Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4146 del 13/02/2019

Cassazione civile sez. III, 13/02/2019, (ud. 07/11/2018, dep. 13/02/2019), n.4146

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14852-2014 proposto da:

D.B.V.F., I.A., D.B.L., nella loro

qualità di eredi legittimi del defunto D.B.E.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA FILIPPO NICOLAI 16/A, presso

lo studio dell’avvocato MARCO ZELLI, che li rappresenta e difende

giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

DIRECT LINE ASS.NI SPA, in persona del legale rappresentante pro

tempore Dott. B.F., elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA CALAMATTA 16, presso lo studio dell’avvocato MARCELLO CALDERONE,

rappresentata e difesa dagli avvocati MAURIZIO HAZAN, STEFANO

TAURINI giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

E.C.M.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 5629/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 05/12/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/11/2018 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARDINO Alberto, che ha concluso per il rigetto;

udito l’Avvocato MARCO ZELLI;

udito l’Avvocato FEDERICA ROSATI per delega orale.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso depositato al Tribunale di Roma in data 4 giugno 2007 D.B.V.F., I.A. e D.B.L., eredi e rispettivamente genitori e fratello di D.B.E. – deceduto a seguito di un sinistro stradale del 19 novembre 2005 in cui come conducente di un motociclo si era scontrato con un’auto guidata dalla proprietaria E.C.M. assicurata con Direct Line Assicurazioni S.p.A. – agivano contro E.C.M. e Direct Line Assicurazioni S.p.A. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni. Adducevano che vi era stato un urto frontale dell’automobile, che aveva invaso l’opposta corsia percorsa dal motociclista, e che quest’ultimo era deceduto sulla strada circa trenta minuti dopo lo scontro. Dando atto che la compagnia assicuratrice, sul presupposto di un concorso di colpa del motociclista, aveva versato le somme di Euro 44.600 al padre del deceduto, Euro 43.000 alla madre e Euro 14.000 al fratello, chiedevano in particolare il risarcimento del danno biologico patito da D.B.E. come invalidità permanente al 100% essendo egli sopravvissuto per un certo tempo dopo il sinistro, il risarcimento del loro danno non patrimoniale derivato dall’essere stati congiunti conviventi del deceduto, il danno patrimoniale per le spese funerarie, il danno biologico conseguente al luttuoso evento nella misura permanente del 15% per la madre, del 6% per il padre e del 7% per il fratello, il danno da perdita di chances per le aspettative lavorative e sportive (quale calciatore tesserato in una società dilettantistica) di D.B.E., che aveva diciassette anni al momento dell’incidente, e infine il danno patrimoniale subito dal padre per la diminuzione del reddito in conseguenza del tragico evento.

Si costituiva la compagnia assicuratrice sostenendo la corresponsabilità del motociclista per non aver indossato il casco e per mancanza di prova dell’invasione della corsia da parte dell’automobile, nonchè lamentando l’eccessività del quantum risarcitorio richiesto. Rimaneva contumace la E.C..

Il Tribunale di Roma, con sentenza del 29 ottobre 2009, dichiarava la E.C. esclusivamente responsabile del sinistro e condannava solidalmente i convenuti, detratto quanto già versato, a risarcire i danni nella misura complessiva di Euro 212.310 per il padre, Euro 208.833 per la madre e Euro 137.779 per il fratello, oltre agli accessori e al 50% delle spese processuali.

Avendo i congiunti del deceduto proposto appello principale e la compagnia assicuratrice appello incidentale, la Corte d’appello di Roma, con sentenza del 5 dicembre 2013, condannava la compagnia e la E.C. a rifondere ai congiunti l’ulteriore 50% delle spese processuali di primo grado, per il resto rigettando sia l’appello principale sia l’appello incidentale, e compensando le spese di secondo grado.

