Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 41205 del 22/12/2021
Cassazione civile sez. III, 22/12/2021, (ud. 05/10/2021, dep. 22/12/2021), n.41205
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –
Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –
Dott. AMBROSI Irene – Consigliere –
Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 33682/2018 R.G. proposto da:
Agenzia delle Entrate – Riscossione, subentrata alla società
Equitalia Servizi di Riscossione S.p.a., incorporante Equitalia
Centro S.p.a., rappresentata e difesa dall’Avv. Alfonso Papa
Malatesta, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, Piazza
Barberini, n. 12;
– ricorrente –
contro
Poste Italiane S.p.a., rappresentata e difesa dagli Avv.ti Mauro
Panzolini, e Paola Fabbri, con domicilio eletto presso gli uffici
della Funzione Affari Legali di Poste Italiane S.p.A. in Roma, Viale
Europa, n. 175;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte di appello di Perugia, n. 725/2017,
pubblicata il 10 ottobre 2017;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 5 ottobre
2021 dal Consigliere Dott. Emilio Iannello.
Fatto
FATTI DI CAUSA
1. Con atto di citazione notificato il 12 febbraio 2007 Poste Italiane S.p.A. convenne in giudizio davanti al Tribunale di Perugia, sezione distaccata di Foligno, SO.RI.T. S.p.a. chiedendo che fosse accertato il proprio diritto di applicare una commissione per ogni bollettino postale di pagamento Ici sui conti correnti postali della convenuta, quale concessionaria del servizio di riscossione dell’Ici per la provincia di Perugia; che fosse pure accertata l’entità della commissione nella misura di Euro 0,05 (pari a Lire 100) dall’1 aprile 1997 e di Euro 0,83 (pari a Lire 450) dall’1 giugno 2001 e, per il periodo da gennaio 2004 nella misura tempo per tempo vigente in base ai documenti di sintesi succedutisi; che la convenuta fosse condannata a pagare la commissione nella misura e decorrenza accertate per ogni bollettino; in subordine chiese la condanna della convenuta ex art. 2041 c.c..
Nella resistenza di Equitalia Perugia S.p.a. (già SO.RI.T. S.p.a.) il Tribunale di Perugia (cui la causa era stata nel frattempo trasferita), con sentenza n. 858/2014 del 29 aprile 2014, accolse la domanda.
2. Con sentenza n. 725/2017 depositata il 10 ottobre 2017 la Corte d’appello di Perugia ha rigettato il gravame interposto da Equitalia Centro S.p.a. (subentrata ad Equitalia Perugia S.p.a.), confermando integralmente la decisione di primo grado.
3. Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso, con otto motivi, Agenzia delle Entrate – Riscossione (d’ora innanzi qui anche indicata con l’acronimo AdER), quale Ente pubblico economico subentrato dal 1 luglio 2017 a titolo universale nei rapporti giuridici attivi e passivi, anche processuali, a Equitalia Servizi di Riscossione S.p.a. (società incorporante Equitalia Centro S.p.a.).
Vi resiste Poste Italiane S.p.a., depositando controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Va preliminarmente esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di ius postulandi, opposta in memoria dalla controricorrente, sul rilievo che, trattandosi di ricorso per cassazione e inoltre di lite non afferente all’attività di riscossione, ai sensi dei parr. 3.4.1. e 3.5 del Protocollo d’intesa tra Avvocatura dello Stato e Agenzia delle Entrate-Riscossione, il patrocinio era riservato all’Avvocatura alla stregua di patrocinio organico ed esclusivo.
L’eccezione è infondata, per le ragioni appresso evidenziate.
1.1. Com’e’ noto, il D.L. 22 ottobre 2016, n. 193, art. 1 convertito dalla L. 1 dicembre 2016, n. 225, ha disposto l’estinzione ope legis delle società del Gruppo Equitalia, cancellate d’ufficio dal registro delle imprese, con effetto dal 1 luglio 2017, al contempo prevedendo l’istituzione di un ente pubblico economico, denominato “Agenzia delle entrate-Riscossione”, ente strumentale della stessa Agenzia delle Entrate. Detto ente, secondo l’impianto normativo, subentra, a titolo universale, nei rapporti giuridici attivi e passivi, anche processuali, delle estinte società del Gruppo Equitalia, assumendo la qualifica di agente della riscossione, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973.
Per quanto qui in particolare interessa, l’art. 1, comma 8, D.L. cit. stabilisce che “L’ente è autorizzato ad avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato ai sensi dell’art. 43 T.U. delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato, di cui al R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, fatte salve le ipotesi di conflitto e comunque su base convenzionale. Lo stesso ente può altresì avvalersi, sulla base di specifici criteri definiti negli atti di carattere generale deliberati ai sensi del comma 5 del presente articolo, di avvocati del libero foro, nel rispetto delle previsioni di cui al D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, artt. 4 e 17, ovvero può avvalersi ed essere rappresentato, davanti al tribunale e al giudice di pace, da propri dipendenti delegati, che possono stare in giudizio personalmente; in ogni caso, ove vengano in rilievo questioni di massima o aventi notevoli riflessi economici, l’Avvocatura dello Stato, sentito l’ente, può assumere direttamente la trattazione della causa….”.
