Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4170 del 21/02/2011

Cassazione civile sez. lav., 21/02/2011, (ud. 27/01/2011, dep. 21/02/2011), n.4170

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. LA TERZA Maura – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 12480-2007 proposto da:

BANCO DI SICILIA SOCIETA’ PER AZIONI, già BANCO DI SICILIA S.P.A.,

in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, PIAZZALE CLODIO 32 (STUDIO AVV. CIABATTINI),

presso lo studio dell’avvocato TOSI PAOLO, che la rappresenta e

difende, giusta procura speciale in atti;

– ricorrente –

contro

D.C.C.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

MICHELE MERCATI 51, presso lo studio dell’avvocato BRIGUGLIO ANTONIO,

che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 95/2006 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 27/04/2006 R.G.N. 563/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

27/01/2011 dal Consigliere Dott. VITTORIO NOBILE;

udito l’Avvocato CIABATTINI SGOTTO LIDIA per delega TOSI PAOLO;

udito l’Avvocato SIRACUSANO ALESSANDRA per delega BRIGUGLIO ANTONIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE TOMMASO che ha concluso per inammissibilità e in subordine

rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 4103/1997 il Pretore di Palermo accoglieva la domanda proposta da d.C.C.C. nei confronti del Banco di Sicilia s.p.a., diretta al riconoscimento del suo diritto ad essere dispensato dal servizio per motivi di malattia.

Avverso tale decisione il Banco proponeva appello e il Tribunale di Palermo riformava la pronuncia di primo grado rigettando la domanda del lavoratore.

Quest’ultimo proponeva ricorso per cassazione e la Corte di Cassazione, con sentenza n. 16375/2002 accoglieva il ricorso cassando la impugnata sentenza e rinviando alla Corte di Appello di Messina.

Con atto depositato il 25-3-2003 il D.C.C. riassumeva il giudizio chiedendo il rigetto dell’appello del Banco e la conferma della pronuncia di primo grado.

In particolare il D.C.C., premesso che la Corte di legittimità aveva affermato il principio che “il rapporto contrattuale di lavoro si può estinguere anche per impossibilità sopravvenuta determinata dalla totale inidoneità al servizio del dipendente”, rilevava che la “dispensa dal lavoro con diritto al trattamento di quiescenza” di cui all’art. 94, comma 7, del Regolamento del Banco disciplinava, appunto, l’ipotesi di estinzione del rapporto per impossibilità sopravvenuta, riconducibile comunque alla disciplina generale in materia contrattuale.

Il lavoratore rilevava altresì che non doveva confondersi il concetto di malattia (rilevante ai fini del licenziamento per superamento del periodo di comporto) con quello di inidoneità al lavoro (rilevante ai fini della risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta) ed evidenziava che nel caso in esame egli era stato già posto in congedo straordinario per malattia ed aveva superato il periodo di comporto, rinunciando peraltro alla possibilità di richiedere l’ulteriore periodo di aspettativa.

Sosteneva, quindi, che, una volta assodato, tramite la CTU espletata in primo grado, che egli si trovava nell’assoluta inidoneità psico- fisica alla ripresa del servizio, non poteva non operare la estinzione del rapporto per impossibilità sopravvenuta prevista dal Regolamento, sotto forma di automatica dispensa dal servizio con attribuzione del trattamento di quiescenza.

Il Banco di Sicilia si costituiva rilevando che, con riferimento al principio di diritto affermato dalla sentenza rescindente, l’art. 94 del Regolamento del Personale non configurava affatto una fattispecie estintiva del rapporto di lavoro per impossibilità totale sopravvenuta della prestazione poichè nel corpo dello stesso non compariva alcun riferimento nè all’inidoneità nè all’inabilità e il 7 comma correlava la dispensa dal servizio (a prescindere se automatica o discrezionale) al superamento del periodo di comporto e/o dell’eventuale aspettativa nonchè alla circostanza, da accertarsi dalla competente struttura sanitaria pubblica, che l’impiegato non fosse “in grado per accertati motivi di salute di riprendere servizio”.

