Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4097 del 18/02/2020

Cassazione civile sez. lav., 18/02/2020, (ud. 19/03/2019, dep. 18/02/2020), n.4097

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11530-2017 proposto da:

P.R. S.A.S. DI P.R. & C., in persona del

legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, PIAZZA

CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,

rappresentata e difesa dall’avvocato GIOVANNI PICA;

– ricorrente –

contro

A.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA EMANUELE

FILIBERTO, 166, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO CORVASCE,

rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO LACERENZA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2957/2016 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 19/12/2016 R.G.N. 1113/2015.

Fatto

RILEVATO

che la Corte di Appello di Bari, con sentenza pubblicata in data 19.12.2016, ha accolto parzialmente il gravame interposto dalla ditta P.R. di P.R. & C. S.a.s., nei confronti di Antonio Abruzzese, avverso la pronunzia del Tribunale di Trani che aveva integralmente accolto la domanda del lavoratore, diretta ad ottenere la condanna della parte datrice al pagamento della somma complessiva di Euro 27.839,46 a titolo di differenze retributive per il lavoro svolto dall’1.8.2003 al 31.3.2006, presso la ditta del P., con mansioni di magliaio di III livello del CCNL Abbigliamento-Piccola Industria, nonchè per il lavoro straordinario, la 13 mensilità, le festività, le ferie non godute ed il TFR;

che la Corte di Appello, in parziale riforma della sentenza impugnata, ha condannato la ditta appellante al versamento, in favore dell’Abruzzese della somma di Euro 19.826,13, oltre accessori, come per legge, reputando che la somma richiesta a titolo di lavoro straordinario (Euro 7.977,33) fosse sfornita di prova;

che per la cassazione della sentenza ricorre la ditta P.R. di P.R. & C. S.a.s. sulla base di due motivi, cui resiste con controricorso A.A.;

che è stata comunicata una memoria, priva di data, nell’interesse della ditta;

che il P.G. non ha formulato richieste.

Diritto

CONSIDERATO

che, con il ricorso, si censura: 1) la “violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5” e si lamenta che, erroneamente, i giudici di merito avrebbero ritenuto attendibili le dichiarazioni dei testi escussi, relativamente al periodo ed agli orari indicati dal lavoratore, senza tenere conto del fatto che i detti testi, in particolare, P.R. e D.M., sarebbero caduti in contraddizione in ordine alle predette circostanze; si deduce, inoltre, che il CCNL di categoria (Abbigliamento-Piccola Industria) sarebbe stato erroneamente applicato, non avendo la ditta datrice di lavoro mai aderito a forme associative di categoria; 2) la “violazione dell’art. 366 bis c.p.c.”, perchè nei gradi di merito non è stata mai disposta una c.t.u. per stabilire l’ammontare effettivo delle somme spettanti al dipendente; nel corpo del motivo, si censura, inoltre, la violazione dell’art. 183 c.p.c., art. 414 c.p.c., n. 5, art. 416, comma 3, art. 420, comma 5, art. 320 c.p.c., comma 3; violazioni in relazione alle quali si ritiene superato anche il contenuto ex art. 157 c.p.c., comma 2 per le nullità riguardanti la prova testimoniale”, per non avere i giudici di merito disposto una c.t.u. per determinare gli importi e per non avere ammesso la testimonianza del P.; ed infine “la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5”, per non avere i giudici di merito espresso una valutazione adeguata in merito all’attendibilità dei testi;

che il primo motivo è inammissibile sotto diversi e concorrenti profili; innanzitutto, infatti, la parte ricorrente non ha indicato analiticamente quali norme, e sotto quale profilo, sarebbero state violate, in spregio alla prescrizione di specificità dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che esige che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, debba essere dedotto, a pena di inammissibilità, mediante la puntuale indicazione delle disposizioni asseritamente violate ed altresì con specifiche argomentazioni intese motivatamente a dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con le disposizioni regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le molte, Cass., Sez. VI, ord. nn. 187/2014; 635/2015; Cass. nn. 19959/2014; 18421/2009); inoltre, nel corso dello stesso motivo, si deduce che l’ammontare delle somme riconosciute dalla Corte distrettuale sarebbe stato errato, in quanto parametrata al CCNL Abbigliamento-Piccola Industria, non applicabile alla fattispecie, non avendo la ditta datrice di lavoro mai aderito a forme associative di categoria; al riguardo (v. pag. 5 della sentenza impugnata), i giudici di seconda istanza hanno condivisibilmente affermato che “l’applicabilità diretta, per adesione di fatto, del CCNL, è comprovata dalla busta paga agli atti, redatta conformemente alle previsioni del CCNL (con indicazioni del livello di inquadramento e delle voci tipicamente contrattuali, come scatti, EDR, festività ecc.)” ed altresì, che “In merito alle voci, va considerato che con la memoria di costituzione in giudizio, non sono stati specificamente contestati i fatti costitutivi delle varie pretese (mancata fruizione dei permessi e delle ferie, prestazione di lavoro festivo) sicchè gli stessi devono ritenersi provati ex art. 416 c.p.c., comma 3”;

