Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4148 del 21/02/2018


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Civile Ord. Sez. 5 Num. 4148 Anno 2018
Presidente: PICCININNI CARLO
Relatore: GRECO ANTONIO

ORDINANZA

sul ricorso 20325-2011 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro
tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI
PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO
STATO, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente contro

Mat

tottà ’11»;k 133Mt

teUilakiti~$144,)

2017
19

401~
ACSA SPA IN LIQUIDAZIONE, elettivamente domiciliato_
in ROMA V.FLAMINIA VECCHIA 785, presso lo studio
dell’avvocato VALENTINA ADORNATO, rappresentato, e
difesaL dall’avvocato FRANCESCO TESAURO;

Data pubblicazione: 21/02/2018

- controricorrente incidentale contro

AGENZIA DELLE ENTRATE;
– intimatQavverso la sentenza n. 100/2010 della COMM.TRIB.REG.
di MILANO, depositata il 28/05/2010;

consiglio del 20/02/2017 dal Consigliere Dott.
ANTONIO GRECO;

udita la relazione della causa svolta nella camera di

FAITI DI CAUSA.
L’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione con
un motivo nei confronti della sentenza della Commissione
tributaria regionale della Lombardia che, confermando la
decisione di primo grado, nel giudizio introdotto dalla spa ACSA
in liquidazione, esercente l’attività di produzione di acciai
stampati, con l’impugnazione dell’avviso di rettifica della
dichiarazione IRPEG per l’anno 1999 – con il quale era stato
essere tra il 1997 ed il 1999, determinando una maggiore imposta
conseguente ai maggiori ricavi derivanti dalla cessione di
un’azienda, ed era stata stabilita l’indeducibilità di
minusvalenze conseguenti alla cessione del diritto di usufrutto
su azioni della ACSA Steel Forging spa – ha confermato
l’annullamento dell’atto impositivo in relazione al primo
rilievo, mentre ha confermato il fondamento della pretesa
dell’ufficio con riguardo al secondo rilievo.
La prima contestazione concerne la cessione ad opera della
contribuente, il 21 ottobre 1999, della azienda di lavorazione e
stampaggio di acciai per lire 100.000.000 alla ACSA Steel Forging
spa alla quale in precedenza, nel marzo del 1997, quando
quest’ultima era appena stata costituita, la medesima azienda era
stata affittata al canone di lire 7.500.000.000, elevato qualche
settimana dopo a lire 9.500.000.000; due mesi dopo la cessione
dell’azienda, il 29 dicembre 1999, i beni strumentali, le
attrezzature, erano state vendute alla stessa ACSA Steel Forging
spa per lire 2.000.000.000. L’ufficio riteneva che l’accordo
dell’ottobre 1999 fosse stato stipulato in frode alla legge o
quanto meno in via elusiva, ed aveva perciò accertato
induttivamente, ai sensi dell’art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del
1973 un maggiore valore del bene determinando conseguentemente
l’imposta con l’avviso.
Il giudice d’appello, premesso che si discute di imposta
sui redditi e non di registro, con la conseguenza che onere
dell’amministrazione non è dimostrare il maggior valore del bene
azienda ceduto, ma “provare che tra le parti sono “transitati”
prezzi effettivi maggiori di quelli praticati, con conseguenti
maggiori ricavi e dunque maggiori imposte”, osserva che occorre

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contestato il carattere elusivo di operazioni collegate poste in

stabilire se, al di là del valore dichiarato o accertato, siano
passate tra le parti somme superiori a quelle ricavate dalla
lettura degli atti; ed in proposito “l’onere probatorio,
incombente sull’ufficio, non può dirsi assolto, non essendovi
traccia