Ancora evidenziava che poichè nel Regolamento era stata stabilita pure la riammissione in servizio dell’impiegato già dispensato per motivi di salute ciò voleva significare che la dispensa de qua non poteva coincidere necessariamente con l’impossibilità sopravvenuta della prestazione. Peraltro nella formulazione dell’art. 117 del Regolamento le parti, nell’elencare le ipotesi di dispensa dal servizio, avevano utilizzato espressioni tecniche ben compiute e comunque l’art. 94 era relativo alla malattia e vi correlava il diritto al trattamento di quiescenza, mentre l’art. 117 era relativo alla dispensa dal servizio per inabilità e non correlava il diritto al trattamento di quiescenza.

Il Banco concludeva, quindi, che la dispensa dal servizio di cui all’art. 94 del Regolamento non fondava un diritto del dipendente ma una facoltà discrezionalmente esercitabile da parte del Banco ed infine contestava le risultanze della CTU. La Corte d’Appello di Messina, con sentenza depositata il 27-4-2006, rigettava l’appello e condannava il Banco al pagamento delle spese.

In sintesi la Corte di rinvio riteneva che l’art. 94 del Regolamento disciplinava specificamente l’ipotesi di impossibilità sopravvenuta, disponendo in sostanza che l’impiegato deve essere dispensato dal servizio qualora risulti per accertati motivi di salute non in grado di riprendere servizio, con conseguente diritto dell’impiegato stesso, qualora vi abbia interesse, a contestare anche l’esito degli accertamenti medici e a chiedere una verifica giudiziale delle sue condizioni di salute (come è avvenuto nella fattispecie).

La Corte respingeva, inoltre, anche le censure avanzate dal Banco nei confronti delle risultanze della CTU. Per la cassazione di tale sentenza il Banco di Sicilia Società per azioni (già Banco di Sicilia s.p.a.) ha proposto ricorso con tre motivi, corredati dai quesiti di diritto ex art. 366 bis c.p.c., che va applicato nella fattispecie.

Il D.C.C. ha resistito con controricorso Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 94, comma 7 del Regolamento del personale del Banco di Sicilia e degli artt. 1362 e ss. c.c., nonchè (in subordine, ove il detto Regolamento non rientri nell’ipotesi prevista dall’art. 360 c.p.c., n. 3 come novellato dal D.Lgs. n. 40 del 2006) violazione degli stessi artt. 1362 e ss. c.c. in relazione all’interpretazione del citato art. 94, comma 7 del medesimo Regolamento e vizio di motivazione.

In sostanza la ricorrente deduce che “ritenere la dispensa dal servizio di cui alla norma in esame quale disciplina specifica della risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa”, costituisce violazione della norma stessa o comunque violazione delle regole di ermeneutica contrattuale, ed in specie del criterio logico-sistematico, “in rapporto al complessivo contenuto del Regolamento, con particolare riguardo agli artt. 114, 116 e 117, ovvero ancora erronea o contraddittoria motivazione”.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione del citato art. 94, comma 7 in relazione agli artt. 1362 e ss. e 1463 c.c. e art. 2697 c.c., quanto al fatto costitutivo della dispensa dal servizio e quanto all’onere probatorio a carico del lavoratore che invoca la dispensa dal servizio, ovvero violazione degli artt. 1362 e ss., 1463 e 2697 c.c., in relazione all’interpretazione dello stesso art. 94, comma 7 del Regolamento, nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione quanto agli stessi punti.

In particolare, sempre sotto entrambi i profili della violazione diretta della norma del Regolamento del personale del Banco o della violazione dei canoni ermeneutici e del vizio di motivazione, la ricorrente lamenta che la Corte di rinvio erroneamente ha ritenuto che “fatto costitutivo della dispensa dal servizio di cui alla norma in esame sia la mera inidoneità alle specifiche mansioni già espletate dal lavoratore, senza indagine alcuna circa la idoneità allo svolgimento di diversa attività, riconducibile alle mansioni contrattuali, a quelle equivalenti o a mansioni eventualmente inferiori”, considerando, in sostanza, che “il lavoratore che invoca la dispensa dal servizio per motivi di salute debba allegare e provare la inidoneità alle mansioni già espletate mentre il datore di lavoro debba allegare e provare le eventuali mansioni alternative, compatibili con lo stato di salute del lavoratore.