2. Hanno presentato ricorso D.B.V.F., I.A. e D.B.L., sulla base di tre motivi, da cui si è difesa con controricorso la compagnia assicuratrice, nel frattempo divenuta Direct Line Insurance S.p.A..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

3.1.1 Il primo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione degli artt. 2043 e 2059 c.c..

Il giudice d’appello avrebbe rigettato il primo motivo del gravame principale concernente il risarcimento del danno biologico jure hereditatis per essere D.B.E. sopravvissuto pochi minuti dopo il sinistro. L’istruttoria invece avrebbe accertato che egli sarebbe morto dopo mezz’ora, tempo che la corte territoriale avrebbe comunque ritenuto un lasso temporale insufficiente. Viene richiamata giurisprudenza di questa Suprema Corte (Cass. 1361/2014) per cui il danno non patrimoniale da perdita della vita rileva ex se, indipendentemente dalla consapevolezza del danneggiato, e sussiste risarcimento anche per morte immediata, e si afferma che questo, definito nuovo orientamento, identifica il bene leso nella vita e non nella salute. Il giudice d’appello avrebbe ritenuto decisiva per la risarcibilità del danno la natura del bene leso, che sarebbe il diritto alla salute, diritto personale. Ma la trasmissibilità agli eredi obiettano i ricorrenti – è possibile pure per il risarcimento da lesione del diritto personale. Paradossalmente la corte territoriale avrebbe ritenuto riconosciuto anche il diritto alla vita, ma lo avrebbe inteso nel senso di poter continuare a stare in salute. Quindi il bene vita sarebbe strumentale, e non autonomo, onde la corte incorrerebbe in una motivazione contraddittoria. Non sarebbe comunque insostenibile la trasmissione agli eredi dell’acquisizione del diritto da parte della vittima nello stesso momento in cui il diritto viene meno: “i diritti non vivono in uno spazio temporale, ma in uno spazio logico”.

3.1.2 La Corte d’appello in effetti svolge sulla questione in esame un ragionamento ampio ma anche non del tutto lineare (alle pagine 6 ss. della motivazione). Dapprima afferma (pagina 6) che “il motociclista trovò la morte immediatamente” perchè dalle prove “risulta che il giovane rimase in vita pochi minuti con interruzione del battito cardiaco intervenuta rapidamente dopo l’arrivo dei primi soccorsi, ed in una situazione in cui il soggetto “non aveva coscienza”…il defunto non poteva trasferire ai suoi eredi alcunchè”. Poi enuncia (pagina 7) che il motociclista è sopravvissuto “per circa trenta minuti (spingendo al massimo l’incerta durata…)” e rileva che tale non è un tempo “apprezzabile” per il risarcimento del danno biologico, “anche” per la “immediata perdita di coscienza”. In seguito osserva che “ciò che risulta decisivo per escludere la risarcibilità di detto danno…a titolo di danno successorio” è che il bene leso è il bene salute, “che attiene ad un diritto strettamente personale del suo titolare” (pagina 7). E giunge successivamente a dichiarare (pagina 8) che ai sensi dell’articolo 32 Cost. al diritto alla salute (id est diritto all’integrità psico-fisica) “va affiancato il diritto alla vita”. Quindi il danno alla salute non sussiste in caso di morte istantanea o avvenuta “in un tempo tanto breve” da non poter fondare la richiesta di risarcimento del danno alla salute “compromesso durante il periodo di sopravvivenza”. E ancora, contraddicendo quanto prima affermato sul diritto strettamente personale che ha per oggetto il bene salute, riconosce che se la sopravvivenza si protrae “il defunto trasferisce agli eredi un diritto di credito (quello nascente dal fatto lesivo) che è già entrato nel suo patrimonio” come accade “per ogni altro diritto appartenente al defunto”. Ne deriva che, in caso di danno alla salute, “personalissimo” per le sue conseguenze, “non v’è tanto questione di intrasmissibilità del diritto in quanto personale…ma piuttosto una questione di rilevanza dell’effettiva insussistenza di menomazioni psico-fisiche” del deceduto per il sinistro. E il diritto al risarcimento del danno “che nasce dalla lesione del diritto alla salute non può prescindere dalla valutazione delle conseguenze negative… per effetto dell’evento dannoso”: nel caso in esame, allora, “dove la morte avvenne subito dopo il violento urto e prima del ricovero ospedaliero”, non è “ipotizzabile alcuna menomazione del bene salute”. In tal modo viene rigettato il primo motivo d’appello che aveva chiesto (come viene sintetizzato a pagina 6 della motivazione) il risarcimento del danno biologico jure hereditatis essendo il congiunto deceduto “dopo alcune decine di minuti”.