di accertamenti bancari o di documentazione

extracontabile che deponga in tal senso, na solo una serie di
presunzioni, ben poco precise e concordanti. E’ certo vero che
l’azienda valeva molto più dei 100 milioni stabiliti dalle parti,
anni prima, tanto che in sede di accertamento di imposta di
registro tale valore è stato aumentato fin a oltre due miliardi.
Ma non c’è alcuna prova certa che ACSA non abbia inteso cedere a
prezzo vile il bene. In fondo si tratta di beni appartenenti allo
stesso gruppo, ed è ben possibile che in un’ottica di gruppo si
sia deciso di transitare l’azienda da ACSA spa a ACSA Steel
Forgings spa a cifre irrisorie Argomentare_ sull’ammontare dei
canoni di affitto di due anni prima giova a poco. Nulla è stato
detto, e nulla è stato provato, circa il fatto che tra il 1997 ed
il 1999 il valore dell’azienda sotto il profilo del suo
avviamento sia drammaticamente crollato e che dunque la contenuta
cifra su cui le parti si sono trovate d’accordo rispecchi
veramente la realtà”.
La seconda contestazione concerne la deducibilità della
ninusvalenza realizzata dalla società contribuente per effetto
dell’alienazione del diritto di usufrutto su azioni della ACSA
Steel Forgings spa, contro il pagamento di un corrispettivo al
nudo proprietario, la lussemburghese Societè Financière
Senningerberg S.A., con atto del 18 marzo 1997, e con un secondo
atto del 1 ° luglio 1997, il quale prevedeva l’aumento del
corrispettivo, ma ometteva, rispetto al primo, la considerazione
del periodo 01.07.2000-30.06.2001, e quindi la relativa quota
annuale di lire 8.500.000.000, la quale, non essendo, cone si è
visto, prevista dalle parti nel contratto, non poteva essere
presa in considerazione ai fini del calcolo della minusvalenza.
Secondo la società contribuente si sarebbe trattato solo di
un errore contabile, e quindi essa avrebbe pagato alla nuda
proprietaria tutti i corrispettivi di godimento, anche per il
periodo “mancante” (01.07.2000-30.06.2001), mentre per l’ufficio

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come emerge dai canoni d’affitto, stabiliti e pure aumentati due

in quel periodo i corrispettivi sarebbero stati cone da contratto
sospesi, sicché “essi non possono essere calcolati allorché è
emersa la minusvalenza”.
Il giudice d’appello ha ritenuto non provato l’errore
addotto dalla contribuente, in mancanza di “prove documentali
convincenti in tal senso, cone scambio di lettere, nuovi accordi
scritti, contratti pre negoziali, storni di pagamento etc.”, ed
apparendo “inverosimile che le parti non si siano accorte prima
nella successione delle rate”.
La ACSA spa resiste con controricorso articolando due
notivi di ricorso incidentale, illustrati con successiva memoria,
concernente il secondo rilievo, che l’ha vista soccombente in
appello.
RAGICNI DELLA DECISICNE

Con l’unico motivo del ricorso principale l’ammànistrazione
denuncia “omessa o insufficiente motivazione su punti di fatto
decisivi, in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c. Violazione e
falsa applicazione dell’art. 37 bis d.P.R. 29 settembre 1973, n.
600, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.”. Richiamando la
ricostruzione della vicenda operata nell’atto di appello, in
larga parte trascritto, osserva che il punto decisivo andrebbe
individuato nella risoluzione del contratto di affitto di
azienda, avvenuta contestualmente alla cessione d’azienda,
scorporandone in realtà i beni strumentali per cederli, per lire
2 miliardi, con un successivo contratto del dicembre 1999. Era
così rimasta da cedere un’azienda al netto dei beni strumentali,
alla quale si era attribuito il valore residuo di lire
100.000.000: “tuttavia, il contratto di affitto di azienda nella
stessa data in cui venne stipulata la cessione dell’azienda era
stato risolto indicando un valore residuo dell’azienda a quel
momento – ottobre 1999 – di ben lire 17.963.275.300, il che
escludeva che, anche al netto dei beni strumentali valutati lire
2.000.000.000, il valore residuo dell’azienda potesse essere pari
a lire 100.000.000_ con la conseguenza che il detto complesso di
negozi tendeva solo a mascherare tale valore effettivo in modo
che non dovesse emergere nell’atto di cessione e generare una
plusvalenza tassabile. L’amministrazione censura perciò la