In ordine a tali motivi, strettamente connessi, osserva il Collegio che nella fattispecie non può ritenersi che ricorra l’ipotesi della denunciabilità di una violazione diretta (ex art. 360 c.p.c., n. 3 novellato) dell’art. 94, comma 7 del citato Regolamento del personale del Banco di Sicilia, giacchè lo stesso, pur avendo “natura negoziale” “equiparabile a un contratto collettivo di diritto comune” (v. fra le altre Cass. 11-12-1999 n. 13904, Cass. S.U. 30-3-1994 n. 3134), certamente non può annoverarsi tra i “contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro ” (per cui neppure è necessario il deposito del testo integrale del Regolamento stesso ex art. 369, comma 2, n. 4, in base al principio recentemente affermato da Cass. S.U. 23-9-2010 n. 20075).

L’interpretazione, quindi, del detto Regolamento resta riservata al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità soltanto sotto il profilo della violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale e dei vizi di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione.

Al riguardo, però, le censure avanzate dalla ricorrente risultano innanzitutto inammissibili perchè prive di autosufficienza.

Come questa Corte ha più volte affermato e va qui ribadito, “qualora in sede di legittimità venga denunciato un vizio della sentenza consistente nella erronea interpretazione, per violazione dei canoni legali di ermeneutica o per vizio di motivazione, di una norma della contrattazione collettiva, il ricorrente ha l’onere – in forza del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione di riportare il contenuto della stessa, stante il divieto per il giudice di legittimità di ricercare negli atti gli elementi fattuali utili per la decisione della controversia” (v. fra le altre Cass. 4-11-2005 n. 21379, Cass. 2-4-2002 n. 4678).

Orbene nella fattispecie la ricorrente ha richiamato soltanto alcuni piccoli stralci degli articoli del citato Regolamento indicati (artt. 94, 114, 116, 117 e 119), laddove avrebbe dovuto quantomeno riportare integralmente il contenuto degli stessi, al fine di consentire il controllo di legittimità in relazione ai vizi denunciati.

Tanto basta per ritenere inammissibili i primi due motivi.

Con il terzo motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c. in relazione agli accertamenti di fatto espletati dal CTU, nonchè vizio di motivazione, deduce che anche in sede di rinvio, aveva lamentato che le conclusioni della perizia medico-legale, integralmente recepite dal primo giudice, erano state fondate su fatti (la complessità e la responsabilità della attività lavorativa svolta) non allegati nè provati in giudizio, ma accertati dal CTU, e in sostanza lamenta che la Corte di rinvio sul punto ha fornito una motivazione insufficiente e contraddittoria.

Anche tale motivo non può essere accolto.

In primo luogo, infatti, la ricorrente non indica in quali termini abbia sollevato specificamente tale questione in appello (nel ricorso si parla semplicemente di “carenze ed approssimazioni dell’espletata perizia medica”) e tanto meno precisa in che modo la questione stessa sia stata riproposta in sede di rinvio.

In ogni caso le censure di “carenze e approssimazioni” sono state respinte dalla Corte di rinvio in quanto “non scientificamente e validamente supportate”, aderendosi così alle conclusioni del CTU nominato in primo grado.

Del resto, come emerge dalla stessa lettura del ricorso, la considerazione della complessità e della responsabilità insite nella attività bancaria pacificamente svolta, costituiva semplicemente argomento della valutazione medico legale del CTU, recepita dai giudici di merito. E’ fuor di luogo, quindi, parlare di fatto non allegato che sarebbe stato accertato in violazione del principio del contraddittorio e delle regole probatorie.

Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente, in ragione della soccombenza va condannata al pagamento delle spese in favore del D. C.C..

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare al D. C.C. le spese liquidate in Euro 25,00 oltre Euro 3.000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 27 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2011

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