sono state certificate e la condizione costitutiva cui la cessione era sottoposta si è avverata;

– il successivo pagamento in favore della Fenig e il mantenimento in appello da parte dell’Asl della linea difensiva tenuta in primo grado sono da attribuirsi non a dolo ma alla mancata comunicazione tra uffici in un ente di rilevante dimensione come la Asl;

– secondo la giurisprudenza di legittimità “il dolo processuale di una delle parti in danno dell’altra in tanto può costituire motivo di revocazione della sentenza, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 1, in quanto consista in un’attività, deliberatamente fraudolenta, concretantesi in artifici o raggiri tali da paralizzare o sviare la difesa avversaria ed impedire al giudice l’accertamento della verità, facendo apparire una situazione diversa da quella reale. Di conseguenza, non sono idonei a realizzare la fattispecie descritta la semplice allegazione di fatti non veritieri favorevoli alla propria tesi, il silenzio su fatti decisivi della controversia o la mancata produzione di documenti, che possono configurare comportamenti censurabili sotto il diverso profilo della lealtà e correttezza processuale, ma non pregiudicano il diritto di difesa della controparte, la quale resta pienamente libera di avvalersi dei mezzi offerti dall’ordinamento al fine di pervenire all’accertamento della verità” (Cass. 10/04/2012, n. 5648, in motivazione);

– la Asl ha orientato la propria difesa processuale in appello nel rispetto di tale principio, intendendo solo evitare il rischio di corrispondere due volte la stessa somma;

– risulta del tutto inverosimile e, comunque, non è stato provato un intento collusivo con la Fenig.

5. Il primo motivo è infondato.

5.1. Occorre premettere che nell’intestazione si fa espresso riferimento (nella indicazione delle norme di cui si deduce violazione) solo all’ipotesi di cui dell’art. 395 c.p.c., n. 3 e tale riferimento viene ripetuto alle pagg. 9 e 11.

Se a tale ipotesi dovesse ritenersi limitato l’obiettivo censorio occorrerebbe interrogarsi sulla sussistenza dell’interesse della ricorrente a prospettarlo.

Occorrerebbe domandarsi se la corte milanese abbia deciso la questione della tempestività del ricorso per revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 3, in modo tale da far sorgere l’interesse della ricorrente ad impugnare la decisione sul punto, sebbene in unione all’impugnazione – con il secondo motivo – della decisione quanto alla parte che, sempre nel presupposto della tempestività del ricorso, ha reputato fondato il motivo di revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 1.

Occorre, infatti, considerare che, dopo avere proceduto alle valutazioni della tempestività del ricorso per revocazione sia quanto al n. 1 che al n. 3, procedendo allo scrutinio del motivo di revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 1, lo ha accolto, mentre, successivamente, ha dichiarato espressamente assorbiti i motivi di revocazione ai sensi del n. 2 e del n. 3 di quella norma (v. sentenza, pag. 26, p. 6, prime tre righe) e solo di seguito a tale enunciazione di loro assorbimento (ravvisata nell’accoglimento del ricorso revocatorio ai sensi del n. 1) ha anche negato la fondatezza del motivo ai sensi del n. 2 e affermato la fondatezza di quello ai sensi del n. 3.

Ora, va considerato che la dichiarazione di assorbimento ha rappresentato l’affermazione di una ragione processuale di insussistenza dell’interesse allo scrutinio dei detti motivi nel “merito” e non ha eliso la precedente valutazione inerente la tempestività dell’impugnazione, per quanto qui interessa ai fini dell’art. 395 c.p.c., n. 3. L’affermazione dell’assorbimento, giusta o sbagliata che sia stata, implicò soltanto la constatazione della sopravvenuta insussistenza della potestas iudicandi sui motivi di revocazione di cui dell’art. 395 c.p.c., nn. 2 e 3, quanto alla verifica della loro fondatezza e non è estensibile alla pregressa valutazione della tempestività del ricorso per revocazione anche per essi.

