Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4119 del 16/02/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 16/02/2017, (ud. 23/11/2016, dep.16/02/2017),  n. 4119

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VENUTI Pietro – Presidente –

Dott. NEGRI DELLE TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19995-2015 proposto da:

I.A. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA ANTONIO CANTORE, 5, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO

MARIA GAZZONI, rappresentato e difeso dagli avvocati MAURIZIO

MARANO, MOLINARTA PAOLO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

COMPASS GROUP ITALIA S.P.A. P.I. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

PO 25-B, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO PESSI, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato RAFFAELE FABOZZI,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 588/2015 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

depositata il 25/05/2015 R.G.N. 124/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/11/2016 dal Consigliere Dott. LORITO MATILDE;

udito l’Avvocato FABOZZI RAFFAELE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GHERSI RENATO FINOCCHI che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’Appello di Salerno, in riforma della pronuncia emessa dal Tribunale della stessa sede, rigettava la domanda proposta da I.A. nei confronti della s.p.a. Compass Group Italia volta a conseguire la declaratoria di illegittimità del licenziamento in data (OMISSIS) intimato ex L. n. 223 del 1991 con gli effetti reintegratori e risarcitori sanciti dalla L. n. 300 del 1970, art. 18.

A fondamento del decisum, per quanto in questa sede rileva, la Corte distrettuale deduceva in premessa che la procedura di riduzione del personale era stata motivata da una contrazione del fatturato, dall’impossibilità di riconvertire le figure professionali coinvolte nel processo di riorganizzazione e dalla necessità di attuare un nuovo modello organizzativo; argomentava quindi che nella fattispecie – in cui non si era formato l’accordo con le organizzazioni sindacali in ordine ai criteri di scelta elencati dalla L. n. 223 del 1991, art. 5, – la società aveva disposto applicazione di detti criteri in concorso fra loro, in particolare tenendo conto, quanto ai carichi di famiglia, del numero dei familiari a carico in percentuale; quanto alle esigenze tecnico – organizzative, con riferimento ai direttori di ristorazione, considerando la necessità di presidio delle unità operative del settore Food a livello regionale.

Il giudice dell’impugnazione deduceva, quindi, l’infondatezza della critica formulata dal lavoratore e recepita dal giudice di prima istanza, con riferimento alla erronea applicazione da parte aziendale, del criterio dei carichi di famiglia. Rimarcava al riguardo che nel corso della procedura, i ricorrente aveva prodotto esclusivamente certificazioni attestanti lo stato di disoccupazione dei figli, omettendo di offrire alcun elemento probatorio in ordine alla posizione dei coniuge. In tale contesto probatorio, reputava coerente con le disposizioni normative richiamate, la valutazione del parametro di riferimento disposta al momento della formazione della graduatoria dalla parte datoriale, che non consentiva l’attribuzione di alcun punteggio al lavoratore con riferimento al menzionato criterio, giacche nessun elemento di valutazione era stato offerto al giudice con riferimento alla posizione del coniuge ed in ordine al carico dei figli alla data del dicembre 2012, epoca del licenziamento.

La cassazione di tale decisione è domandata da I.A. sulla base di tre motivi.

Resiste con controricorso la società intimata, che ha depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, artt. 5 e 17, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Ci si duole della interpretazione dei criteri di scelta sanciti dal L. n. 223 del 1991, art. 5, resa dai giudici dell’impugnazione e, posto che la norma non contiene alcun riferimento temporale, si accredita un’esegesi della disposizione, in coordinazione con la L. n. 223 del 1991, art. 17, tale che il lavoratore possa dare dimostrazione anche successivamente al licenziamento del proprio carico di famiglia, così come verificatosi nella fattispecie.

2. Il motivo va disatteso sulla base di plurimi concorrenti motivi.

S’impone innanzitutto l’evidenza del difetto di autosufficienza della censura, in quanto priva di una puntuale riproduzione del tenore della documentazione che si assume idonea a comprovare la sussistenza del requisito inerente ai carichi di famiglia e si sostiene sia stata erroneamente valutata da parte dei giudici del gravame.

3. Ulteriore ricaduta sul piano processuale di siffatta carenza, va ravvisata nella violazione dei dettami di cui all’art. 369 c.p.c., n. 4, giacchè le questioni poste non possono prescindere dalla disamina diretta del contenuto del documento sul quale è incentrata la linea difensiva, per cui non è dato verificare la fondatezza delle relative censure.

Si è, infatti, statuito (Cass. 15/10/2015 n. 20842, Cass. 15/2/2011 n. 3689) che a norma dell’art. 369 c.p.c., commi 1 e 2, n. 4), la parte che propone ricorso per cassazione è tenuta, a pena di improcedibilità, a depositare gli atti e i documenti sui quali il medesimo si fonda; ne consegue che, qualora venga invocato, a sostegno del ricorso, un determinato atto del processo, il motivo di ricorso deve essere dichiarato improcedibile ove così come verificatosi nella specie – la parte non abbia dedotto di aver provveduto al deposito di tale atto, indicandone la collocazione in atti.

4. Infine, va rimarcato che la statuizione della Corte di merito appare comunque esente da censure, laddove ha affermato che la documentazione prodotta, risalente al gennaio 2015 e concernente dati attinenti allo stato di disoccupazione dei figli, al pagamento di tasse universitarie, alla composizione del proprio nucleo familiare, non era idonea a dimostrare la sussistenza dei carichi di famiglia – “destinati a verificare lo status economico del lavoratore” – in quanto non riferibile al dicembre del 2012, epoca del licenziamento, giacchè quelle era il parametro temporale cui ancorare lo scrutinio della ricorrenza dei presupposti per stilare la graduatoria dei lavoratori ex L. n. 223 del 1991.

