Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 41465 del 24/12/2021
Cassazione civile sez. lav., 24/12/2021, (ud. 28/09/2021, dep. 24/12/2021), n.41465
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –
Dott. SPENA Francesca – Consigliere –
Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –
Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 16652-2016 proposto da:
S.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE
MILIZIE n. 124, presso lo studio dell’avvocato dall’avvocato CARLA
CORDESCHI, rappresentato e difeso dall’avvocato ANDREA PETTINI;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI FIRENZE, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA POLIBIO N. 15, presso lo studio
dell’avvocato GIUSEPPE LEPORE, rappresentato e difeso dagli avvocati
SERGIO PERUZZI, ALESSANDRA CAPPELLETTI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 750/2015 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,
depositata il 05/01/2016 R.G.N. 893/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
28/09/2021 dal Consigliere Dott. BELLE’ ROBERTO.
Fatto
FATTI DI CAUSA
1. La Corte d’appello di Firenze, confermando la sentenza dei Tribunale della stessa città, ha respinto la domanda di S.L., da essa intesa come finalizzata ad ottenere la condanna del Comune di Firenze al risarcimento del danno D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 36, per illegittima stipula di contratti di collaborazione coordinata e continuativa (di seguito, co.co.co.) in assenza dei presupposti richiesti dalla legge per il ricorso della P.A. a questa tipologia contrattuale;
in particolare, la Corte territoriale ha ritenuto che la domanda fosse stata formulata nel senso di richiedere il risarcimento del danno Eurounitario per la stipula e reiterazione di co.co.co. al di fuori dei casi in cui ciò era consentito e che era irrilevante ed estraneo alla causa petendi azionata il richiamo, pur sussistente in atti, alla subordinazione;
2. lo S. ha proposto ricorso per cassazione con quattro motivi, resistiti da controricorso del Comune ed ambo le parti hanno poi depositato memoria.
Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, affermando che la Corte territoriale si sarebbe pronunciata oltre le richieste avanzate dall’appellante e dall’appellato, in quanto il Tribunale aveva qualificato la domanda nel senso che il risarcimento era stato chiesto (anche) previa affermazione della subordinazione e che dunque i giudici di appello avrebbero indebitamente proceduto alla riqualificazione, per escludere la questione sulla subordinazione dall’ambito del decidere, senza che vi fosse stato gravame sul punto ad opera di nessuna delle parti;
il secondo motivo adduce ulteriormente, sempre ex art. 360 c.p.c., n. 4, la violazione dell’art. 112 c.p.c., nonché, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dei canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 ss. c.c.;
con esso si sostiene che la Corte territoriale avrebbe erroneamente inteso la domanda giudiziale, cui non era estranea la deduzione in ordine alla subordinazione, tanto che ad essa era dedicata buona parte del ricorso introduttivo e alla stessa si riferivano le prove dedotte, profili tutti che, in un’interpretazione complessiva della pretesa, non avrebbero consentito di fermarsi all’affermazione iniziale in ordine al fatto che la domanda non vertesse sul riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato, né sulla legittimità o meno di contratti di lavoro a termine stipulati ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001;
2. i due motivi possono essere esaminati congiuntamente, data la loro connessione e sono fondati;
3. dal punto di vista logico è preliminare la questione sull’interpretazione della domanda giudiziale;
essa è stata dedotta sia con il richiamo ai canoni ermeneutici propri dei negozi ed atti unilaterali (artt. 1362 ss. c.c.), sia come diretta violazione dell’art. 112 c.c. ed è in quest’ultima prospettiva che essa è da aversi per correttamente impostata;