1.2. Al riguardo, pronunciando (ex art. 363 c.p.c.) sul contrasto giurisprudenziale frattanto insorto tra le Sezioni semplici, le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che “Ai fini della rappresentanza e difesa in giudizio, l’Agenzia delle Entrate-Riscossione, impregiudicata la generale facoltà di avvalersi anche di propri dipendenti delegati davanti al tribunale ed al giudice di pace, si avvale:
“a) dell’Avvocatura dello Stato nei casi previsti come riservati ad essa dalla Convenzione intervenuta (fatte salve le ipotesi di conflitto e, ai sensi del R.D. n. 1611 del 1933, art. 43, comma 4, di apposita motivata delibera da adottare in casi speciali e da sottoporre all’organo di vigilanza), oppure ove vengano in rilievo questioni di massima o aventi notevoli riflessi economici;
“b) di avvocati del libero foro, senza bisogno di formalità, né della delibera prevista dall’art. 43, comma 4 R.D. cit. – nel rispetto del D.Lgs. n. 50 del 2016, artt. 4 e 17 e dei criteri di cui agli atti di carattere generale adottati ai sensi del D.L. n. 193 del 2016, art. 1, comma 5, conv. in L. n. 225 del 2016 – in tutti gli altri casi ed in quelli in cui, pure riservati convenzionalmente all’Avvocatura erariale, questa non sia disponibile ad assumere il patrocinio.
“Quando la scelta tra il patrocinio dell’Avvocatura erariale e quello di un avvocato del libero foro discende dalla riconduzione della fattispecie alle ipotesi previste dalla Convenzione tra l’Agenzia e l’Avvocatura dello Stato o di indisponibilità di questa ad assumere il patrocinio, la costituzione dell’Agenzia a mezzo dell’una o dell’altro postula necessariamente ed implicitamente la sussistenza del relativo presupposto di legge, senza bisogno di allegazione e di prova al riguardo, nemmeno nel giudizio di legittimità” (Cass. Sez. U. 19/11/2019, n. 30008).
1.3. Nel caso che occupa il ricorso di AdER è stato notificato il 12/11/2018, a ministero dell’Avv. Alfonso Papa Malatesta del Foro di Roma, e riguarda materia (quella del ricorso per cassazione) che – com’e’ noto e come anche risulta dalla motivazione della citata Cass. Sez. U. n. 30008 del 2019 – il Protocollo d’intesa del 22 giugno 2017, intervenuto tra la stessa AdER e l’Avvocatura dello Stato ai sensi del citato art. 1, comma 8, riserva a quest’ultima.
Si ricade, dunque, nella prima delle ipotesi sopra enunciate: casi riservati al patrocinio autorizzato dell’Avvocatura secondo convenzione.
In tal caso, stando alle condivisibili precisazioni delle Sezioni Unite, resta comunque la possibilità per l’AdER di affidare il proprio patrocinio ad un libero professionista abilitato, ove ricorra uno dei seguenti alternativi presupposti:
a) adozione di apposita delibera R.D. n. 1611 del 1933, ex art. 43, comma 4;
b) allegazione e dimostrazione che l’Avvocatura dello Stato (ovviamente, in epoca precedente alla notifica del ricorso, non trovando applicazione nel giudizio di legittimità il disposto dell’art. 182 c.p.c.) abbia manifestato la propria indisponibilità ad assumere il patrocinio;
c) sussistenza di un possibile conflitto d’interessi (in tali ultime due ipotesi AdER essendo anche esentata dall’adottare una delibera ex art. 43, comma 4 R.D. cit.: v. Cass. Sez. U. n. 30008 del 2019, par. 26, lett. a).
Ebbene, nella specie, di tali presupposti ricorre il secondo (sub b).
AdER ha infatti depositato in via telematica in data 22 settembre 2021 – e quindi tempestivamente rispetto al termine per il deposito delle memorie ex art. 380-bis.1 c.p.c. – copia in formato digitale “.pdf” di uno scambio di mail intervenuto in data 14 settembre 2018 – anteriormente, dunque, alla notifica del ricorso – dal quale è possibile desumere che:
i) essa aveva informato l’Avvocatura dello Stato di quella che ivi viene descritta come “proposta di ricorso in cassazione da parte di AdER contro la sentenza della Corte d’appello di Perugia n. 725/2017 in controversia ricompresa nel noto filone dei plurimi contenziosi in essere tra Poste Italiane e gli Agenti della Riscossione in ordine alle commissioni rivendicate da Poste sui pagamenti dell’ICI effettuati dai contribuenti a mezzo bollettini postali”;
ii) l’Avvocato dello Stato Gianni De Bellis rispose con lo stesso mezzo osservando che “tenuto conto della natura della controversia, analoga ad altre per le quali è già stato derogato il patrocinio dell’Avvocatura, si condivide l’opportunità di operare in tal senso anche nel caso in esame”.
Non pare dubitabile che con tale comunicazione l’Avvocatura Generale abbia univocamente espresso la propria indisponibilità ad assumere il patrocinio rendendo pertanto perfettamente legittimo l’avvalimento da parte dell’ente del patrocinio di avvocato del libero foro.
2. Venendo quindi all’esame dei motivi di ricorso si osserva quanto segue.
Con il primo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, “nullità della sentenza e del procedimento ex art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia sul quarto motivo di appello proposto da Equitalia Centro S.p.a.”.
