Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4170 del 21/02/2018


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Cassazione civile, sez. trib., 21/02/2018, (ud. 13/11/2017, dep.21/02/2018),  n. 4170

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. – Con la sentenza impugnata, la Commissione tributaria regionale di Palermo ha confermato la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Palermo, con la quale era stato rigettato il ricorso della società contribuente avverso una cartella di pagamento contenente l’iscrizione a ruolo effettuata dall’amministrazione finanziaria ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 68, a seguito di precedente sentenza della Commissione tributaria regionale: l’originaria controversia aveva per oggetto l’iscrizione a ruolo di somme dichiarate e non versate a titolo di Iva relative al modello unico dell’imposta 2000, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54-bis.

2. – Avverso la sentenza la contribuente ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, articolando quattro motivi di doglianza.

L’Agenzia delle entrate – Direzione regionale della Sicilia si è costituita in giudizio con controricorso, chiedendo il rigetto del ricorso.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. – Il ricorso è infondato.

3.1. – Con un primo motivo di doglianza, la ricorrente deduce la violazione dell’art. 112 c.c., lamentando che la Commissione tributaria regionale avrebbe ritenuto quali motivi aggiunti e, dunque, tardivi perchè non connessi con i motivi principali, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 24, i motivi presentati dalla parte contribuente nel giudizio di primo grado.

La censura è inammissibile per genericità. A prescindere da ogni considerazione in diritto circa la portata del richiamato art. 24, deve preliminarmente rilevarsi che la contribuente non precisa, neanche con il ricorso per cassazione, quali fossero gli ulteriori motivi proposti nel corso del giudizio di primo grado, nè quale fosse la loro effettiva rilevanza ai fini della decisione, anche in relazione al contenuto dei motivi principali.

3.2. – Analoghe considerazioni valgono per il secondo motivo di ricorso, con cui si deduce la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 e dell’art. 118 disp. att. c.p.c.. La ricorrente lamenta, del tutto genericamente, il difetto assoluto di motivazione della sentenza impugnata quanto all’esame delle censure proposte con l’appello, senza specificare quale fosse l’oggetto di tali censure nè come le stesse fossero formulate.

Ne deriva l’inammissibilità anche di tale censura.

3.3. – Si deduce, in terzo luogo, la violazione degli artt. 474 e 475 c.p.c., nonchè del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 69 e 70, perchè non si sarebbe rilevata la nullità-inesistenza del titolo esecutivo. Si evidenzia, sul punto, che la sentenza messa in esecuzione sarebbe stata una sentenza di mero accertamento e non di condanna e che si tratterebbe, comunque, di una sentenza non passata in giudicato.

La doglianza è infondata.

Come correttamente affermato nella sentenza impugnata, la riscossione del tributo oggetto di giudizio davanti alle commissioni è regolata dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 68, che prevede, al comma 1, lett. c), l’esigibilità del residuo ammontare all’esito del rigetto da parte della Commissione tributaria regionale, che si somma all’ammontare già esigibile in forza della sentenza di rigetto di primo grado. E non trovano applicazione, nel caso di specie, i successivi artt. 69 e 70, perchè si riferiscono, rispettivamente, alle fattispecie diverse da quella qui in esame – della sentenza pronunciata in favore del contribuente e dell’ottemperanza. Parimenti, deve essere esclusa l’applicabilità della disciplina civilistica contenuta negli artt. 474 e 475, per la prevalenza del regime speciale fissato dal D.Lgs. n. 546 del 1992. Anche a prescindere da tali assorbenti considerazioni, deve comunque rilevarsi che la ricorrente non precisa quale sia effettivamente il contenuto della sentenza di rigetto che ha dato causa all’esazione del credito tributario, limitandosi ad affermare genericamente – contro ciò che risulta dalla sentenza impugnata – che la stessa è una sentenza di mero accertamento.

3.4. – In quarto luogo, si prospetta la violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 12,D.Lgs. n. 82 del 2005, artt. 1 e 24, D.P.C.M. 13 gennaio 2004, art. 44. Per la ricorrente, nel caso di specie mancherebbero gli elementi richiesti dalle norme sopra richiamate, ovvero: la data e l’ora certa del documento, la generazione della struttura di dati secondo la normativa prevista, la sottoscrizione digitale. Mancherebbe, inoltre, il rispetto delle norme relative alla delega dei dirigenti per la sottoscrizione dei ruoli.

Il motivo è inammissibile, per difetto di autosufficienza.

La ricorrente non richiama, neanche a grandi linee, il contenuto del provvedimento impugnato, limitandosi a contrastare le affermazioni contenute, sul punto, nella sentenza di secondo grado. Ne consegue che questa Corte non è messa in grado di valutare l’eventuale sussistenza delle violazioni lamentate.

4. – Il ricorso deve essere dunque rigettato, con condanna della ricorrente rimborso delle spese processuali sostenute dalla controparte, da liquidarsi in Euro 6.000,00, oltre spese prenotate a debito.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute nel grado dalla controparte, che liquida in Euro 6.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 13 novembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2018

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