Ne segue che solo l’esame della fondatezza dei detti motivi e segnatamente di quello ai sensi del n. 3 si deve intendere avvenuto inutiliter e, dunque, non ha portato ad una decisione sul punto impugnabile: ciò, alla stregua degli insegnamenti di cui a Cass. Sez. U. 20/02/2007, n. 3840.

Viceversa, l’impugnabilità della valutazione di tempestività della revocazione ai sensi del n. 3 è rimasta fuori dal dichiarato assorbimento e, dunque, parte ricorrente aveva ed ha interesse a dolersene, sebbene solo alla condizione – che ha rispettato con il secondo motivo – di censurare la sentenza anche quanto all’accoglimento del motivo di revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 1.

Ne discende che, se il primo motivo fosse da interpretare come diretto a censurare soltanto la tempestività della revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 3 (sebbene in punto di tempestività dell’impugnazione), si tratterebbe di motivo ammissibile.

5.2. A ben guardare, tuttavia, l’illustrazione del motivo deve in realtà ritenersi diretta a contestare la ritenuta tempestività del ricorso per revocazione anche con riferimento all’ipotesi di cui al n. 1.

Queste le ragioni.

Manca invero (al di là dei menzionati riferimenti) in primo luogo una espressa correlazione del motivo soltanto alla questione della tempestività del ricorso per revocazione limitata all’ipotesi di cui al num. 3, ancorché nell’intestazione tale numero sia citato.

Il dato che emerge dalla sentenza impugnata e’, d’altro canto, che la corte di merito motiva espressamente sulla ritenuta tempestività del ricorso anche in quanto riferito all’ipotesi di cui al num. 1 (v. pagg. 1415).

Si deve, in realtà, ritenere, all’esito di una lettura complessiva dell’illustrazione del motivo ed in assenza di una precisa ed espressa indicazione della sua direzione censoria, che esso si debba intendere nel senso che, nel contestare la tempestività del ricorso, l’azienda abbia inteso in realtà riferirsi (quanto meno, anche) alla motivazione di tempestività del ricorso per revocazione ai sensi del n. 1 e non solo a quella sulla tempestività dello stesso per il motivo ai sensi del n. 3.

Va in tal senso soprattutto rimarcato che:

– se è vero che l’argomento di critica è rappresentato essenzialmente dal rilievo che la conoscenza del “fatto legittimante” la revocazione avrebbe dovuto considerarsi acquisita non alla data (6 dicembre 2016) della materiale apprensione della comunicazione dell’Asl attestante la già intervenuta certificazione dei crediti ed il loro pagamento a Fenig, ma a quella (10 ottobre 2016) del deposito, nel giudizio di appello, della memoria con cui la stessa Fenig aveva comunicato che le fatture erano state certificate;

– se è vero che questo argomento è più specificamente attinente all’ipotesi di cui al n. 3;

– se tutto ciò è vero, è vero anche però che tale argomentazione, al di là dei detti riferimenti, è idonea ad attingere la sentenza anche nella parte in cui motiva la ritenuta tempestività del ricorso in quanto riferito all’ipotesi di cui al n. 1 ed in particolare la parte di motivazione esposta a pag. 15;

– in tale luogo, invero, la sentenza motiva il rigetto dell’eccezione di tardività del ricorso (anche in appello dedotta sul rilievo della decorrenza del relativo termine dalla data di deposito della menzionata memoria di replica) osservando che: a) quelle contenute in detta memoria erano dichiarazioni laconiche e generiche; b) non potevano comunque far scattare il termine predetto, all’uopo richiedendosi una “scoperta completa ed effettiva del dolo”;

– il motivo in esame, dunque, nel ribadire la tesi della decorrenza del termine dalla detta data di deposito della memoria di Fenig, intende evidentemente contestare anche tale motivazione e non a caso ne evoca espressamente (a pag. 10) la collocazione topografica (pagina 15 della sentenza) e ne trascrive anche il passaggio iniziale ed inoltre evoca il tenore della motivazione ai fini del n. 3 assumendone la contraddittorietà rispetto all’avere ritenuto tempestiva la revocazione ai sensi del n. 1.