Lamenta che la sentenza impugnata non ha deciso sul motivo proposto da Equitalia Centro nel proprio atto di appello con il quale si deduceva omesso esame da parte del Tribunale di Perugia dell’eccezione relativa al comportamento tenuto da Poste Italiane S.p.a. anteriormente alla notifica della citazione, dal quale, in tesi, si sarebbe dovuto desumere la volontà di detta società di tenere esenti i bollettini ICI da qualunque commissione a carico del Concessionario” (tanto si sosteneva in particolare argomentando da una comunicazione del 26 marzo 1997 dalla quale – secondo l’assunto censorio – emergeva che, anche secondo Poste, nessuna modifica era intervenuta nei rapporti di conto corrente istituiti per il versamento dell’ICI e che solo nel 2001 Poste chiese l’applicazione della commissione unilateralmente fissata).
3. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, “nullità della sentenza e del procedimento ex art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia sul sesto motivo di appello proposto da Equitalia Centro S.p.a.”, con il quale Equitalia Centro aveva censurato la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva avallato l’importo unitario delle commissioni benché unilateralmente determinato, senza previa contrattazione, in violazione dell’art. 2597 c.c..
4. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 2, commi 18 e 20, e dell’art. 2597 c.c.: lamenta che nell’interpretazione della norma non è stato tenuto conto del principio di parità di trattamento citato anche nella normativa in materia di liberalizzazione invocata da Poste, visto che l’Ente non aveva mai contrattato il prezzo delle commissioni da imporre.
5. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, “nullità della sentenza e del procedimento ex art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia sul secondo motivo di appello”, con il quale aveva lamentato l’omesso esame da parte del Tribunale di Perugia dell’eccezione di inammissibilità, per carenza di interesse ad agire, delle due domande di accertamento proposte da Poste essendo stata proposta anche una domanda di condanna.
6. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. nonché, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 163 c.p.c., comma 3, n. 3, e dell’art. 2697 c.c., comma 1.
Lamenta che erroneamente la Corte ha confermato la decisione di primo grado che aveva pronunciato sentenza di condanna qualificando la domanda come “condanna specifica” laddove si trattava di una domanda di accertamento, seguita da una domanda di condanna specifica (sia per la sorte che per gli interessi, riferita ad “ogni singola operazione”) che era però rimasta indeterminata ed indimostrata non avendo Poste né allegato né provato se e quanti bollettini di pagamento aveva lavorato.
7. Con il sesto motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti per avere la corte d’appello omesso di considerare le eccezioni formulate da Equitalia Centro S.p.A. nel settimo motivo di appello riguardanti il fatto che, contrariamente a quanto affermato nella sentenza di primo grado, la domanda riconvenzionale di Equitalia Centro non era affatto “sfornita di prova” (essendo stata questa, in tesi, fornita, attraverso la produzioni di estratti conto dai quali era possibile desumere l’addebito, per i mesi da dicembre 2006 ad agosto 2007, sul conto corrente Ici in questione di commissioni di Euro 0,24 per ogni bollettino di c.c.p.).
8. Con il settimo motivo la ricorrente deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione degli artt. 107 e 108 c.p.c., nonché degli artt. 102,106 e 4 T.F.U.E.. Lamenta la mancata disapplicazione della normativa italiana in contrasto con la normativa Europea (D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 10; L. n. 662 del 1996, art. 2, commi 18, 19 e 20; D.P.R. n. 144 del 2001, artt. 1,3 e 13).
Deduce che la normativa nazionale che ha costituito in capo a Poste Italiane, così come affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. Sez. U. n. 7169 del 2014), un monopolio legale rispetto alla riscossione dell’imposta locale, configurava un “aiuto di Stato”, trattandosi dell’istituzione di una posizione selettiva in quanto favoriva una sola impresa (Poste Italiane, per l’appunto) attiva in numerosi altri settori, a discapito delle altre, ragione per cui la normativa in questione doveva essere disapplicata.
Ciò anche perché – si deduce in subordine – il descritto sistema costituiva in capo a Poste una posizione dominante, di cui detta società ha abusato per avere: a) determinato unilateralmente la misura della commissione da pagare, senza alcun riferimento ad un parametro oggettivo che permettesse di valutarne congruità ed equità; b) applicato detta misura retroattivamente; c) posto la commissione così determinata a carico del contraente che aveva l’obbligo legale di avvalersi del servizio di pagamento in questione.
9. Con l’ottavo motivo la ricorrente deduce, infine, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 10,L. n. 662 del 1996, art. 2, commi 18, 19 e 20 nonché del D.P.R. n. 144 del 2001, art. 3 norme rispetto alle quali vengono sollevate tre questioni di legittimità costituzionale, di seguito illustrate.
9.1. In primo luogo, sarebbe costituzionalmente illegittimo il combinato disposto del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 10, commi 2 e 3, e della L. n. 662 del 1996, art. 2, comma 18 (in parte qua), per violazione dell’art. 11 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, in riferimento agli artt. 102,106,107,108 T.F.U.E. (già artt. 82, 86, 87 e 88 Trattato CEE): sussisterebbe, in tesi, contrasto tra l’obbligo del concessionario a contrarre con Poste (D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 10, commi 2 e 3) e il potere unilaterale di Poste di imporre commissioni ai correntisti L. n. 662 del 1996, ex art. 2, comma 18, e D.P.R. n. 144 del 2001, art. 3 da un lato, e gli artt. 102,106,107,108 T.F.U.E. (già artt. 82, 86, 87 e 88 Trattato CEE) dall’altro, onde sarebbe necessaria la disapplicazione del diritto interno contrastante con il diritto Eurounitario.