3.1.3 Le ambiguità riscontrabili nella motivazione della sentenza impugnata rispecchiano, in sostanza, le incertezze presenti nella giurisprudenza ad essa contemporanea, che furono sanate da uno specifico intervento nomofilattico: S.U. 22 luglio 2015 n. 15350.

Nell’arresto delle Sezioni Unite viene in sostanza confermata l’unitarietà del danno non patrimoniale, riconoscendo che questo tipo di danno non patrimoniale può essere ricondotto tanto all’aspetto biologico in senso stretto – nel settore psichico – quanto alla correlata sofferenza d’animo; e si rileva che l’unica distinzione evincibile dai maturati orientamenti giurisprudenziali concerne la qualificazione, ai fini della liquidazione, del danno risarcibile, nel senso che un orientamento, con “mera sintesi descrittiva”, lo indicava come “danno biologico terminale”, mentre un altro come “danno catastrofale”, “con riferimento alla sofferenza provata dalla vittima nella cosciente attesa della morte seguita dopo apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni”. Quando intervennero le Sezioni Unite, alcune sentenze di sezioni semplici avevano attribuito al danno catastrofale “natura di danno morale soggettivo”, e altre natura di “danno biologico psichico”; peraltro le Sezioni Unite hanno rimarcato che “da tali incertezze” (solo formali, quindi) non deriva effettiva diversità nelle liquidazioni.

Invero – chiarisce il supremo giudice nomofilattico – se la morte è immediata o segue alle lesioni “entro brevissimo tempo” non sussiste diritto al risarcimento jure hereditatis alla luce di un orientamento risalente che in tal modo le Sezioni Unite hanno confermato, osservando altresì che l’attuale impostazione pone “il danno al centro” del sistema della responsabilità civile, sempre più oggettiva; danno che deve identificarsi (come si evince dalla sentenza 372/1994 della Consulta) in “perdita cagionata da una lesione di una situazione giuridicamente soggettiva”. Nel caso di morte per atto illecito – rilevano ancora le Sezioni Unite – il conseguente danno è la perdita del bene giuridico “vita”, che è “bene autonomo”, fruibile solo dal titolare e non reintegrabile per equivalente. “La morte, quindi, non rappresenta la massima offesa possibile del diverso bene “salute”… E poichè una perdita, per rappresentare un danno risarcibile, è necessario che sia rapportata a un soggetto che sia legittimato a far valere il credito risarcitorio, nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, l’irrisarcibilità deriva (non dalla natura personalissima del diritto leso… poichè… ciò di cui si discute è il credito risarcitorio, certamente trasmissibile, ma) dalla assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito, ovvero dalla mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo”. Richiamato il c.d. argomento epicureo come fondante questa soluzione, le Sezioni Unite hanno pure corroborato la loro impostazione sulla base della necessità di una giustificata proporzione del risarcimento al danno.

Alla luce di quanto insegnato dal sopravvenuto intervento delle Sezioni Unite (la cui linea, tra gli arresti massimati, è stata poi seguita da Cass. sez. 3, 23 marzo 2016 n. 5684 – che tra l’altro segnala un sostanziale parallelismo già rinvenibile in S.U. 11 novembre 2008 nn. 26772 e 26773 – e Cass. sez. 3, 19 ottobre 2016 n. 21060) il motivo non può essere accolto, considerata la spiccata brevità del tempo intercorso tra la lesione e il decesso del motociclista mezz’ora al massimo – e tenuto conto, per di più, della situazione di assoluta incoscienza in cui egli trascorse il suddetto ridottissimo spazio temporale.

3.2 Il secondo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione degli artt. 2043 e 2059 c.c..

Si adduce, in sintesi, che l’assunto della corte territoriale per cui i ricorrenti non avrebbero provato di avere subito essi stessi un danno biologico deriverebbe da un’erronea valutazione delle prove: in particolare, sarebbero state prodotte due certificazioni rilasciate da strutture sanitarie pubbliche, onde non sarebbe stato neppure esplorativo disporre, semmai, una consulenza tecnica d’ufficio al riguardo.