5.3. Ciò precisato, dunque, quanto alla interpretazione del motivo e della sua direzione di critica e dunque ritenuto che esso si riferisce alla motivazione sulla tempestività sia quanto al n. 1 che al n. 3 dell’art. 395 c.p.c., se ne deve comunque rilevare la manifesta infondatezza.

La motivazione enunciata dalla corte meneghina, contenuta alle pagg. 15 e 16 e sopra teste’ riferita, è infatti corretta, là dove allude alla genericità dell’affermazione, e resiste alle critiche, generiche e meramente oppositive, mosse in ricorso.

L’affermazione di Fenig, invero, oltre che generica, non poteva comunque in alcun modo evidenziare alcunché in ordine alla fattispecie di dolo asseritamente legittimante, con essa dandosi solo notizia di un evento (l’intervenuta certificazione dei crediti, peraltro accompagnata anche dalla dubitativa ipotesi che gli stessi fossero pure stati pagati proprio alla cessionaria) altrimenti giustificabile, per plurime e non rivelate ragioni diverse da quella del dolo.

Sostanzialmente per le stesse ragioni deve ritenersi corretta è anche la valutazione di tempestività espressa per il motivo di revocazione ai sensi del n. 3.

Occorre al riguardo considerare che è bensì vero che il termine per proporre revocazione ex art. 395 c.p.c., n. 3 – il quale, a norma dell’art. 326 c.p.c., comma 1, decorre dal giorno del “recupero” dei documenti – coincide con il giorno in cui la parte ha avuto notizia dell’esistenza del documento, e non da quello (eventualmente successivo) di materiale apprensione (v. Cass. 26/10/2017, n. 25490; 20/10/2014, n. 22159; 12/09/2012, n. 15242) e tuttavia, come è stato anche precisato, è necessaria al riguardo l’acquisizione di un grado di conoscenza del contenuto del documento sufficiente a valutarne la rilevanza revocatoria (Cass. 31/08/2010, n. 18938; 25/05/1987, n. 4688), con la precisazione che l’accertamento del momento dal quale detta impugnazione può essere proposta costituisce un giudizio di fatto spettante, in via esclusiva, al giudice di merito, censurabile, in sede di legittimità, solo per vizi di motivazione, nella misura in cui siano rilevanti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (v. Cass. 21/02/2019, n. 5144).

Nella specie l’acquisizione di tale grado di conoscenza ragionevolmente – e comunque insindacabilmente – è stata ritenuta non predicabile in relazione a quella informazione per la sua evidenziata genericità e laconicità.

6. Il secondo motivo di ricorso è invece fondato.

6.1. Giova anzitutto rammentare che, secondo tradizionale orientamento della giurisprudenza di legittimità, conforme ad interpretazione prevalente in dottrina, il dolo processuale di una delle parti in danno dell’altra, in tanto può costituire motivo di revocazione della sentenza, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 1, in quanto consista in un’attività deliberatamente fraudolenta, concretantesi in artifici o raggiri tali da paralizzare o sviare la difesa avversaria e impedire al giudice l’accertamento della verità, facendo apparire una situazione diversa da quella reale.

Secondo questo orientamento il giudice della revocazione deve dunque compiere una triplice indagine: ricercare se vi sia stato comportamento doloso della parte che ha ottenuto la sentenza favorevole, concretatosi in artifici e raggiri; se tale comportamento abbia privato l’altra parte della possibilità di far valere nel processo i propri interessi, e se, infine, tale situazione sia stata la causa determinante della pronuncia del giudice (Cass. 03/02/1975, n. 403).

Per converso, non ogni illecito comportamento intenzionalmente posto in essere contro l’avversario (e quindi ogni mera violazione del dovere di lealtà e probità sancito dall’art. 88 c.p.c.) può considerarsi presupposto per la revocazione, essendo richiesto un quid pluris, ossia un’attività dannosa intenzionale, concretantesi in artifici e raggiri e tale da cagionare una condotta difensiva errata della controparte e, conseguentemente, un errore del giudice sfociato nella sentenza ingiusta.

