Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4114 del 16/02/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 16/02/2017, (ud. 09/11/2016, dep.16/02/2017),  n. 4114

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. VENUTI Pietro – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28003-2014 proposto da:

C.L. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA,

PIAZZA SAN BERNARDO 101, presso lo studio dell’avvocato AMELIA CUOMO

(STUDIO TERRACCIANO), rappresentata e difesa dall’avvocato FERNANDO

RUSSO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

TELECOM ITALIA S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio degli avvocati ARTURO ARTURO

MARESCA, ROBERTO ROMEI, FRANCO RAIMONDO BOCCIA, ENZO MORRICO, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 743/2013 della CORTE D’APPELLO di POTENZA,

depositata il 17/01/2014 R.G.N. 567/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/11/2016 dal Consigliere Dott. PATTI ADRIANO PIERGIOVANNI;

udito l’Avvocato COSENTINO VALERIA per delega verbale Avvocato

MARESCA ARTURO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO RITA che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

Con sentenza 17 gennaio 2014, la Corte d’appello di Potenza rigettava l’appello principale di C.L. avverso la sentenza di primo grado, che invece riformava, in accoglimento dell’impugnazione incidentale di Telecom Italia s.p.a., dichiarandone legittima la sanzione disciplinare della sospensione di un giorno dal servizio e dalla retribuzione comminata alla lavoratrice il 12 ottobre 2006.

A motivo della decisione, la Corte territoriale condivideva la reiezione dal Tribunale dell’impugnazione di C.L. del licenziamento intimatole dalla società datrice con lettera del 15 marzo 2007 per giusta causa, in quanto sussistente per il rifiuto illegittimamente opposto per quattro volte alla visita di verifica della sua idoneità al lavoro fissata dalla società datrice, per l’ingiustificata accusa di mobbing verso i superiori e per la recidiva conseguente alle sanzioni disciplinari irrogatile nell’ultimo biennio.

Contrariamente al primo giudice, essa riteneva invece ingiustificato l’impedimento opposto dalla lavoratrice di recarsi a Napoli per una videoconferenza il giorno successivo a quello (19 settembre 2006) di comunicazione datoriale, per le non provate circostanze addotte della concomitanza con la visita ospedaliera specialistica di controllo prenotata in precedenza, senza neppure l’avvertenza di comunicare in anticipo l’assenza dal lavoro. Con atto notificato il 24 novembre 2014, C.L. ricorre per cassazione con quattro motivi, cui resiste Telecom Italia s.p.a. con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c., artt. 1455, 2104, 2106 e 2119 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per la qualificazione giudiziale della condotta ascrittale alla stregua di insubordinazione invero neppure contestata, senza adeguato accertamento di circostanze (relative al contesto lavorativo; alla non corretta applicazione in concreto delle previsioni regolamentari in materia di malattia, e segnatamente di controlli di idoneità, unilateralmente adottate dalla datrice; alle contestazioni della lavoratrice) specificamente indicate, nè rispetto della proporzione tra fatto contestato e sanzione erogata.

Con il secondo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1455, 2104, 2106 e 2119 c.c., 3.7 e 4 del Regolamento Telecom in materia di malattia nonchè omesso esame, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 5, del contenuto nè della portata precettiva e neppure della documentazione difensiva sub 27) del proprio fascicolo di primo grado, con la conseguente mancata valutazione dei fatti nella loro completezza, comportante una non corretta configurazione della propria condotta come insubordinazione ed erronea valutazione di proporzionalità della sanzione applicata.

Con il terzo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 108 del 1990, art. 2119 c.c., art. 3, e art. 116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per erronea individuazione della giusta causa (sulla base di una qualificazione come insubordinazione di condotta diversamente contestata e di una non corretta valutazione di proporzionalità) del licenziamento, neppure adeguatamente valutato sotto il profilo della natura discriminatoria e ritorsiva documentata.