Qualora, invece, si ritenga che il diritto Eurounitario sia privo del requisito dell’effetto diretto, andrebbe sollevata “questione di legittimità costituzionale della L. n. 662 del 1996, art. 2, comma 18, e D.P.R. n. 144 del 2001, art. 3 nella parte in cui il potere unilaterale, conferito a Poste Italiane, rispettivamente di “stabilire commissioni a carico dei correntisti postali” e di applicare “ai clienti delle unilaterali variazioni contrattuali sfavorevoli” debba considerarsi applicabile al contratto di conto corrente postale stipulato dal concessionario della riscossione ai fini del pagamento dell’Ici e imposto dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 10, commi 2 e 3, per violazione dell’art. 11 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, in riferimento agli artt. 102,106,107,108 T.F.U.E.”.
La incostituzionalità, secondo la ricorrente, sussisterebbe perché l’obbligo a contrarre del concessionario verrebbe a saldarsi al potere di Poste Italiane di imporre commissioni, con la conseguenza che Poste Italiane avrebbe il potere di stabilire unilateralmente il corrispettivo anche per la prestazione di cui si tratta.
9.2. La seconda questione di costituzionalità della normativa speciale interna è argomentata, in riferimento all’art. 3 Cost. e art. 41 Cost., commi 1 e 2, sul rilievo che la posizione dominante/monopolistica di Poste Italiane genererebbe un vincolo assai gravoso sulla libertà dell’iniziativa economica e dell’autonomia contrattuale della ricorrente, che si troverebbe in una posizione deteriore rispetto a quella della sua controparte in un negozio obbligatorio.
9.3. La terza questione di incostituzionalità è riferita ancora al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 10,L. n. 662 del 1996, art. 2, comma 18 ed al D.P.R. n. 144 del 2001, art. 3 dei quali si deduce il contrasto con l’art. 3 Cost. sotto il profilo della irragionevolezza intrinseca e della manifesta irrazionalità della disciplina da essi ricavabile.
10. il primo e il secondo motivo – con i quali, si ricorda, si denuncia, rispettivamente: omessa pronuncia sul quarto motivo di appello con il quale si deduceva omesso esame da parte del Tribunale di Perugia dell’eccezione relativa al comportamento (in tesi, concludente) tenuto da Poste Italiane S.p.a. anteriormente alla notifica della citazione; omessa pronuncia sul sesto motivo di appello con il quale si censurava la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva avallato l’importo unitario delle commissioni benché unilateralmente determinato, senza previa contrattazione, in violazione dell’art. 2597 c.c. – sono inammissibili.
Per entrambi si rivela dirimente in tal senso il rilievo della mancata indicazione se i motivi di appello per i quali si lamenta omessa pronuncia siano stati oppure no mantenuti al momento della precisazione delle conclusioni.
Occorre al riguardo rammentare che, secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, la parte che, in sede di ricorso per cassazione, deduce che il giudice di appello sarebbe incorso nella violazione dell’art. 112 c.p.c. per non essersi pronunciato su un motivo di appello o, comunque, su una conclusione formulata nell’atto di appello, è tenuta, ai fini dell’astratta idoneità del motivo ad individuare tale violazione, a precisare – a pena di inammissibilità – che il motivo o la conclusione sono stati mantenuti nel giudizio di appello fino al momento della precisazione delle conclusioni (v. Cass. n. 5087 del 03/03/2010).
Tale onere nella specie non risulta assolto per nessuno dei detti motivi, il che – conducendo in ogni caso all’esito predetto – esime dal verificare in atti l’effettiva esistenza e consistenza del quarto motivo di appello, come sarebbe stato altrimenti necessario stante l’indeterminatezza della illustrazione che ne viene fatta nel primo motivo di ricorso.
Questo invero si limita a riprodurre (in corsivo, dalle ultime due righe della pagina 13 sino alle prime cinque della pagina 15) eccezioni proposte in primo grado senza offrire una argomentazione evidenziatrice di un motivo di appello e ciò, in disparte il fatto che la riproduzione soffre delle interruzioni, soprattutto perché ciò che si riproduce non si connota come critica alla sentenza di primo grado, che nemmeno viene evocata.
11. Il terzo motivo non sfugge ad analoga valutazione di inammissibilità.
Anche in tal caso nemmeno si dice se e come il giudice d’appello era stato investito delle questioni prospettate, mancando alcun riferimento all’atto di appello.
Non è chiarito, inoltre, quale sia l’affermazione in diritto o l’attività di sussunzione (della fattispecie concretamente accertata in quella astratta) errata.
La censura ha una evidente impostazione fattuale, lamentandosi con essa il mancato accertamento circa l’avvenuto rispetto da parte di Poste Italiane dell’obbligo di parità di trattamento tra i diversi correntisti o delle disposizioni di cui alla L. n. 662 del 1996, art. 2, commi 18 e 20 e ciò peraltro in modo vago o meramente esplorativo dal momento che non è detto in quale altro caso, paragonabile a quello in questione, Poste abbia applicato un trattamento più favorevole o comunque diverso.