Solamente un’attività fraudolenta positivamente manifestatasi, dunque, e non anche il semplice mendacio ovvero il silenzio serbato sui fatti contrari alla parte deducente, e neppure la mancata produzione di documenti, può integrare gli estremi del dolo revocatorio processuale (v. Cass. 06/03/1982, n. 1418, secondo cui “la semplice al allegazione (falsa) di fatti favorevoli alla propria tesi, la mera violazione dei doveri di lealtà e probità… non sono idonei a configurare la fattispecie di cui all’art. 395, n. 1”; negli stessi termini: Cass. 02/06/1983, n. 3768; 29/05/1986, n. 3642; 10/02/1989, n. 841; v. ancora, più di recente, Cass. 19/09/2008, n. 23866; 09/06/2014, n. 12875; 26/09/2018, n. 22851; 17/10/2018, n. 26078).

Questo perché “il comportamento della parte nel processo va valutato in relazione alla struttura del processo stesso (che è dominato dal principio del contraddittorio e dalla regola secondo cui nemo tenetur edere contra se), per cui esso, ancorché possa essere censurabile sotto il profilo dell’art. 88 c.p.c., non assurge a motivo di revocazione se non si risolva in una attività positiva tale da paralizzare o sviare la difesa avversaria e da impedire al giudice l’accertamento della verità. Sono quindi estranei al concetto espedienti difensivi ed il fatto di giovarsi di una minorata difesa in cui la controparte possa trovarsi per cause non imputabili all’avversario” (Cass. 20/11/1969, n. 3775).

Si precisa inoltre che l’errore nella difesa avversaria e lo sviamento dell’indagine giudiziale deve discendere dalla frode e non anche dal comportamento processuale della parte, e che l’inganno non è ravvisabile se all’ingiustizia della lesione abbia concorso la mancata diligenza dell’altra parte (Cass. n. 1418 del 1982, cit.).

6.2. A questo indirizzo si contrappone una diversa interpretazione, sostenuta da una parte della dottrina, autorevole ma minoritaria, e accolta in qualche pronuncia di merito.

Tale dottrina, facendo leva sull’art. 88 c.p.c., ed esprimendo una visione del processo che non è solo difesa del proprio interesse ma anche collaborazione alla giustizia, ritiene potersi individuare dolo revocatorio non solo nell’inganno, ma anche in quei comportamenti processuali contrari al dovere di lealtà e probità che abbiano condizionato il contenuto della sentenza (con efficacia diretta e non necessariamente mediata dall’induzione in errore della difesa della controparte).

Secondo tale orientamento, come l’agire o il contraddire in violazione di tale obbligo espone il soccombente al risarcimento dei danni arrecati al vincitore (art. 96 c.p.c., comma 1), così a fortiori la violazione di tale obbligo, se rende possibile la vittoria a chi se ne rende colpevole, non può non giustificare la revocazione della sentenza.

6.3. Tra l’uno e l’altro orientamento – ossia tra gli opposti estremi della negazione tout court di ogni rilevanza ai fini in questione del silenzio o della reticenza della parte, da un lato, e, dall’altro, della sempre possibile riconduzione anche di tali condotte alla ipotesi del dolo revocatorio – Cass. Sez. U. 06/09/1990, n. 9213, si è fatta interprete di una soluzione intermedia, prima scarsamente rappresentata (v. Cass. 12/03/1984, n. 1687; 19/03/1983, n. 1957) ma da allora assolutamente prevalente nella giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. 05/06/1993, n. 6322; 29/08/1994, n. 7576; 22/01/2001, n. 888; 29/01/2002, n. 1155; 19/06/2002, n. 8916; 26/01/2004, n. 1369; 10/03/2005, n. 5329; 15/11/2013, n. 25761; 21/01/2020, n. 1207).