Con il quarto, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. e art. 7 del Regolamento Telecom, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per erronea valutazione della visita di controllo programmata oggetto della sanzione disciplinare, senza alcuna considerazione dell’abituale comportamento al riguardo degli altri lavoratori Telecom: nell’inesistenza di inadempimenti ad obblighi contrattuali.

Il primo motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c., artt. 1455, 2104, 2106 e 2119 c.c., per qualificazione della condotta ascritta alla lavoratrice come insubordinazione invero neppure contestata, senza adeguato accertamento di circostanze rilevanti, nè rispetto della proporzione tra fatto contestato e sanzione erogata) può essere congiuntamente esaminato, per ragioni di stretta connessione, con il secondo (violazione e falsa applicazione degli artt. 1455, 2104, 2106 e 2119 c.c., 3.7 e 4 del Regolamento Telecom in materia di malattia nonchè omesso esame dei suoi contenuto e portata precettiva e neppure di documentazione difensivamente prodotta, con la mancata valutazione dei fatti nella loro completezza).

Essi sono inammissibili.

Non sussistono, infatti, le violazioni di legge denunciate, in difetto dei requisiti loro propri di verifica di correttezza dell’attività ermeneutica diretta a ricostruirne la portata precettiva, nè di sussunzione del fatto accertato dal giudice di merito nell’ipotesi normativa, nè tanto meno di specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata motivatamente assunte in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 28 novembre 2007, n. 24756; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984).

In più specifico riferimento alla denunciata violazione dell’art. 2119 c.c., la norma è stata correttamente applicata dalla Corte territoriale, che ne ha in via preliminare esattamente individuato la natura giuridica di clausola elastica, i caratteri ed i limiti di sindacabilità in sede di legittimità (dal penultimo capoverso di pg. 8 al primo di pg. 9 della sentenza).

Come noto, la giusta causa di licenziamento è integrata dalla grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e specialmente dell’elemento fiduciario, che il giudice deve accertare in relazione sia alla gravità dei fatti addebitati al lavoratore (desumibile dalla loro portata oggettiva e soggettiva, dalle circostanze nelle quali sono stati commessi nonchè dall’intensità dell’elemento intenzionale), sia alla proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta: per la quale rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza (Cass. 16 ottobre 2015, n. 21017; Cass. 4 marzo 2013, n. 5280; Cass. 13 febbraio 2012, n. 2013).

Ed essa è nozione di fatto che la legge (allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo) configura con una disposizione (appunto ascrivibile alla tipologia delle cosiddette “clausole elastiche”) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama: con specificazioni del parametro normativo aventi natura giuridica e la cui disapplicazione è ben deducibile in sede di legittimità come violazione di legge (Cass. 15 aprile 2016, n. 7568; Cass. 24 marzo 2015, n. 5878; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095; Cass. 4 maggio 2005, n. 9266).

In applicazione degli enunciati principi di diritto, la Corte territoriale ha quindi ravvisato nel comportamento della lavoratrice, sulla scorta dei fatti contestatile con “lettera del 5.3.2007, cui faceva seguito il provvedimento espulsivo del 15.3.2007” (così al secondo capoverso di pg. 12 della sentenza), poi doverosamente qualificati, la sussistenza dei requisiti della giusta causa (per le ragioni esposte dal penultimo capoverso di pg. 10 al terzo di pg. 12 della sentenza).

Sicchè i due motivi congiuntamente scrutinati sottendono, in realtà, la richiesta di un riesame del merito, attraverso la contestazione della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo, in tal modo collocandosi sul piano proprio del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione, se privo di errori logici e giuridici (Cass. 5 luglio 2016, n. 13676; Cass. 26 aprile 2012, n. 6498; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095; Cass. 13 dicembre 2010, n. 25144): come appunto nel caso di specie, in cui la Corte territoriale ha dato critico e argomentato conto, con ragionamento logicamente congruo e giuridicamente corretto, per le ragioni come sopra richiamate.