12. Il quarto motivo si espone a diversi rilievi di inammissibilità, alcuni dei quali comuni a quelli già evidenziati con riferimento al primo e al secondo motivo.
12.1. Anche in tal caso infatti: a) non è indicato se il motivo d’appello venne mantenuto in sede di precisazione delle conclusioni; b) non si evidenzia in alcun modo, in quanto riprodotto, il tenore della sentenza del primo giudice riguardo al quale il preteso motivo, cioè quanto riprodotto, avrebbe dovuto assumere il carattere di motivo di appello; non si ricava, in altre parole, da quanto esposto, una argomentazione idonea ad evidenziare che la corte di appello sia incorsa nella omissione di pronuncia su un motivo di appello.
12.2. La denuncia dell’ipotetica violazione dell’art. 112 c.p.c. risulterebbe comunque inammissibile ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., n. 2.
Va in proposito rammentato che, come costantemente affermato nella giurisprudenza di questa Corte, per evidenziare la violazione di una norma del procedimento agli effetti dell’art. 360 c.p.c., n. 4, è necessario rispettare il requisito di ammissibilità di cui all’art. 360-bis c.p.c., n. 2: è necessario cioè che la censura di violazione della norma del procedimento (nella specie, per omessa pronuncia su un motivo di gravame) venga evidenziata con caratteri tali da palesare che sono stati violati “i principi regolatori del giusto processo”.
Tale formulazione, sebbene evocativa dei contenuti dell’art. 111 Cost., comma 1, siccome poi specificati dal comma 2 e dagli altri commi della norma, secondo la ricostruzione preferibile si presta a sottendere, piuttosto che la necessità che l’inosservanza della norma del procedimento abbia violato il principio secondo qualcuna di quelle specificazioni (posto che ogni violazione di norma dei procedimento si concreta almeno in una lesione del contraddittorio e/o del diritto di difesa come regolato dalle forme previste e, dunque, risulterebbe lesiva delle regole del giusto processo, con conseguente inutilità dell’art. 360-bis, n. 2), in realtà il carattere che la violazione della norma del procedimento deve avere, perché possa denunciarsi in Cassazione; carattere che, anche prima dell’introduzione dell’art. 360-bis, n. 2 si esprimeva nell’essere stata la violazione denunciata decisiva, cioè incidente sul contenuto della decisione e, dunque, arrecante un effettivo pregiudizio a chi la denunciava (così Cass. n. 22341 del 26/09/2017, cui adde conff. ex multis, tra le più recenti, in motivazione, Cass. n. 25359 del 20/09/2021; n. 2926 del 08/02/2021; n. 29903 del 30/12/2020; n. 28440 del 14/12/2020; n. 17966 del 27/08/2020; n. 26087 del 15/10/2019).
Nella specie non è dato comprenderne la decisività della dedotta violazione nei sensi indicati da detta norma: invero, il dire che la domanda di condanna comprendeva i profili di accertamento e il postulare che il giudice di appello avrebbe omesso di decidere sul motivo di appello che lo sosteneva, riguardo al quale avrebbe dovuto dire che l’accertamento era implicito nelle conclusioni inerenti alla condanna, non si vede che effetti avrebbe potuto avere sull’esito della lite a beneficio della ricorrente. La condanna avrebbe implicato anche l’accertamento, ancorché, in ipotesi, il tribunale l’avesse fatto oggetto – ma non lo si dice – di distinta statuizione.
13. Anche il quinto motivo va incontro a diversi rilievi di inammissibilità.
13.1. Va anzitutto rilevato che l’illustrazione del motivo non consente di comprendere esattamente quale sia il vizio denunciato, in violazione dell’onere imposto dall’art. 366 c.p.c., n. 4.
Si deduce, nell’intestazione la violazione dell’art. 112 c.p.c., ma tale indicazione non trova poi corrispondenza nella illustrazione che segue, nella quale non si discorre mai di omessa pronuncia.
L’illustrazione del motivo, infatti:
a) comincia col dire che “la sentenza impugnata appare… viziata per avere confermato la sentenza di primo grado” (della quale si trascrive nelle successive tre righe la statuizione di condanna);
b) spiega, quindi, subito dopo, che il vizio e’, in tesi, consistito nell’avere rigettato “le eccezioni formulate da Equitalia nel primo e nel secondo grado di giudizio relative all’infondatezza della domanda di condanna proposta da Poste” (e si trascrivono, a questo punto, di seguito, tra parentesi quadre, stralci, spesso interrotti da puntini, delle pagg. 7 e ss. dell’atto di appello, nei quali si argomenta sulla natura della domanda di Poste come di condanna specifica, sul mancato assolvimento dell’onere probatorio per mancata indicazione di quanti fossero stati i pagamenti Ici effettuati tramite Poste);
c) continua ad argomentare così dal terzo rigo, precisando che l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte d’appello è consistito nel non riconoscere che si trattava di domanda di condanna specifica e che tale domanda era da considerarsi infondata per mancata allegazione e prova dei bollettini lavorati;
d) argomenta ancora in questa medesima direzione, richiamando alcune pronunce di merito, confermate dalla S.C., che hanno rigettato domande di Poste per indeterminatezza;
e) termina con l’affermazione che “la decisione della Corte non appare, dunque, conforme al richiesto (art. 112 c.p.c.) e comunque è viziata per non avere respinto per indeterminatezza (art. 163 c.c., comma 3, n. 3) ed infondatezza (art. 2697 c.c., comma 1) la domanda di condanna avversaria”.