che, peraltro, nel ricorso in sede di legittimità, tale ultima affermazione dei giudici di Appello non è neppure stata oggetto di censura, nè sono stati prodotti gli atti, dai quali, eventualmente, potesse evincersi che la contestazione era stata sollevata nei gradi di merito; infine, il CCNL di cui si tratta non è stato prodotto, nè trascritto, in violazione del principio, più volte ribadito da questa Corte (v. combinato disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c.), che definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (Cass. n. 14541/2014). Il ricorso per cassazione deve, infatti, contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013). Per la qual cosa, questa Corte non è stata messa in grado di poter apprezzare la veridicità delle doglianze svolte dalla parte ricorrente e, dunque, le censure mosse al procedimento di sussunzione operato dai giudici di seconda istanza si risolvono in considerazioni di fatto del tutto inammissibili e sfornite di qualsiasi delibazione probatoria (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 24374/2015; 80/2011);

che, infine, anche prescindendo dalla genericità delle contestazioni formulate in merito alla valutazione delle emersioni probatorie operata dalla Corte di Appello, peraltro prive di riferimenti ad alcuna documentazione a sostegno delle deduzioni formulate e senza che venga focalizzato il momento di conflitto, rispetto ad esse, dell’accertamento concreto operato dalla Corte di merito all’esito delle risultanze istruttorie (cfr., ex plurimis, Cass. n. 24374 del 2015; Cass. n. 80 del 2011), il motivo tende, all’evidenza, ad una nuova valutazione delle prove – in particolare delle dichiarazioni di alcuni testi, peraltro, neppure trascritte -, pacificamente estranea al giudizio di legittimità (cfr., ex plurimis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass. n. 14541/2014); che il secondo motivo è pure inammissibile relativamente alla dedotta violazione dell’art. 366-bis codice di rito, in quanto, innanzitutto inconferente rispetto alla lamentata non ammissione di una c.t.u., da parte dei giudici di merito; inoltre, tale norma (che atteneva alla “Formulazione dei quesiti” di diritto), inserita dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6 è stata abrogata dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d). Ai sensi dell’art. 58, comma 5 medesima legge “Le disposizioni di cui all’art. 47 si applicano alle controversie nelle quali il provvedimento impugnato con il ricorso per Cassazione è stato pubblicato ovvero, nei casi in cui non sia prevista la pubblicazione, depositato successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge” – non avrebbe potuto essere applicata nella fattispecie, perchè, come riferito in narrativa, la sentenza oggetto del presente giudizio è stata pubblicata il 19.12.2016;

che, per quanto poi attiene alla pretesa violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come sottolineato dalle Sezioni Unite di questa Corte (con la sentenza n. 8053 del 2014), per effetto della riforma del 2012, per un verso, è denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione); per l’altro verso, è stato introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Orbene, poichè la sentenza oggetto del giudizio di legittimità è stata depositata, come riferito in narrativa, in data 19.2.2016, nella fattispecie si applica, ratione temporis, il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), come sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, a norma del quale la sentenza può essere impugnata con ricorso per cassazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Ma nel caso in esame, il motivo di ricorso che denuncia il vizio motivazionale non indica il fatto storico (Cass. n. 21152 del 2014), con carattere di decisività, che sarebbe stato oggetto di discussione tra le parti e che la Corte di Appello avrebbe omesso di esaminare; nè, tanto meno, fa riferimento, alla stregua della pronunzia delle Sezioni Unite, ad un vizio della sentenza “così radicale da comportare” in linea con “quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per mancanza di motivazione”. E, dunque, non potendosi più censurare, dopo la riforma del 2012, la motivazione relativamente al parametro della sufficienza, rimane il controllo di legittimità sulla esistenza e sulla coerenza del percorso motivazionale dei giudici di merito (cfr., tra le molte, Cass. n. 25229 del 2015), che, nella specie, è stato condotto dalla Corte territoriale con argomentazioni logico-giuridiche del tutto congrue poste a fondamento della decisione impugnata;

che, in ordine alle altre censure sollevate, il motivo non è fondato, in quanto, relativamente ai conteggi – lo si ribadisce -, i giudici di seconda istanza hanno sottolineato (v. ancora pag. 5 della sentenza impugnata) che, mancando qualsiasi contestazione dei medesimi nei gradi di merito, deve reputarsi che il quantum sia rimasto delibato, con riferimento a tutte le voci per le quali sia stata fondatamente e condivisibilmente raggiunta la prova, visto che l’art. 416 c.p.c., di cui si censura la violazione, impone al convenuto di prendere posizione in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione dei fatti posti dall’attore a fondamento della propria pretesa (cfr., ex plurimis, Cass. n. 2832/2016); correttamente, inoltre, i giudici di merito hanno reputato che il P., essendo il titolare della omonima ditta e, quindi, parte nel giudizio, potesse rendere rendere l’interrogatorio libero e l’interrogatorio formale, ma non potesse essere considerato un testimone;

che per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va rigettato;

che le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;

che, avuto riguardo all’esito dei giudizio ed alla data di proposizione del ricorso sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 19 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 18 febbraio 2020

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