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dell’accertamento, di molto successivo al 1999, di quel “buco”

decisione per aver offerto una motivazione insufficiente del
convincimento (della CTR) che il valore netto dei beni
strumentali potesse anche essere pari a lire 100.000.000, perché
basato solo sul fatto che non sarebbe stato contestato il calo di
utili dedotto dalla società, laddove l’ufficio aveva dedotto
altra circostanza di fatto – la stima in lire 17.963.275.300 del
valore dell’azienda al 21 ottobre 1999 fatta dalle medesime parti
lo stesso giorno in cui venne stipulata la cessione di azienda –

conclusione diversa circa il valore dell’azienda ceduta al netto
dei beni strumentali. Trascurando di motivare a tale proposito la
CTR avrebbe offerto una motivazione insufficiente su un punto di
fatto decisivo – gli indizi del reale valore dell’azienda, al
netto dei beni strumentali, al momento della cessione – al fine
di valutare la congruità economica del negozio di cessione, e
così di qualificarlo come negozio elusivo o meno.
Del pari insufficiente sarebbe la motivazione addotta dalla
CTR per smentire la ricostruzione dell’ufficio, secondo cui
questo non avrebbe fornito indizi di pagamenti effettivi
superiori a quelli dichiarati. Il punto, infatti, sarebbe
giuridicamente irrilevante, donde anche la denunciata violazione
dell’art. 37 bis del d.P.R. 600 del 1973, perché la tesi di esso
ufficio dichiaratamente basata su tale norma era che i negozi
fossero stati elusivi, cioè volti ad impedire che la plusvalenza
si formasse, con i suoi effetti fiscali, non che fosse stato
occultato un maggior corrispettivo effettivamente pagato: tali
negozi dovevano quindi essere disconosciuti e sostituiti con la
stima del valore normale dell’azienda ceduta.
Le censure sono fondate.
A norma dell’art. 37 bis del d.P.R. n. 600 del 1973,
infatti, sono inopponibili all’amministrazione finanziaria gli
atti i fatti e i negozi – fra i quali sono espressamente previsti
i negozi aventi ad oggetto il trasferimento o il godimento di
aziende -, anche collegati fra loro, privi di valide ragioni
economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti
dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o
rimborsi, altrimenti indebiti.

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che avrebbe potuto condurre, se adeguatamente motivato, a

Incorre quindi nell’errore di diritto ad essa addebitato la
CTR, la quale postula invece essere essenziale stabilire (“ora
incombe il compito di stabilire…i’) “se tra le parti siano passate
somme superiori a quelle ricavate dalla lettura degli atti”, e
rileva che “non v’è traccia di accertamenti bancari o di
documentazione extra contabile che deponga in tal senso, ma solo
una serie di presunzioni ben poco precise e concordanti”. Il
giudice d’appello erroneamente configura la condotta abusiva

pagato, piuttosto che riscontrare nei negozi collegati lo schema
elusivo contestato.
Secondo il principio in più occasioni affermato da questa
Corte, infatti, “in materia tributaria, costituisce condotta
abusiva l’operazione economica che abbia quale suo elemento
predominante ed assorbente lo scopo di eludere il fisco, sicché
il divieto di siffatte operazioni non opera qualora esse possano
spiegarsi altrimenti che con il mero intento di conseguire un
risparmio di imposta, fermo restando che incombe
sull’Amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo
che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi
negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale
logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel
risultato fiscale: in applicazione dell’anzidetto principio, la
S.C. ha cassato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto che
l’Agenzia delle Entrate non avesse fornito la prova che l’intento
economico unico dell’operazione fosse un indebito risparmio
fiscale, senza invece valorizzare i diversi elementi sintomatici
della sussistenza dell’abuso allegati dalla stessa” (Cass. n.
4603 del 2014, n. 9610 del 2017).
Va del pari ravvisato nella decisione impugnata il vizio di
motivazione.
A fronte delle articolate deduzioni formulate nuovamente
dall’ufficio nell’appello secondo cui i negozi collegati
tendevano solo a mascherare il valore effettivo della cessione
d’azienda in modo che esso non emergesse nell’atto di cessione e
generasse una plusvalenza tassabile; e secondo cui la risoluzione
del contratto di affitto dell’azienda (stipulato il 19 marzo
1997 per lire 7.500.000.000 annui, poi elevato il 1 ° luglio 1997

