Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4114 del 09/02/2022

Cassazione civile sez. un., 09/02/2022, (ud. 14/12/2021, dep. 09/02/2022), n.4114

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Primo Presidente f.f. –

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente di Sez. –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24589/2020 proposto da:

G.M., elettivamente domiciliato in ROMA, BORGO PIO 44,

presso lo studio dell’avvocato STEFANO SACCHETTO, che lo rappresenta

e difende unitamente all’avvocato ANDREA ZUCCOLO;

– ricorrente –

contro

PROCURATORE GENERALE RAPPRESENTANTE IL PUBBLICO MINISTERO PRESSO LA

CORTE DEI CONTI, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BAIAMONTI

25;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 484/2019 della CORTE DEI CONTI – II SEZIONE

GIURISDIZIONALE CENTRALE D’APPELLO – ROMA, depositata il 18/12/2019.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

14/12/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

ritenuto che la vicenda al vaglio, per quel che qui rileva, può sintetizzarsi nei termini seguenti:

– G.M. venne tratto a giudizio davanti alla Corte dei Conti territorialmente competente per rispondere di danno erariale;

– la Procura regionale contabile del Veneto addebitava all’incolpato, pubblico docente scolastico, di aver svolto l’attività lavorativa di sub-agente assicurativo organizzato in forma d’impresa, in contrasto con il divieto sancito dalla legge;

– la Corte dei conti sezione giurisdizionale regionale per il Veneto condannò, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, il G. a risarcire il danno, quantificato in Euro 146.877,91, oltre accessori, corrispondente alla somma percepita dal pubblico dipendente svolgendo l’attività vietata;

– la Corte dei Conti d’appello con la sentenza n. 484/2019, disattendendo le censure mosse dal G., affermata la propria giurisdizione, confermò la decisione di primo grado, esponendo, in sintesi: il citato art. 53, comma 7, dispone che il pubblico dipendente, il quale senza l’autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza, svolga incarichi retribuiti, salvo l’esposizione a censura disciplinare, è tenuto a riversare la somma incassata (ove ciò non sia stato fatto dall’erogante) nel conto dell’entrata del bilancio di essa amministrazione, per essere destinato a implementare il fondo di produttività dei dipendenti o altro equivalente; il successivo comma 7 bis, introdotto dalla L. n. 190 del 2012, art. 1, comma 42, lett. d), espressamente stabilisce che la fattispecie costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei Conti; la ratio della previsione risiede nella esigenza di assicurare l’esclusività dell’apporto lavorativo del pubblico dipendente; era pacifico che l’incolpato non aveva informato l’amministrazione di appartenenza e che, peraltro, l’attività svolta era assolutamente incompatibile con lo svolgimento del pubblico impiego, a mente del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 60; la violazione di obblighi strumentali al corretto esercizio delle mansioni, foriera di danno erariale, ricadeva, secondo le indicazioni della Corte di cassazione, nella giurisdizione contabile;

– la decisione, in dissenso con l’ordinanza di queste S.U. n. 1415/2018, ricorda che il disposto degli artt. 133 e segg. codice del processo contabile contempla la fattispecie della responsabilità sanzionatoria contabile, di talché, anche a reputare che nella fattispecie si sia in presenza di una mera ipotesi sanzionatoria, indipendente dalla verificazione di un danno concreto, ne risulterebbe comunque confermata la giurisdizione della Corte dei Conti.

– in ogni caso, soggiunge il decidente, non si trattava di vera e propria misura afflittiva, “quanto, piuttosto, di un semplice effetto conseguente al diritto dell’amministrazione di fruire in via esclusiva, delle energie lavorative del dipendente pubblico” e poiché il trasferimento forzoso discendeva da specifica previsione normativa, doveva reputarsi che, trattandosi di “pecunia pubblica”, l’omesso riversamento costituisse “danno erariale da mancata entrata, pari ex lege all’ammontare del compenso stesso”;

– in ogni caso, rileva la decisione, che secondo il “dictum” di cui all’ordinanza delle S.U. n. 17124/2019, il comma 7 bis, che assegna espressamente la fattispecie alla giurisdizione contabile, introdotto dalla L. n. 190 del 2012, era da reputarsi applicabile ai giudizi instaurati dopo l’entrata in vigore della modifica, ancorché in relazione a fatti anteriormente commessi;

– infine, stante la portata generale del divieto, non assumeva rilievo discolpante di sorta il fatto che si fosse trattato di un’attività riconducile al lavoro autonomo e, inoltre, correttamente il giudice di primo grado aveva riconosciuto sussistere la colpa grave dell’incolpato, il quale, pienamente consapevole, aveva violato il divieto, introitando compenso di un certo rilievo; quest’ultima ragione impediva l’esercizio del potere riduttivo dell’addebito;

ritenuto che G.M. ricorre avverso la sentenza d’appello sulla base d’unitaria censura, ulteriormente illustrata da memoria e che resiste con controricorso il Procuratore generale presso la Corte dei Conti;

osserva:

1. Il ricorrente, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 1 e art. 362 c.p.c., artt. 111 e 103 Cost., D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, commi 7 e 7 bis, art. 63, sostiene che la decisione impugnata abbia violato il riparto della giurisdizione.