Tutto il peso argomentativo dell’illustrazione è posto, dunque, sulla asserita violazione dell’art. 163 c.p.c., n. 3 e art. 2697 c.c., sul presupposto che la corte territoriale abbia tali questioni affrontato.
Senonché nella sentenza non v’e’ traccia di ciò. La Corte territoriale ha puramente e semplicemente confermato la sentenza di primo grado senza che dalla motivazione traspaia in alcun modo l’esame delle questioni predette.
Occorreva dunque, da parte della ricorrente, evidenziare se e come esse fossero state prospettate in appello, apparendo a tal fine del tutto insufficiente la generica affermazione che si trattava di eccezioni “formulate in primo e in secondo grado”.
Ne’ può giovare la trascrizione di alcune righe dell’atto di appello, sopra riferite, da queste traendosi non già l’indicazione che sul punto era stato proposto motivo d’appello ma solo la descrizione del contenuto di tali eccezioni (natura specifica della condanna richiesta e mancata prova del fatto costitutivo).
13.2. Pur scrutinando il motivo come se da esso possa trarsi la denuncia di un vizio di omessa pronuncia (v. Cass. Sez. U. 24/07/2013, n. 17931), se ne dovrebbe comunque rilevare l’inammissibilità, per:
a) mancata indicazione della sua permanenza in sede di p.c.: rilievo comune al primo, al secondo e al quarto motivo e, come per essi, in ogni caso, dirimente;
b) assoluta carenza di indicazioni, in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, in ordine allo sviluppo processuale con specifico riferimento al tema in questione e, dunque, circa: contenuto della domanda e fatti costitutivi che ne erano posti a fondamento; difese ed eccezioni spiegate; ragioni della decisione di primo grado; motivo d’appello; in tale prospettiva rimarchevole appare in particolare la mancanza di alcuna spiegazione, pur nella prospettiva censoria, del riferimento nella sentenza di primo grado ai “Documenti di sintesi” e la mancanza di indicazione specifica dei fatti costitutivi della domanda.
14. Il sesto motivo si appalesa altresì inammissibile, essendo dedotto vizio di omesso esame non già in relazione ad un fatto storico, ma ad un motivo di appello.
Pur volendo interpretare la censura come diretta in realtà a dedurre vizio di omessa pronuncia (v. Cass. Sez. U. n. 17931 del 2013, cit.), ne appare comunque evidente l’inammissibilità per inosservanza degli oneri di specificità imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6: si dice che si tratta della statuizione di rigetto della domanda riconvenzionale della convenuta in quanto sfornita di prova, ma non si dice quale fosse tale domanda e su quali ragioni in fatto e in diritto essa fosse fondata; anche del motivo di appello non si riporta il contenuto, né comunque si precisa se il motivo sia stato mantenuto nel giudizio di appello fino al momento della precisazione delle conclusioni; né ancora si indica la ragione per cui detta domanda riconvenzionale non potesse considerarsi assorbita dall’accoglimento della domanda principale e, correlativamente, il motivo di appello in questione assorbito dal rigetto degli altri.
15. I restanti motivi (settimo e ottavo) – pur a prescindere dal possibile rilievo preliminare, cui entrambi si espongono, di inammissibilità per novità della prospettazione, atteso che si fondano si circostanze di fatto delle quali non viene detto se e dove vennero introdotte nel giudizio di merito e mantenute in appello – sono infondati.
15.1. Cominciando dal settimo, deve premettersi che, pronunciando su ricorsi iscritti ai nn. 15022/2017 R.G. e 23437/2017 R.G. – vertenti su analoghe controversie e prospettanti, tra le altre, le medesime questioni sollevate con l’odierno settimo motivo di ricorso, relative alla violazione degli artt. 107 e 108 T.F.U.E. o, in subordine, degli artt. 102 e 106 T.F.U.E. e dell’art. 4 T.U.E. – questa S.C., con ordinanze interlocutorie n. 14080 e n. 14081 del 23/05/2019, ha disposto rinvio pregiudiziale sulla scorta di tre specifici quesiti relativi a:
a) il possibile inquadramento, nello schema del servizio di interesse economico generale (SIEG), della riserva di attività in regime di monopolio legale in favore dei Poste Italiane Spa;
b) la possibilità di configurare come “aiuto di stato illegittimo” la previsione normativa che aveva consentito la determinazione unilaterale da parte di Poste dell’entità dell’importo della commissione da applicare;
c) la configurabilità dell’effetto di concedere a Poste diritti speciali od esclusivi, tali da far ritenere che potesse ricorrere un “abuso di posizione dominante”.