5. Con il secondo motivo si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto causa ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si lamenta che la Corte di merito abbia tralasciato di considerare le deposizioni testimoniali che confermavano lo stato di disoccupazione del coniuge e dei figli del ricorrente.

6. Anche tale motivo presenta evidenti profili di inammissibilità.

Deve infatti considerarsi che il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, applicabile alla fattispecie ratione temporis, introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesse esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della cortroversia). L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

La parte ricorrente deve dunque indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 365 c.p.c., comma 1, n. 6) e all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), – il “fatto storico”, il cui esame sia omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione fra le parti e, la “decisività” del fatto stesso” (Cass. sez. un. 22/9/2014 n. 19381). Nella riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 è dunque scomparso ogni riferimento letterale alla “motivazione” della sentenza impugnata e, accanto al vizio di omissione (seppur cambiato d’ambito e di spessore), non sono più menzionati i vizi di insufficienza e

contraddittorietà. Ciò a supporto della generale funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris.

In questa prospettiva, proseguono le Sezioni Unite, la scelta operata dal legislatore è quella di limitare la rilevanza del vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge: e ciò accade solo quando il vizio di motivazione sia così radicale da comportare la nullità della sentenza per “mancanza della motivazione”.

Pertanto, l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità quale violazione di legge costituzionalmente rilevante attiene solo all’esistenza della motivazione in sè, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”.

7. Orbene, non può prescindersi dal rilievo che nella fattispecie, tramite la articolata censura, la parte ricorrente, contravvenendo ai detti principi, sollecita un’inammissibile rivalutazione dei dati istruttori acquisiti in giudizio, esaustivamente esaminati dalla Corte territoriale, – che ha ritenuto i dati probatori acquisiti inidonei a dimostrare lo status economico del lavoratore, di cui il coniuge ed i familiari a carico costituiscono elementi indicativi – auspicandone un’interpretazione a sè più favorevole, non ammissibile nella presente sede di legittimità.

8. Con il terzo motivo è dedotta violazione a falsa applicazione del L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3 e art. 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Il ricorrente richiama l’eccezione formulata nel giudizio di merito, ed in relazione alla quale deduce non si sia pronunciato il giudice del reclamo, circa l’erronea applicazione dei criteri di scelta, considerato che, ai sensi dell’art. 4, comma 3 della legge citata, la società aveva individuato le ragioni tecniche – organizzative sottese alla procedura, con riferimento al territorio nazionale; laddove, nella concreta applicazione dei criteri secondo i dettami dell’art. 5, aveva ristretto la platea dei destinatari alla Regione Campania.

9. Deve in primo luogo osservarsi che la ricorrente avrebbe dovuto dedurre la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4. Ed invero, l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello – così come, lo genere, i omessa pronuncia su domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio – risolvendosi nella violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, integra un difetto di attività del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere dal ricorrente non con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale ex art. 360 c.p.c., n. 3 o del vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto siffatte censure presuppongono che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente non corretto ovvero senza giustificare (o non giustificando adeguatamente) la decisione al riguardo resa, ma attraverso la specifica deduzione del relativo “error in procedendo” – ovverosia della violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, – la quale soltanto consente alla parte di chiedere e al giudice di legittimità – in tal caso giudice anche dei fatto processuale – di effettuare l’esame, altrimenti precluso, degli atti del giudizio di merito e, così, anche dell’atto di appello (cfr. ex plurimis, Cass. 27/10/2014 n. 22759);

La mancata deduzione del vizio nei termini indicati, evidenziando il difetto di identificazione del preteso errore del giudice del merito e impedendo il riscontro “ex actis” dell’assunta omissione, rende, pertanto, inammissibile il motivo (cfr. Cass. 27/1/2006 n. 1755).

10. Sotto altro versante va rimarcato che comunque, la censura presenta evidente difetto di autosufficienza, non riportando i termini entro i quali la relativa questione era stata sottoposta ai giudici del gravame che non ne ha fatto menzione in sede motivazionale, così esponendosi ad un giudizio di inammissibilità per novità, della censura.

Secondo il costante orientamento di questa Suprema Corte (cfr., ad esempio, Cass. 28/7/2008, n. 20518), qualora una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza dei ricorso per Cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente o abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa.

Nel giudizio di cassazione, che ha per oggetto solo la revisione della sentenza in rapporto alla regolarità formale del processo ed alle questioni di diritto proposte, non sono, infatti, proponibili nuove questioni di diritto o temi di contestazione diversi da quelli dedotti nel giudizio di mente, tranne che non si tratti di questioni rilevabili di ufficio o, nell’ambito delle questioni trattate, di nuovi profili di diritto compresi nel dibattito e fondati sugli stessi elementi di fatto dedotti” (vedi ex aliis, Cass. 26/3/2012 n. 4787).

In definitiva, ala stregua delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto.

Le spese inerenti al presente giudizio di legittimità possono, infine compensarsi, tenuto conto dei diversi esiti della controversia ai quali si è pervenuti nel giudizio di merito.

Occorre, infine, dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Compensa fra le parti le spese del presente giudizio.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificate pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Cosi deciso in Roma, il 23 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2017

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