Si e’, infatti, in tale pronuncia affermato che “e’ vero che ad integrare la fattispecie del dolo processuale revocatorio, dell’art. 395 c.p.c., ex n. 1, non basta la semplice violazione dell’obbligo di comportarsi in giudizio con lealtà e probità né sono di per sé sufficienti il mendacio e le false allegazioni, bensì si richiede un’attività intenzionalmente fraudolenta, concretantesi in artifici o raggiri tali da pregiudicare o sviare la difesa avversaria facendo apparire una situazione diversa da quella reale e, quindi, da impedire al giudice la conoscenza della verità. Ma del pari non è dubbio che anche il mendacio o il silenzio su fatti decisivi possono realizzare il presupposto della fattispecie se costituiscono elementi essenziali di un’attività diretta proprio a trarre in inganno la controparte e idonea – in relazione alle circostanze – a determinare le conseguenze suddette. Ciò deve dirsi, fra l’altro, quando la stessa domanda giudiziale trovi fondamento sul mendacio o sull’occultamento del vero, costituendo lo strumento per conseguire un ingiusto profitto, e il successivo comportamento processuale, attuativo del disegno fraudolento, sia tale da impedire un’efficiente attività difensiva della controparte e, comunque, da pregiudicare l’accertamento della verità”.

Secondo tale indirizzo anche il mendacio o il silenzio su fatti decisivi possono, dunque, realizzare il presupposto della fattispecie, a condizione però che costituiscano elementi essenziali di un’attività diretta proprio a trarre in inganno la controparte e idonea – in relazione alle circostanze – a sviarne o pregiudicarne la difesa e a impedire al giudice l’accertamento della verità.

Anche in tale prospettiva resta fermo, pertanto, che il silenzio o il mendacio non possono in sé e per sé configurare dolo revocatorio della sentenza, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 1, ma solo in quanto rappresentano elementi di una macchinazione fraudolenta, che abbia concretamente inciso sul contraddittorio e sul diritto di difesa o, comunque, sull’accertamento della verità (v. Cass. n. 1155 del 2002, cit.).

6.4. Orbene, nulla di tutto ciò risulta essersi verificato nel caso in esame.

Le affermazioni che in senso opposto sono a più riprese leggibili nella sentenza impugnata – che pure appare ben consapevole dello stato della giurisprudenza di legittimità sul punto – si appalesano non sorrette da alcuna conferente motivazione (la cui congruità a tal fine è in questa sede certamente sindacabile trattandosi di questione processuale per la quale la Cassazione e’, come noto, giudice anche del fatto e, dunque, anche della sua corretta ponderazione).

Gli elementi di fatto evidenziati in sentenza, e del resto pacifici in causa, sono infatti unicamente rappresentati dalla reticenza e dal mendacio che sia l’appellante Asl, sia l’interveniente Fenig, hanno ripetutamente manifestato nel corso del giudizio di secondo grado rispetto alla sopravvenienza delle certificazioni che costituivano presupposto indefettibile del diritto fatto valere dalla cessionaria Unicredit.

L’esistenza o meno di tali certificazioni costituiva però, per l’appunto, tema centrale della controversia, che vedeva l’attrice/appellante gravata dal relativo onere probatorio e l’Asl (così come anche Fenig) controinteressata al suo accertamento.

Rispetto ad esso, pertanto, non poteva non valere il principio nemo tenetur edere contra se, il quale altro non è che corollario del principio dell’onere della prova (art. 2697 c.c.).

L’allegazione, vera o mendace, non è infatti che la posizione del tema di prova, mentre il convincimento del giudice si basa sulla prova assunta in contraddittorio paritario tra le parti, della quale è onerata la parte che vi ha interesse, non certo la controinteressata.

Salva dunque naturalmente ogni diversa valutazione ai diversi fini di cui all’art. 88 c.p.c., che il convenuto appellato nasconda la verità di un fatto che va contro il suo interesse o anche affermi la verità opposta (mendacio) è condizione pienamente coerente alla dialettica processuale.