infatti, come precisato dalle Sezioni Unite di questa Corte “quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, sostanziandosi nel compimento di un’attività deviante rispetto ad un modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore (…) il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purché la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito (ed oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4” (Cass., S.U., 22 maggio 2012, n. 8077);
in quella sede il tema riguardava la validità degli atti introduttivi, ma è evidente che il principio orienta necessariamente nel senso che anche altre questioni, sulla scia di quell’arresto (v. Cass. 28 novembre 2014, n. 25308 e Cass. 19 agosto 2020, n. 17268, che ne hanno fatto applicazione rispetto alla specificità dell’appello) non possano che seguire analogo percorso giuridico, tra cui quella che riguarda l’interpretazione della portata, ai fini e per gli effetti dell’art. 112 c.p.c., dell’originaria domanda giudiziale, consentendo alla S.C. l’esame diretto della correttezza delle valutazioni in proposito rese dai giudici di merito, senza necessità (né possibilità) di fare riferimento alla violazione, in quanto tali, delle norme del codice civile sui canoni ermeneutici riguardanti i negozi e gli atti unilaterali, potendo semmai servire, tali canoni, a disvelare regole di esperienza utili a giustificare le operazioni interpretative dirette da compiere;
d’altra parte, nel caso di specie, il motivo, riportando integralmente il contenuto del ricorso di primo grado ed argomentando in specifico sui punti cruciali e critici, risponde agli scopi che governano l’ingresso in sede di legittimità dell’atto da disaminare;
3.1 ciò posto, è a dirsi che l’interpretazione fornita dalla Corte territoriale, nel senso che la pretesa esercitata era finalizzata a far valere puramente e semplicemente l’illegittimità del ricorso alla reiterazione di contratti di lavoro autonomo in violazione della normativa che ne legittimava l’adozione da parte della P.A. è riduttiva rispetto al contenuto del ricorso;
in più passaggi del ricorso si fa infatti riferimento al fatto che il rapporto fosse “riconducibile al lavoro subordinato” (punto 7 della ricostruzione in fatto), che il tentativo di conciliazione era stato avviato sul presupposto della qualificazione del rapporto “in termini di lavoro subordinato di natura pubblica” (punto 9 sempre della ricostruzione in fatto), che vi fosse una “riconducibilità sostanziale al rapporto subordinato” (secondo punto dedicato all’oggetto del giudizio) e che “tale posto andava senz’altro ricoperto con l’assunzione di personale a tempo indeterminato”;
l’intero punto 3 del ricorso è poi dedicato alla ricostruzione dell’attività svolta come di natura subordinata e le prove testimoniali riguardano (capi da 11 a 15 e poi capi 17 e 18) circostanze destinate a dimostrare tale assunto;
non può dunque essere condivisa una lettura formalistica dell’atto introduttivo che prescinda da tali passaggi, che viceversa contribuiscono a connotarne il contenuto;
e’ ben vero che, nel parlare dell’oggetto del processo, il ricorso afferma che “il giudizio non verte sul riconoscimento di un rapporto di lavoro né sulla legittimità o meno di contratti di lavoro a termine stipulati ai sensi del d. lgs. 368/2001”; tuttavia, analogamente a quanto accade per gli atti negoziali, il significato non può essere limitato “al senso letterale delle parole” e le diverse affermazioni vanno intese “le une per mezzo delle altre”, evitando di dover ritenere parti pur cospicue delle esposizioni introduttive come sostanzialmente prive di qualsiasi effetto o significato (il richiamo va alle corrispondenti regole, utilizzabili come detto quali parametri di esperienza e logica, di cui agli artt. 1362,1363 e 1367 c.c.);
in tale prospettiva, è evidente che le affermazioni sul fatto che il giudizio non riguardava il riconoscimento di un lavoro subordinato sta a significare, come spiegato anche nel ricorso per cassazione ed in coerenza con le conclusioni assunte in primo grado, che non vi era richiesta di regolarizzazione sul piano retributivo e previdenziale, ma non che tra le illegittimità addotte dei co.co.co non vi fosse il corrispondere dell’attività svolta a quella propria di un lavoro dipendente;