Questo l’assunto impugnatorio. La giurisdizione contabile si radica sul presupposto che la procura contabile intraprenda l’azione per il recupero della somma “aliunde percetta”; omissione la quale presuppone che il soggetto sia rimasto inerte davanti all’intimazione dell’amministrazione, non potendosi configurare la mora del debitore in assenza di richiesta da parte del creditore. In difetto si espanderebbe la giurisdizione contabile oltre i limiti di cui all’art. 103 Cost., comma 2, che ne ammette l’allargamento “per materia e non per singole spurie fattispecie”. Di conseguenza, “Fino a quando l’Amministrazione non rivolge al dipendente una richiesta di versamento dell’importo aliunde percetum non è dato ravvisare il presupposto che giustifica normativamente l’esercizio della giurisdizione contabile”. Poiché al G. non era mai giunta diffida di sorta, essendo stato “immediato destinatario di un invito a dedurre da parte della Procura contabile presso la Corte dei Conti del Veneto funzionale alla sua citazione in giudizio”, non sussisteva la giurisdizione della Corte dei Conti.

Ove poi, conclude il ricorrente, si fosse reputato il contrario, ne sarebbe derivata la violazione dell’art. 103 Cost., comma 2, a mente del quale “il Legislatore può assegnare alla Corte dei Conti ulteriori ambiti di cognizione rispetto alla contabilità pubblica solo per blocchi omogenei di materie, ma non certo (…) per singole spurie fattispecie”.

1.1. Il ricorso è infondato.

1.1.1. Il pubblico dipendente che svolga attività lavorativa remunerata, in assenza di autorizzazione della pubblica amministrazione di appartenenza, versa perciò stesso in illecito, dal quale, oltre all’addebito disciplinare, deriva, per immediata e diretta conseguenza di legge, l’obbligo di corrispondere alle casse dell’Erario quanto percepito ingiustamente, senza che occorra, quindi, previa messa in mora da parte dell’amministrazione d’appartenenza. Di conseguenza, acquisita la conoscenza dell’illecito, il Procuratore contabile correttamente esercita l’azione al fine di recuperare la posta di bilancio, destinata, per legge, ad apposito fondo perequativo in favore dei dipendenti, lesa dal mancato versamento dell’incolpato.

Ne deriva, pertanto, la giurisdizione contabile, trovandosi in presenza di danno erariale.

1.1.2. In linea di principio la denunzia di violazione di norme costituzionali è inammissibile, stante che la violazione di esse non può essere prospettata direttamente come motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto il contrasto tra la decisione impugnata e i parametri costituzionali, realizzandosi sempre per il tramite dell’applicazione di una norma di legge, deve essere portato ad emersione mediante l’eccezione di illegittimità costituzionale della norma applicata (di recente, Sez. 5, n. 15879, 15/6/2018, Rv. 649017; conf. n. 3709/2014).

Tuttavia, nel caso in esame, poiché la doglianza investe in via diretta il riparto costituzionale di giurisdizione, d’immediata, doverosa emersione, occorre far luogo a scrutinio.

L’art. 103 Cost., comma 2, dispone: “La Corte dei Conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge”.

Il legislatore con la norma sopra riportata non ha fatto altro, operando in via ricognitiva, che confermare la già consolidata interpretazione che assegna tradizionalmente alla materia della contabilità pubblica il giudizio sull’illecito di cui qui si discute.

A tutto concedere, cioè a volere negare che la fattispecie rientri “ex se”, al contrario di quel che si è immediatamente sopra osservato, nella materia della contabilità pubblica, l’art. 7 bis, più volte citato espressamente qualifica l’omissione del versamento del compenso da parte del dipendenze pubblico come ipotesi di “responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei Conti”.

Resta, invero, pienamente soddisfatto il precetto costituzionale, il quale assegna alla giurisdizione della Corte dei Conti, oltre alle materie di contabilità pubblica (trattasi di un rinvio all’assetto ordinamentale tradizionalmente evocato con il predetto ellittico richiamo), le altre specificate dalla legge. Invero è qui proprio una legge a disporre l’assegnazione di giurisdizione, attraverso espressa, quindi specifica, indicazione.

Del resto, non è dato cogliere dove trovi fondamento la prospettazione del ricorrente, secondo la quale la norma costituzionale riserverebbe alla legge una tale assegnazione solo “per blocchi di materie”.

Peraltro, esattamente al contrario, una tale opzione legislativa, come noto, sia pure al fine di dar vita ad aree di giurisdizione amministrativa esclusiva, venne ripudiata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 204/2004. Quel che qui la disposizione costituzionale richiede è che il legislatore, ove intenda introdurre ipotesi di responsabilità contabile, al di fuori delle “materie di contabilità pubblica”, debba sottostare al canone della specificità, cioè della puntuale, testuale e inequivoca indicazione, come nel caso in esame.

2. Il Procuratore generale presso la Corte dei conti ha natura di parte solo in senso formale, sicché è esclusa l’ammissibilità di una pronuncia sulle spese processuali in favore di costui (S.U., n. 5589/2020).

3. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

rigetta il ricorso e dichiara la giurisdizione della Corte dei conti.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 14 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 9 febbraio 2022

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