6.5. La corte territoriale mostra consapevolezza dell’indirizzo intermedio sopra esposto (richiamato espressamente alle pagg. 23 24 della sentenza) e ne afferma il rispetto nella specie sul rilievo che “gli elementi emersi, di particolare gravità e persino di allarme sociale, atti a produrre un danno erariale, hanno fatto emergere il dolo e la collusione nelle condotte di ASL e di Fenig ai danni di Unicredit”.

Si tratta, però, di affermazione che rimane vuota di riferimenti fattuali che non siano sempre e solo il silenzio e il mendacio serbati nel corso del giudizio di appello (rispetto alle circostanze della intervenuta certificazione delle fatture seguito anche dal pagamento dei relativi importi alla cedente).

In tal modo la corte milanese elude il criterio di giudizio che pure essa stessa aveva correttamente enunciato in premessa, sovrapponendo ed equivocando la prova del comportamento reticente e mendace (come detto pacifico, ma di per sé solo irrilevante ai fini della revocazione) con la prova del dolo revocatorio, la quale avrebbe richiesto la dimostrazione che tale condotta si inseriva in un disegno fraudolento idoneo a impedire al giudice l’accertamento della verità e a sviare la difesa della controparte.

E là dove ripetutamente evoca i concetti di “dolo e collusione” mostra di confondere il dolo in ordine all’atteggiamento di mancata dichiarazione del fatto della certificazione, cioè il dolo inteso come volontà consapevole (e peraltro sulla consapevolezza in tale senso vi è analoga assertorietà, ma la cosa è irrilevante) di non fare quella dichiarazione, cioè di non allegare quel fatto (che inerisce certamente alla sfera del nemo tenetur contra se detegere), con il dolo rilevante ai fini della revocazione, il quale esige che alla condotta meramente omissiva e mendace si sia accompagnata una condotta ulteriore, estrinsecatasi in un fatto diverso e ulteriore al mero silenzio e mendacio, ed idonea ad incidere sulla capacità difensiva della controparte: come ad es., avrebbe potuto affermarsi se alla mancata allegazione del fatto della certificazione si fosse accompagnato un quid pluris (diverso, appunto, dal mero silenzio e anche dal mero mendacio) diretto a convincere la controparte che il fatto non esistesse e che dunque la mancata allegazione dipendesse da questo.

6.6. Manca peraltro in sentenza una convincente indicazione delle ragioni per le quali sia da ritenere, il detto mendacio, incidente sulla difesa avversaria.

Deve al riguardo anzitutto rilevarsi che tale mendacio nulla ha tolto o aggiunto alla situazione di partenza in cui si trovata Unicredit nel far valere in giudizio il proprio diritto: essa era sin dall’inizio ed è rimasta gravata dell’onere di provare la circostanza integrante il fatto costitutivo di quello; tale circostanza era negata dalla convenuta e tale è rimasta; continuare a negarla (pur consapevolmente mentendo) non ha aggiunto nessun tassello al muro difensivo che parte attrice/appellante aveva l’onere di abbattere sul piano probatorio.

Non è pertanto pertinente il rilievo che Unicredit non avrebbe avuto la possibilità di chiedere e ottenere ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c., delle certificazioni in questione, dal momento che tale impossibilità, se effettivamente sussistente, vi era sin dall’inizio e per tutto il corso del processo e non discende dal silenzio o mendacio della convenuta, di per sé non comportante al riguardo un ostacolo aggiuntivo.

Il rilievo non sembra peraltro nemmeno convincente, ove si consideri che, proprio in ragione della materia controversia, Unicredit avrebbe comunque potuto chiedere – e sarebbe stata verosimilmente risolutiva in suo favore – l’acquisizione della documentazione contabile di Fenig e/o della Asl adeguatamente circoscritta alle fatture e all’anno di riferimento.

L’esito, dunque, della disamina di merito finisce con il tradire il principio enunciato in premessa ovvero con il darne di esso una lettura sostanzialmente conforme al più ampio e comprensivo, ma assolutamente minoritario, dei sopra esposti orientamenti (silenzio e mendacio di per sé rilevanti), tra i quali invece esso si pone in posizione intermedia (richiedendo la presenza di un quid pluris, ossia di un comportamento ulteriore e diverso dal mero mendacio, oggettivamente idoneo a paralizzare o fuorviare la difesa avversaria).