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nell’occultamento di un maggiore corrispettivo effettivamente

a lire 9.500.000.000 annui) nella stessa data in cui veniva
stipulata la cessione dell’azienda, indicando un valore residuo
dell’azienda a quel momento, ottobre 1999, di ben lire
17.963.275.300, portava ad escludere che, anche al netto dei beni
strumentali valutati lire 2.000.000.000, il valore residuo
dell’azienda potesse essere pari a lire 100.000.000 – il giudice
d’appello ha dato una motivazione – oltre che tutt’altro che
immune dall’erronea applicazione della norma dell’art. 37 bis del
perplessa, su un punto di fatto decisivo, gli elementi per
individuare il reale valore dell’azienda al momento della
cessione, al fine di valutare la congruità economica del negozio
di cessione, e cosi di qualificarlo come negozio elusivo o meno,
e quindi che il valore della cessione, anche al netto dei beni
strumentali, potesse essere pari a lire 100.000.000, osservando
“che è certo vero che l’azienda valeva molto di più dei 1000
milioni stabiliti dalle parti, come emerge dai canoni d’affitto,
stabiliti e pure aumentati due anni prima, tanto che in sede di
accertamento dell’imposta

di registro tale valore è stato

aumentato fino a oltre 2 miliardi. In fondo non c’è alcuna prova
certa che ACSA non abbia inteso cedere a prezzo vile il bene. In
_fondo si tratta di entità appartenenti allo stesso gruppo, ed è
ben possibile che, in un’ottica oU gruppo, si sia deciso di far
transitare l’azienda da ACSA spa ad ACSA Steel Fbrging a cifre
irrisorie. Se ciò può apparire difficilmente verosimile, si deve
però rammentare che l’azienda oU cui si discute è quella priva di
beni strumentali_ Argomentare_ sull’ammontare

dei

canoni

d’affitto di due anni prima giova a poco. Nulla è detto (e nulla
è stato provato) circa il fatto che tra il 1997 e il 1999 il
valore dell’azienda sotto il profilo del suo avviamento sia
drammaticamente crollato e che dunque la contenuta cifra su cui
le parti si sono trovate d’accordo rispecchi veramente la
realtà”.
Col primo motivo del ricorso incidentale la contribuente
denuncia, in riferimento all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.,
violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 e dell’art. 1362
cod. civ., in tema di onere della prova circa la volontà delle
parti di un contratto, assumendo che la CTR avrebbe dovuto

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d.P.R. n. 600 del 1973 di cui supra – insufficiente, inadeguata e

