Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4071 del 18/02/2020

Cassazione civile sez. trib., 18/02/2020, (ud. 12/12/2019, dep. 18/02/2020), n.4071

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –

Dott. FASANO Anna Maria – Consigliere –

Dott. LO SARDO Giuseppe – Consigliere –

Dott. PEPE Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 24621/2015 R.G., proposto da:

M.G. e M.A.G., rappresentate e difese

dall’Avv. Vincenzo Alberto Pennisi, con studio in Roma, ove

elettivamente domiciliate, giusta procura in calce al ricorso

introduttivo del presente procedimento;

– ricorrenti –

contro

l’Agenzia delle Entrate, con sede in Roma, in persona del Direttore

Generale pro tempore;

– intimata –

avverso la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale

di Roma il 10 marzo 2015 n. 1413/01/2015, non notificata;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 4

dicembre 2019 dal Dott. Giuseppe Lo Sardo;

udito per le ricorrenti l’Avv. Vincenzo Alberto Pennisi, che ha

chiesto l’accoglimento;

udito per l’intimata l’Avv. Pasquale Pucciariello, che ha chiesto il

rigetto;

udito il P.M., nella persona dell’Avvocato Generale, Dott. Francesco

Salzano, che ha concluso per il rigetto.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza depositata il 10 marzo 2015 n. 1413/01/2015, non notificata, la Commissione Tributaria Regionale di Roma dichiarava l’inammissibilità del ricorso proposto dalle contribuenti per la revocazione della sentenza depositata dal medesimo giudice di merito il 30 luglio 2014 n. 4945/28/2014, con condanna alla rifusione delle spese giudiziali. La Commissione Tributaria Regionale rilevava di essersi già pronunciata proprio in ordine al “fatto” che le ricorrenti consideravano frutto di errore, cioè sulla consulenza tecnica d’ufficio espletata nel giudizio di prime cure.

2. Avverso la predetta sentenza, le contribuenti proponevano ricorso per cassazione, consegnato per la notifica il 12 ottobre 2015 ed affidato a due motivi; l’amministrazione si costituiva tardivamente in giudizio per la sola partecipazione all’udienza di discussione.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, le ricorrenti denunciano violazione ed errata applicazione dell’art. 1 della nota II-bis della tariffa (parte IA) allegata al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 1311, del D.M. 2 agosto 1969, n. 1072, artt. 5 e 6, nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per aver erroneamente desunto, dalle conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio espletata nel giudizio di prime cure, l’affermazione della sussistenza dei requisiti previsti dal D.M. 2 agosto 1969, n. 1072, artt. 5 e 6, per gli immobili “di lusso” con riguardo all’immobile acquistato con le agevolazioni per la c.d. “prima casa”.

2. Con il secondo motivo, le ricorrenti eccepiscono l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della nota II-bis della tariffa (parte I”) allegata al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 1311 e del D.M. 2 agosto 1969, n. 1072, artt. 5 e 6, assumendo che le norme censurate prevedano un ineliminabile “automatismo legislativo”, che si pone in conflitto “con i canoni della ragionevolezza e della proporzionalità in ambito costituzionale”.

3. Il primo motivo è infondato.

3.1 Si premette che l’istanza di revocazione implica, ai fini della sua ammissibilità, un errore di fatto riconducibile all’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, il quale consiste in un errore di percezione, o in una mera svista materiale, che abbia indotto il giudice a supporre l’esistenza (o l’inesistenza) di un fatto decisivo, che risulti, invece, in modo incontestabile escluso (o accertato) in base agli atti e ai documenti di causa, sempre che tale fatto non abbia costituito oggetto di un punto controverso su cui il giudice si sia pronunciato. L’errore in questione presuppone, quindi, il contrasto fra due diverse rappresentazioni dello stesso fatto, delle quali una emerge dalla sentenza, l’altra dagli atti e documenti processuali, semprechè la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione e non di giudizio (da ultima: Cass., Sez. 5, 22 ottobre 2019, n. 26890).