così come l’essersi escluso che si discutesse “sulla legittimità o meno di contratti a termine stipulati ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001” significava semplicemente che la precarizzazione del ricorrente veniva evidenziata sotto il profilo dell’utilizzazione abusiva di forme autonome non genuine, come poi si ha riscontro nell’impostazione data al ricorso, ove i due rapporti di lavoro subordinato a tempo determinato sono meno centrali nelle argomentazioni difensive, rivolte soprattutto ad evidenziare la reiterata utilizzazione di co.co.co. (nel ricorso ne risultano elencati nove) del tutto prevalenti per numero e durata complessiva;
3.2 va dunque condiviso l’assunto del ricorrente secondo cui l’azione andava intesa come finalizzata a far (anche) accertare incidentalmente la natura subordinata dell’attività per come svolta, con finalità risarcitoria rispetto all’effetto precarizzante che sarebbe derivato da quella reiterazione di rapporti sostanzialmente di lavoro dipendente, di durata temporalmente definita, illegittimamente configurati – in tale prospettazione la cui fondatezza resta evidentemente ancora da accertare – come co.co.co.;
3.3 da questo punto di vista assume significato anche quanto dedotto con il primo motivo – del resto coerentemente con quanto riepilogato della sentenza di primo grado alle pag. 3 e 4 del controricorso – ovverosia che già il giudice di prime cure così intese la domanda, quando ne spiegò il contenuto nel senso che il risarcimento del danno veniva chiesto per la reiterazione dei co.co.co. ma – lo stesso Tribunale pone il passaggio incidentalmente – “affermata la subordinazione sostanziale del rapporto”;
giungendo poi il Tribunale – come ancora coerentemente affermano gli atti di entrambe le parti – a disattendere la pretesa “a prescindere dalla sostanziale qualificazione come subordinato del rapporto svoltosi tra le parti” e per il solo fatto che era impossibile, sempre secondo il Tribunale, riconoscere il risarcimento da reiterazione abusiva per il trattarsi di co.co.co.;
sicché non è errato quanto sostiene il ricorrente allorquando rileva come, a fronte della mancata impugnazione di tale qualificazione della pretesa, non avrebbe potuto, il giudice di secondo grado, virarne il significato fino ad escludere qualsiasi rilevanza alla dedotta subordinazione;
3.4 d’altra parte, l’insistenza del ricorrente per una corretta qualificazione della sua domanda non è fuori luogo, avendo questa S.C. – a differenza di quanto ritenuto dal Tribunale – affermato che “in tema di pubblico impiego privatizzato, qualora la P.A. faccia ricorso a successivi contratti formalmente qualificati di collaborazione coordinata e continuativa e il lavoratore ne alleghi l’illegittimità anche sotto il profilo del carattere abusivo della reiterazione del termine, il giudice è tenuto ad accertare se di fatto si sia instaurato un rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato e a riconoscere al lavoratore, in assenza dei presupposti richiesti dalla legge per la reiterazione, il risarcimento del danno, alle condizioni e nei limiti necessari a conformare l’ordinamento interno al diritto dell’Unione Europea” (Cass. 8 maggio 2018, n. 10951);
indebita precarizzazione di cui chiaramente consisteva la pretesa, quale esercitata manifestando a più riprese che le prestazioni pluriennali richieste avrebbero dovuto essere perseguite dal Comune attraverso l’immissione in ruolo, almeno in forma part-time;
3.5 entrambi i motivi sono dunque fondati, il che comporta l’assorbimento del terzo e del quarto motivo, in quanto riguardanti il merito dell’accertamento conseguente alla riqualificazione nei termini sopra detti della domanda giudiziale;
4. la sentenza impugnata va dunque cassata, con rinvio alla medesima Corte d’Appello affinché decida la causa sulla base della domanda giudiziale come da intendere in base a quanto sopra indicato al punto 3.2.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo ed il secondo motivo di ricorso, assorbiti il terzo ed il quarto, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’Appello di Firenze, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 28 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 24 dicembre 2021