Con sentenza del 3 marzo 2021 (riunite le cause nascenti da detti rinvii, recanti i nn. C-434/2019 e C-435/2019), la Corte di Giustizia si è pronunciata e, ritenuto irricevibile il terzo quesito, rispetto ai primi due ha affermato che “l’art. 107 TFUE doveva essere interpretato nel senso che costituisce un “aiuto di Stato” ai sensi di detta disposizione la misura nazionale con la quale i concessionari incaricati della riscossione dell’ICI sono tenuti a disporre di un conto corrente aperto a loro nome presso Poste Italiane per consentire il versamento di detta imposta da parte dei contribuenti ed a pagare una commissione per la gestione di detto conto corrente, a condizione che tale misura sia imputabile allo Stato, procuri un vantaggio selettivo a Poste Italiane mediante risorse statali e sia tale da falsare la concorrenza negli scambi fra gli Stati membri, circostanze che spetta al giudice del rinvio verificare” (punto 74 della sentenza).
L’interpretazione del diritto comunitario adottata dalla Corte di giustizia ha efficacia ultra partes, sicché alle sentenze dalla stessa rese, sia pregiudiziali che emesse in sede di verifica della validità di una disposizione, va attribuito il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso che esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell’ambito della Comunità (fra le tante, da ultimo, Cass. 30/09/2021, n. 26611; 03/03/2017, n. 5381).
Ebbene, secondo l’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia, per decidere se – nella previsione di una obbligatoria apertura di un conto corrente presso le Poste Italiane S.p.a., da parte della concessionaria per la riscossione dell’ICI, con pagamento di una commissione a suo carico in condizioni di monopolio legale – ricorra una ipotesi di “aiuto di Stato”, occorre verificare se:
– il pagamento della commissione sia imputabile allo Stato;
– procuri un vantaggio selettivo a Poste Italiane mediante risorse statali;
– sia tale da falsare la concorrenza e gli scambi tra gli Stati membri.
15.2. Al riguardo deve osservarsi (conformemente a quanto già rilevato da questa S.C. in recenti pronunce intervenute in materia: v. Cass. 30/09/2021, nn. 26607, 26608, 26611 e 26614), in via assorbente rispetto all’apprezzamento della sussistenza delle altre condizioni elencate dalla Corte di giustizia, che in realtà difetta la prima condizione, rappresentata dell’acquisizione del servizio da parte del concessionario mediante risorse finanziarie non proprie, ma statali.
Ed infatti, l’acquisizione mediante risorse statali si verificherebbe nell’ipotesi di esistenza di un meccanismo di compensazione integrale dei costi aggiuntivi risultanti dall’obbligo di disporre di un conto corrente aperto presso Poste Italiane.
Per risorse statali si intendono, come precisa il giudice unionale, “tutti gli strumenti pecuniari di cui le autorità pubbliche possono effettivamente servirsi per sostenere imprese, a prescindere dal fatto che tali strumenti appartengano o meno permanentemente al patrimonio dello Stato”.
La stessa Corte di giustizia dubita dell’esistenza, nella specie, del meccanismo di compensazione in discorso.
Significativo in tal senso quanto affermato ai parr. 50 ss. della sentenza:
“50. Certamente, dalle ordinanze di rinvio emerge che, in forza del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 10, comma 3, i comuni impositori hanno l’obbligo di pagare una commissione ai concessionari per l’attività di riscossione dell’ICI da loro assicurata.
“Tuttavia, se è vero che tali somme sono palesemente di origine pubblica, nulla indica che esse siano destinate a compensare i costi aggiuntivi che possono risultare, per i concessionari, dal loro obbligo di disporre di un conto corrente aperto presso Poste Italiane e che lo Stato garantisca in tal modo la copertura integrale di tali costi aggiuntivi.
“Spetta al giudice del rinvio appurare una tale circostanza.
“51. Occorre inoltre rilevare che né dalle ordinanze di rinvio né dal fascicolo di cui dispone la Corte emerge che l’eventuale costo aggiuntivo generato dall’obbligo di acquisizione di servizi presso Poste Italiane, di cui trattasi nei procedimenti principali, debba essere integralmente sopportato dai contribuenti o che sia finanziato da un altro tipo di contributo obbligatorio imposto dallo Stato.
“52. Ciò posto, anche se non sembra, prima facie, che le commissioni versate dai concessionari a Poste Italiane, in relazione all’apertura e alla gestione dei conti correnti che essi sono tenuti a possedere presso Poste Italiane, possano essere considerate concesse direttamente o indirettamente mediante risorse statali, spetta al giudice del rinvio verificare tale circostanza, non potendo la Corte effettuare un esame diretto dei fatti relativi alle controversie oggetto dei procedimenti principali”.
15.3. Ebbene, reputa questo Collegio che la commissione che i comuni impositori hanno l’obbligo di pagare ai concessionari per l’attività di riscossione dell’ICI non è destinata a compensare i costi aggiuntivi derivanti, per i concessionari, dall’obbligo di disporre di un conto corrente postale perché la commissione è corrisposta anche per il caso di versamento diretto dell’imposta da parte del contribuente al concessionario.
Va, infatti, rammentato che il D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 10, comma 3, prevede che: “L’imposta dovuta ai sensi del comma 2 deve essere corrisposta mediante versamento diretto al concessionario della riscossione nella cui circoscrizione è compreso il comune di cui all’art. 4 ovvero su apposito conto corrente postale intestato al predetto concessionario, con arrotondamento a mille lire per difetto se la frazione non è superiore a 500 lire o per eccesso se è superiore; al fine di agevolare il pagamento, il concessionario invia, per gli anni successivi al 1993, ai contribuenti moduli prestampati per il versamento. La commissione spettante al concessionario è a carico del comune impositore ed è stabilita nella misura dell’uno per cento delle somme riscosse, con un minimo di Euro 1,81 ed un massimo di Euro 51,65 per ogni versamento effettuato dal contribuente”.