6.7. L’intrinseca debolezza del ragionamento svolto in sentenza traspare peraltro da due aporie che al suo interno è possibile cogliere.

6.7.1. Sotto un primo profilo mette conto invero rimarcare l’eccentricità del ripetuto richiamo in sentenza alla “natura pubblica dell’ente (l’Asl, n.d.r.), gravata da obblighi di gestione e di rendicontazione trasparente e diligente (anche alla stregua dei fondamentali doveri costituzionali di cui all’art. 97 Cost.)” (v. sentenza, pagg. 21, in fine, e 25, righe 19 – 22).

A pag. 21, in particolare, il rilievo è posto a sostegno dell’assunto secondo cui “l’onere di trasparenza e di dare contezza dell’attività amministrativa svolta non poteva che incombere sull’Asl, in forza del principio di vicinanza alle fonti probatorie, non essendo esigibile tale attività in capo alla cessionaria dei crediti”.

Sembrerebbe che con ciò la corte intenda affermare che l’onere di provare la mancata certificazione delle fatture (fatto negativo) spettasse all’Asl, convenuta.

E’ agevole però osservare che:

a) anzitutto l’argomento, indipendentemente dal vaglio della sua fondatezza, si pone del tutto al di fuori del circoscritto tema ad oggetto della impugnazione straordinaria, finendo con il sindacare la correttezza in iure della regola probatoria invece applicata dal giudice d’appello;

b) nella corretta prospettiva del giudizio di revocazione ne è evidente la fallacia, dal momento che:

b1) varrebbe al più a connotare di disvalore l’inerzia della condotta processuale dell’ente, ma non anche a individuare l’artificio o raggiro richiesto ai fini del dolo revocatorio;

b2) l’argomento è comunque errato: il dovere di trasparenza dell’ente pubblico non si traduce, infatti, sul piano processuale in una inversione dell’onere della prova del fatto costitutivo della pretesa creditoria azionata nei confronti dell’ente, ma opera piuttosto sul piano sostanziale come precetto che impone alla P.A. di rendere ostensibili i propri atti e la propria documentazione amministrativa e contabile; proprio tale dovere avrebbe dato agio alla parte interessata (e gravata in processo dell’onere probatorio) di ottenere già ex se la documentazione contabile utile alla difesa; da qui anche la contraddittorietà dell’argomento in quanto utilizzato quale riscontro del dolo revocatorio che al contrario richiede la prova di un artificio idoneo a impedire o paralizzare la difesa avversaria.

6.7.2. Sotto altro profilo non può non essere rimarcata la contraddittorietà della postulazione, in sentenza, di un accordo collusivo tra Asl e Fenig rispetto alla circostanza, pure ad altri fini oggetto di ripetuto richiamo, che quest’ultima ebbe, nella memoria di replica, a segnalare l’intervenuta certificazione delle fatture (che, si ricordi, è avvenuta nel corso del giudizio di appello).

Non può sfuggire, infatti, che l’ipotizzato accordo collusivo si rivelerebbe inspiegabilmente tradito dalla rivelazione da parte di uno dei supposti soggetti collusi, ancora nel corso del giudizio, della circostanza della quale invece, secondo quell’accordo, occorreva tacere: rivelazione bensì generica e fumosa (e dunque inidonea, come detto, a rappresentare dies a quo per il decorso del termine per impugnare), ma tuttavia idonea quanto meno a far sorgere il sospetto e ad attivare le tardive indagini di controparte.

Il giudizio in iure con cui la corte milanese ha affermato l’esistenza del dolo revocatorio appare, dunque, affetto da erronea applicazione in concreto dei principi giuridici che la stessa corte ha dichiarato di applicare.