analizzare il testo degli accordi conclusi dalle parti (quello
originario e la successiva integrazione) prodotti in giudizio
dalla contribuente e da quelli desumere la volontà dei
contraenti: esigendo non ben precisate prove documentali,
peraltro non nella disponibilità della contribuente, la CTR
avrebbe violato il disposto delle norme in rubrica; con il
secondo, denuncia insufficiente motivazione circa un fatto
controverso e decisivo del giudizio con riferimento all’art. 360,
avrebbe tenuto conto del fatto che le parti, nell’addivenire
all’accordo integrativo, avevano espresso la volontà di integrare
l’originario accordo, e non di sostituirlo.
I due motivi, da esaminare congiuntamente in quanto
strettamente legati, sono in parte inammissibili ed in parte
infondati.
Quanto al primo, la ricorrente non sembra individuare una
specifica violazione di legge, limitandosi a richiedere una
diversa lettura del materiale probatorio.
Con riguardo al secondo motivo, il Collegio osserva che
secondo il proprio consolidato indirizzo “il vizio di cui
all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. non conferisce alla Corte di
cassazione il potere di riesaminare e valutare autonomamente il
merito della causa ma solo quello di controllare, sotto il
profilo logico – formale e della correttezza giuridica – in
relazione ad un punto decisivo della controversia prospettato
dalle parti o rilevabile d’ufficio -, le argomentazioni svolte
dal giudice del merito, al quale esclusivamente spetta
individuare le fonti del proprio convincimento, esaminare le
prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere
tra le risultanze istruttorie quelle ritenute più idonee a
dimostrare i fatti in discussione, dare la prevalenza all’uno o
all’altro mezzo di prova, salvi i casi tassativamente previsti
dalla legge” (ex mu/tis, Cass. n. 5806 del 2000, n. 4766 del
2006).
Nella specie, il giudice di merito ha dato conto dei
criteri seguiti nell’esame del materiale probatorio e della
ragioni della prevalenza accordata all’uno o all’altro elemento,
con motivazione priva di vizi logici.

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n. 5, cod. proc. civ., assumendo che il giudice di merito non

La Commissione regionale ha ritenuto non provato l’errore
addotto dalla contribuente in quanto “non vi sono in atti prove
documentali convincenti in tal senso come scambio di lettere,
nuovi accordi scritti, contatti pre-negoziali, storni di
pagamenti etc.”. La tesi secondo cui non vi sarebbe stata ragione
perché le parti non prevedessero per quell’anno il pagamento per
il godimento del bene “è però mera asserzione che lascia il tempo
che trova,_ _una petizione di principio, potendo essere mille e

contratto non si debba far luogo a pagamenti_ _ Appare viceversa
inverosimile che le parti non si siano accorte prima
dell’accertamento (di molto successivo al 1999) di quel “buco”
nella successione delle rate. Stiamo parlando infatti di cifre
imponenti: oltre 8 miliardi, che ogni contabile interno o ogni
organo di controllo (collegio sindacale, società di revisione,
istituti bancari) non avrebbe mancato di notare e segnalare.
Ebbene solo una convincente documentazione bancaria e contabile
potrebbe smentire la netta sensazione che non si sia trattato di
un mero errore, ma di una precisa scelta contrattuale. E si badi,
che dovrebbe trattarsi dei documenti contabili (illustranti
l’operatività economica) e bancari (illustranti l’effettività del
movimento finanziario) realmente pertinenti”. A tal proposito,
“la società appellante ha prodotto solo le contabili bancarie e
le annotazioni del libro giornale di ACSA limitatamente al
periodo 1997-1999 e non quello 2000-2001. Si è ben consci che si
tratta di documenti contabili da richiedersi a terzi, la Finarmo
usufruttuaria

[recte,

nuda proprietaria] del bene dal 1999 in

poi. Tuttavia si ritiene che tale documentazione avrebbe potuto
essere oggetto di una istanza istruttoria apposita alla
Commissione, cosa che ci si è ben guardati dal fare, né in sede
giudiziaria (in primo e secondo grado), né (ed è quel che più
conta), in sede di verifica preliminare all’accertamento oib qua”.
In conclusione, il ricorso principale deve essere accolto,
mentre va rigettato il ricorso incidentale, la sentenza impugnata
deve essere cassata in relazione al motivo accolto e la causa
rinviata, anche per le spese, alla Commissione tributaria
regionale della Lombardia in diversa composizione.
P.Q.M.

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una le cause per cui si decida che per un certo periodo del

La Corte accoglie il ricorso principale e rigetta il
ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al
motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Commissione
tributaria regionale della Lombardia in differente composizione.

Cosi deciso in Roma il 20 febbraio 2017

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