A parte che la rubrica di questa censura invoca esclusivamente norme sostanziali e non procedurali, neppure in riferimento alla mancata disposizione di una consulenza tecnica d’ufficio, quel che rileva – in rapporto agli argomenti riconducibili (pur difficilmente) ad una questione de jure presenti nel motivo – è che nella sentenza non si ravvisa alcuna erronea valutazione delle prove nel senso di error in procedendo. Per il resto la censura si disperde su un piano direttamente fattuale, lamentando l’avere il giudice d’appello stimato le certificazioni mediche prodotte come troppo generiche e attestanti comunque soltanto “una situazione di malessere e tristezza psico/fisica del tutto transitoria” senza certificare malattie psichiche (cfr. motivazione della sentenza, pagina 11). Il motivo, sotto tale profilo, persegue dunque, inammissibilmente, un’alternativa valutazione di merito.

Nel suo complesso, pertanto, il motivo risulta privo di pregio.

3.3.1 Il terzo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 violazione dell’art. 2043 c.c., nonchè, ex art. 360 c.p.p., comma 1, n. 5, omessa o contraddittoria motivazione.

La corte territoriale avrebbe negato al padre del deceduto il risarcimento del danno patrimoniale che consisterebbe nella diminuzione dei guadagni derivatagli dalla morte del figlio, ritenendo al riguardo insufficienti, a dimostrarlo le dichiarazioni dei redditi, una anteriore al sinistro e l’altra posteriore. La corte avrebbe ritenuto necessario provare l’effettiva assenza dal lavoro del padre. In tal modo la motivazione della sentenza sarebbe incorsa in contraddittorietà nonchè in contrasto con i criteri di valutazione della prova: non viene negato che la morte del figlio possa portare “ad un minor impegno nel lavoro” il genitore, “e tuttavia ritiene che, pur confermata questa presunzione dalla dichiarazione dei redditi e successiva all’evento, non è sufficiente”, occorrendo prova testimoniale o documentale, laddove invece le presunzioni costituiscono prove autonome.

Inoltre, la prova di un minor guadagno non presupporrebbe necessariamente la prova della diminuzione oraria del lavoro, per cui, in ultima analisi, la corte territoriale avrebbe “ecceduto” nel ritenere insufficiente la prova fornita.

3.3.2 A parte gli argomenti inammissibilmente fattuali – come quello relativo alla pretesa non necessità di provare la diminuzione dell’orario di lavoro per dimostrare l’esistenza del danno patrimoniale da minor guadagno -, il motivo si fonda sull’imputare al giudice d’appello (nonostante la conformazione della rubrica, non pertinente all’effettivo contenuto della censura) di non aver attribuito alle presunzioni il ruolo di prove autonome. Ciò, peraltro, non corrisponde alla reale motivazione che qui offre la sentenza impugnata.

In particolare, a pagina 12 si afferma necessaria “la prova, anche presuntiva, circa la certezza” dell’esistenza del danno patrimoniale; poi, dato atto della possibilità che il tragico evento abbia causato anche un minor impegno nel lavoro del padre della vittima (“sicuramente può aver portato anche ad un minor impegno”), si precisa che, però, “la prova doveva avere ad oggetto la dimostrazione (in via testimoniale o con allegazione di documenti) che l’attività lavorativa aveva subito una contrazione di ore di apertura dell’attività, di chiusure improvvise per mancanza del titolare ecc.”: e che la corte si riferisca a testimonianze e documenti non significa che essa abbia riscontrato nel caso in esame una prova presuntiva in tal senso e l’abbia reputata irrilevante/priva di valore. Il motivo, pertanto, deve essere disatteso.

In conclusione, il ricorso va rigettato, sussistendo peraltro i presupposti per la compensazione delle spese, in considerazione della incertezza giurisprudenziale in ordine al danno terminale/catastrofale che era riscontrabile al momento della sua proposizione, che è stata antecedente all’intervento delle Sezioni Unite ai riguardo.

Sussistono altresì D.P.R. n. 115 del 2012, ex art. 13, comma 1 quater, i presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo.

PQM

Rigetta il ricorso compensando le spese processuali.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 7 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 13 febbraio 2019

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