Inoltre, il secondo motivo difetta anche, nella denuncia di erronea interpretazione del Regolamento Telecom, dell’indicazione, tanto meno specifica, dei canoni ermeneutici asseritamente violati e dei principi in essi contenuti, con la precisazione altresì delle modalità e delle considerazioni con le quali il giudice del merito se ne sia discostato (Cass. 26 ottobre 2007, n. 22536; Cass. 30 aprile 2010, n. 10554; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465; Cass. 14 luglio 2016, n. 14355).

Sotto il profilo della denuncia del vizio previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, esso incontra il limite del divieto di impugnazione prescritto dall’art. 348 ter c.p.c., comma 5, qualora, come appunto nel caso di specie, la sentenza d’appello confermi quella di primo grado per le stesse ragioni di fatto (Cass. 18 dicembre 2014, n. 26860; Cass. 9 dicembre 2015, n. 24909).

Ma in ogni caso esso è indeducibile alla stregua del testo novellato dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, avendo ad oggetto l’omesso esame, non già di un fatto storico (da specificare nel “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, nel “come” e nel “quando” esso sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e della sua “decisività”), ma della sua valutazione preclusa (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439).

Il terzo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., L. n. 108 del 1990, art. 3 e art. 116 c.p.c., per erronea individuazione della giusta causa del licenziamento, neppure ben valutato nella natura discriminatoria e ritorsiva documentata, è inammissibile.

E ciò per le stesse ragioni illustrate in riferimento ai due precedenti mezzi, congiuntamente scrutinati, di inconfigurabilità delle violazioni di legge denunciate, in difetto dei requisiti loro propri e di sostanziale sollecitazione ad un riesame del merito della vicenda, insindacabile in sede di legittimità, a fronte dell’accertamento in fatto, congruamente e correttamente motivato (per le ragioni esposte negli ultimi due capoversi di pg. 12 della sentenza).

Esso viola pure il principio di autosufficienza del ricorso prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, in difetto di trascrizione dei menzionati documenti (Cass. 3 gennaio 2014, n. 48; Cass. 31 luglio 2012, n. 13677; Cass. 30 luglio 2010, n. 17915) ed atti processuali, neppure specificamente indicati tanto meno nella sede di produzione, nei quali sono stati dedotti i comportamenti datoriali asseritamente ritorsivi (Cass. 9 aprile 2013, n. 8569; Cass. 16 marzo 2012, n. 4220).

Infine, il quarto motivo, relativo a violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. e art. 7 del Regolamento Telecom, per erronea valutazione della programmazione della visita di controllo oggetto della sanzione disciplinare, è parimenti inammissibile.

Anche qui la lavoratrice ricorrente sollecita un sostanziale riesame del merito della vicenda, insindacabile in sede di legittimità (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694 Cass. 5 marzo 2004, n. 4537), a fronte dell’accertamento in fatto della Corte territoriale, congruamente e correttamente motivato (per le ragioni esposte dal primo capoverso di pg. 14 al primo di pg. 15 della sentenza).

Ed esso pure, nella denuncia di erronea interpretazione della norma del Regolamento Telecom, è carente dell’indicazione, tanto meno specifica, dei canoni ermeneutici asseritamente violati e dei principi in essi contenuti, con la precisazione altresì delle modalità e delle considerazioni con le quali il giudice del merito se ne sia discostato (Cass. 26 ottobre 2007, n. 22536; Cass. 30 aprile 2010, n. 10554; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465; Cass. 14 luglio 2016, n. 14355): nell’assoluta irrilevanza, a fini interpretativi, dell’abituale comportamento degli altri lavoratori Telecom in riferimento alla sottoposizione a visite mediche.

Dalle superiori argomentazioni discende coerente il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna C.L. alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 100,00 per esborsi e Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali in misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 9 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2017

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