7. Per le esposte considerazioni deve in definitiva escludersi l’esistenza del dolo revocatorio nei termini indicati dalla sentenza impugnata e quest’ultima va, sul punto, cassata, in accoglimento del secondo motivo del ricorso principale.

8. Resta conseguentemente assorbito l’esame del ricorso incidentale, il quale investe, con tre mezzi, la sentenza impugnata nella sola sua parte rescissoria, ovviamente caducata per effetto dell’accoglimento del ricorso principale sulla preliminare pronuncia rescindente.

9. La causa va rinviata al giudice a quo per l’esame degli ulteriori motivi di revocazione, in quanto dichiaratamente considerati assorbiti dalla corte d’appello, senza che tale valutazione (di assorbimento) sia stata fatta segno in ricorso di alcun motivo di critica.

9.1. Al riguardo, pare opportuno rilevare, ai fini nomofilattici, che la tecnica dell’assorbimento cui ha fatto ricorso la corte d’appello meneghina sarebbe stata censurabile, in quanto erroneamente adottata da quella corte: infatti, poiché a fondamento dei motivi di revocazione era stato prospettato in buona sostanza lo stesso fatto, cioè l’essere sopravvenuta la certificazione rilevante ai fini dell’estensione della cessione nel corso del giudizio di appello, lo scrutinio dell’impugnazione esigeva che il giudice della revocazione operasse la riconduzione di esso all’esatto paradigma effettivamente rilevante ai fini dello scrutinio rescindente, non essendo concepibile che lo stesso fatto rilevasse ai sensi di distinti numeri dell’art. 395 c.p.c..

Pertanto, incombeva alla corte milanese l’onere preventivo di necessariamente individuare nella domanda di revocazione, prospettata adducendo la rilevanza del fatto ai sensi di tre diversi numeri dell’art. 395 c.p.c., il paradigma pertinente, con la conseguenza che Essa non poteva ricorrere alla tecnica dell’assorbimento.

L’assorbimento sarebbe stato possibile solo se fossero stati prospettati a sostegno della domanda revocazione fatti distinti ognuno riconducibile ad uno specifico numero dell’art. 395: in tal caso, infatti, si sarebbe stati in presenza di domande di revocazione alternative ed in mancanza di espressa richiesta della parte istante di scrutinarle tutte la corte di merito, una volta accolta una di esse, bene avrebbe potuto ricorrere alla tecnica dell’assorbimento.

9.2. Poiché, però, il ricorso alla tecnica dell’assorbimento non è stato censurato, ne restano valide le conseguenze, siccome in precedenza individuate: non può attribuirsi rilievo al fatto che in ricorso non siano state fatte segno di alcuna censura le considerazioni con cui la sentenza ha escluso la ricorrenza delle ipotesi di cui dell’art. 395 c.p.c., nn. 2 e 3, in quanto esse non potevano essere impugnate.

Come detto, infatti, si tratta di considerazioni meramente incidentali e svolte ad abundantiam ma prive di ogni rilievo o effetto decisorio, precluso dalla iniziale e non censurata valutazione di assorbimento.

Il motivo, dunque, che in ipotesi fosse stato diretto ad investire tale parte della sentenza non avrebbe potuto essere esaminato, essendo inammissibile, giusta il ricordato precedente delle SS.UU. (Cass. Sez. U. n. 3840 del 2007).

Solo se si fosse contestata la ritualità dell’assorbimento dichiarato questa Corte avrebbe potuto procedere all’esame del motivo, se proposto.

Il giudice di rinvio, dunque, procederà alla decisione sui motivi di ricorso per revocazione ai sensi del n. 2 e del n. 3 dell’art. 395, naturalmente valutando tutte le circostanze dello svolgimento della vicenda introdotte in giudizio.

10. Al giudice di rinvio va anche demandato il regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il secondo motivo del ricorso principale, nei termini di cui in motivazione; rigetta il primo; dichiara assorbito il ricorso incidentale; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; rinvia la causa alla Corte d’appello di Milano, diversa sezione e, comunque, in diversa composizione, alla quale manda anche di provvedere al regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 17 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 28 dicembre 2021

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