L’errore di fatto revocatorio deve risultare dagli atti o documenti della causa. Dunque, vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita. Tale genere di errore presuppone il contrasto tra due diverse rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l’altra dagli atti e documenti processuali, purchè, da un lato, la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione, e non di valutazione o di giudizio e, dall’altro, quella risultante dagli atti e documenti non sia stata contestata dalle parti (da ultime: Cass., Sez. Un., 7 marzo 2016, n. 4413; Cass., Sez. 1, 30 giugno 2016, n. 13435).

In generale, poi, l’errore non può riguardare la violazione o falsa applicazione di norme giuridiche ovvero la valutazione e l’interpretazione dei fatti storici, ma deve avere i caratteri dell’assoluta evidenza e della semplice rilevabilità sulla base del solo raffronto tra la sentenza impugnata e gli atti e i documenti di causa, senza necessità di argomentazioni induttive o di particolari indagini ermeneutiche, e deve essere essenziale e decisivo, nel senso che tra la percezione asseritamente erronea da parte del giudice e la decisione da lui emessa deve esistere un nesso causale tale che senza l’errore la pronuncia sarebbe stata diversa (da ultima: Cass., Sez. Lav., 13 giugno 2017, n. 14656).

3.2 A ben vedere, la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale di Roma il 30 luglio 2014 n. 4945/28/2014, della quale le contribuenti hanno chiesto la revocazione ex art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, si è limitata a riportare in motivazione – traendone valutazioni difformi da quelle del giudice di prime cure – le conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio espletata nel corso del giudizio svoltosi dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale, dalle quali si desume che l’immobile acquistato con le agevolazioni della c.d. “prima casa” aveva una superficie riconducibile alle prescrizioni dettate dal D.M. 2 agosto 1969, n. 1072, artt. 5 e 6, ma poteva essere difficilmente considerato “di lusso” per le sue caratteristiche (finiture, collocazione).

Invero, discostandosi dall’opinione espressa in proposito dalla sentenza impugnata, il giudice di appello ha ritenuto che la sussistenza del requisito dimensionale sia necessaria e sufficiente per qualificare “di lusso” l’immobile acquistato dalle contribuenti, essendo irrilevante a tal fine ogni altro parametro di valutazione, come l’accertamento del suo stato e della sua collocazione.

Peraltro, l’amministrazione ha proposto appello avverso la decisione di prime cure, dolendosi dell’integrale adesione alle conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio con riguardo all’affermazione dell’incidenza negativa delle ulteriori circostanze sulla qualificazione dell’immobile nei sensi del D.M. 2 agosto 1969, n. 1072, artt. 5 e 6.

Per cui, la questione del rilievo ascrivibile alla superficie dell’immobile aveva formato oggetto di specifica discussione tra le parti nel doppio grado del giudizio di merito ed era stata esaminata con chiara e precisa motivazione dal giudice di appello.

3.3 Ancora, il travisamento denunciato dalle ricorrenti non era riferibile ad un errore di percezione dei giudici nella lettura della relazione di consulenza tecnica d’ufficio, bensì ad un errore (o, comunque, ad una negligenza o superficialità) in cui sarebbe incorso l’ausiliare giudiziario nella misurazione (a loro dire, soltanto virtuale, in quanto basata sul mero richiamo ai dati catastali) della superficie dell’immobile acquistato con le agevolazioni della c.d. “prima casa”.

Pertanto, non si ravvisa ictu oculi una chiara e palese difformità tra le rappresentazioni dei fatti desumibili, rispettivamente, dalla relazione di consulenza tecnica d’ufficio e dalla motivazione della sentenza resa nel giudizio di appello, che sola potrebbe integrare gli estremi dell’errore rilevante ai fini dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4. Laddove, invece, l’errore censurato consiste, secondo la stessa prospettazione delle ricorrenti, nel recepimento da parte del giudice di appello dell’errore commesso dal consulente tecnico d’ufficio nella indicazione della superficie dell’immobile a cagione del mero apprezzamento dei dati catastali. Errore che, ad ogni modo, non era percepibile dalla semplice lettura della relazione di consulenza tecnica d’ufficio, nella quale, invece, era attestata la corrispondenza dimensionale dell’immobile rispetto ai requisiti fissati dal D.M. 2 agosto 1969, n. 1072, artt. 5 e 6, senza alcun riferimento ai vani catastali.