Come si evince chiaramente dalla disposizione citata, la commissione grava sul comune in misura percentuale sulle somme riscosse, indipendentemente dalle modalità di riscossione, e dunque anche nel caso di versamento diretto al concessionario.
Già sul piano normativo, quindi, la commissione è configurata in modo indipendente dal costo risultante dall’obbligo di disporre di un conto corrente.
In linea ipotetica potrebbe in concreto verificarsi una riscossione esclusivamente mediante versamento diretto: e ciò nondimeno permarrebbe l’obbligo di pagamento al concessionario della commissione.
Giova peraltro ribadire che, come già affermato da Cass. Sez. U. n. 7169 del 2014, il servizio reso da Poste Italiane, pur riconducibile ad un servizio reso sotto forma di monopolio legale, non impone, per ciò solo, che la società che lo concede (e cioè Poste Italiane S.p.a.), debba erogarlo gratuitamente e senza alcun prezzo, dovendosi anche tener conto che quello fissato e preteso rientra ampiamente nei parametri normativi determinati dalla delibera di esecuzione del D.P.R. n. 144 del 2001.
Deve pertanto escludersi che il pagamento della commissione procuri un vantaggio selettivo a Poste Italiane mediante risorse statali e che sia tale da falsare la concorrenza fra gli stati membri.
Deve conseguentemente affermarsi, a seguito della verifica richiesta con riferimento ai parametri indicati dalla sentenza della Corte di Giustizia, che non può ritenersi sussistente l’ipotesi di un “aiuto di Stato”.
16. Deve ora passarsi all’esame dell’ottavo motivo e, dunque, alla verifica dei tre profili di incostituzionalità sollevati.
Essi sono manifestamente infondati (v. in tal senso i già citati arresti di Cass. nn. 26607, 26608, 26611 e 26614 del 2021).
16.1. La prima questione può considerarsi interamente assorbita dagli argomenti spesi in relazione a quella, del tutto analoga, rimessa dinanzi alla Corte di Giustizia con l’ordinanza interlocutoria Cass. n. 14081 del 2019 e, conseguentemente, sia dalle risposte rese dalla pronuncia Eurounitaria sia da quanto sopra affermato nell’ambito della verifica da essa richiesta che ha portato ad escludere che ricorra un’ipotesi di “aiuto di Stato” e di contrasto, quindi, con la normativa Europea richiamata nella rubrica del settimo motivo.
16.2. La seconda risulta non supportata da argomenti specifici e concreti, non avendo la ricorrente indicato come la sua posizione sarebbe stata migliore se lo stesso servizio le fosse stato prestato da un istituto bancario. Pertanto, rimane una affermazione meramente assertiva quella secondo cui sarebbe stato posto a carico della ricorrente un vincolo assai gravoso.
Ne’ la gravosità può identificarsi tout court con la onerosità stessa del rapporto, non potendo al riguardo sfuggire che la tesi difensiva mira in definitiva ad escludere puramente e semplicemente ad escludere il diritto di Poste Italiane di ricevere un corrispettivo per il servizio reso (la c.d. commissione), non avendo la ricorrente mai indicato concrete alternative consistenti nella richiesta di importi minori.
L’assenza, peraltro, di un vincolo gravoso è stata già implicitamente ma inequivocamente esclusa da Cass. Sez. U. n. 7169 del 2014 con l’argomento della incomparabile capillarità del servizio, che non può certo dirsi superato, trattandosi di un tributo imposto da tutti i Comuni italiani.
16.3. La terza questione di incostituzionalità è riferita all’art. 3 Cost., in relazione al principio di ragionevolezza.
Premesso che quanto si è appena rilevato sul particolare vantaggio della presenza capillare in tutto il territorio nazionale derivante dalla fruizione del conto corrente postale è già sufficiente a rendere manifestamente infondata la questione, non si può non rilevare che essa viene presentata in modo intrinsecamente contraddittorio: dapprima si lamenta che non si sarebbe tenuto conto delle caratteristiche peculiari come cliente della ricorrente, lamentandosi un trattamento non differenziato rispetto a “un qualsiasi correntista” che, nello stesso tempo, la ricorrente sembra voler invocare. Non è comunque detto in quale altro caso, paragonabile a quello in questione, Poste abbia applicato un trattamento più favorevole o comunque diverso.
Peraltro, non si specifica in alcun modo quale vantaggio sarebbe stato completamente perso dalla ricorrente, ovvero che cosa avrebbe potuto ottenere in più di quanto ottenuto da Poste Italiane se altri soggetti le avessero prestato lo stesso servizio.
17. Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere in definitiva rigettato.
Avuto riguardo alla complessità delle questioni trattate ed alle difficoltà interpretative testimoniate dalle pronunce di questa stessa Corte e della Corte di giustizia, di cui si è dato conto in motivazione, si ravvisano i presupposti per l’integrale compensazione delle spese.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Compensa integralmente le spese processuali.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 5 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 22 dicembre 2021