4. Da ultimo, si deve esaminare l’eccezione di illegittimità costituzionale, che le ricorrenti hanno proposto sotto il profilo della contrarietà dell’art. 1 della nota II-bis della tariffa (parte I) allegata al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 1311 e del D.M. 2 agosto 1969, n. 1072, artt. 5 e 6, al “canone della ragionevolezza e della proporzionalità in ambito costituzionale”, con l’implicita allusione ad una presunta violazione dei parametri consacrati dall’art. 3 Cost.. A loro dire, l’ineliminabile automatismo delle norme richiamate impedirebbe al giudice di tener conto della peculiarità del caso concreto e di modulare gli effetti delle regole in relazione alle specificità della particolare situazione.

Come è noto, i criteri per la classificazione delle abitazioni “di lusso” sono fissati dal D.M. n. 2 agosto 1969 n. 1072, sulla base 6 del rinvio operato dal D.L. 11 dicembre 1967, n. 1150, art. 6, comma 2, convertito nella L. 7 febbraio 1968, n. 26. Laddove, l’art. 1 della nota II-bis della tariffa (parte I”) allegata al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 1311, si limita a circoscrivere la concessione dell’agevolazione alle abitazioni “non di lusso”, senza definire a contrario le caratteristiche oggettive della “lussuosità”.

Tale fonte costituisce, senza dubbio, un atto di normazione secondaria (o regolamentare), che, in quanto tale, è insuscettibile di sindacato di legittimità costituzionale ai sensi della L. Cost. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23, comma 1, lett. a.

Peraltro, prescindendo dal rango delle norme richiamate nella gerarchia delle fonti, la giurisprudenza della Corte Costituzionale non opera una chiara distinzione tra principio di ragionevolezza e principio di proporzionalità, i quali sono spesso adoperati in modo del tutto fungibile l’uno rispetto all’altro, delineandosi la tendenza prevalente a considerare il secondo come sinonimo o espressione del primo.

Ad ogni modo, si può ritenere che l’osservanza di tali canoni sia assicurata allorquando, per il conseguimento degli obiettivi perseguiti, la norma sindacata dal giudice costituzionale prescriva, tra più misure appropriate, quella meno restrittiva o limitativa dei diritti tutelati e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi.

In altri termini, limitando l’esame al settore del diritto tributario, la giustificazione di una norma agevolativa deve essere collegata alla esistenza (o all’inesistenza) di situazioni di fatto che, differenziandosi per specifiche connotazioni da quelle poste a fondamento dell’imposizione ordinaria, siano suscettibili di semplice riconoscimento mediante dichiarazione del contribuente al momento dell’atto di acquisto, che costituisce il presupposto di applicazione del tributo (seppure in misura ridotta), nonchè di pronta verifica, al momento di un eventuale e successivo controllo da parte dell’amministrazione.

Invero, i principi costituzionali di ragionevolezza e proporzionalità non consentono di escludere nè vulnerare la discrezionalità del legislatore nell’individuazione e nella caratterizzazione delle fattispecie derogatorie alle regole di determinazione ed applicazione dei tributi, che possono essere disciplinate mediante una dettagliata specificazione dei requisiti soggettivi e/o oggettivi, in modo che l’operato dell’amministrazione (e, di conseguenza, del giudice che è chiamato a sindacarne la legittimità) sia più o meno vincolato nell’apprezzamento di particolari situazioni di fatto e nel conseguente riconoscimento del beneficio fiscale.

Per cui, non si può considerare lesiva dei suddetti principi la norma che limiti o escluda una valutazione discrezionale nell’applicazione delle agevolazioni tributarie, riducendo a monte il rischio di revoche arbitrarie.

Nella specie, il requisito (negativo) dell’insussistenza delle caratteristiche “di lusso” dell’immobile acquistato, secondo i criteri fissati dal D.M. 2 agosto 1969, n. 1072, tenendo “conto del costo della costruzione e del rapporto tra tale costo e il costo dell’area” in base al D.L. 11 dicembre 1967, n. 1150, art. 6, comma 2, convertito nella L. 7 febbraio 1968, n. 26″, è connesso alla presenza nell’immobile di parametri dimensionali che sono suscettibili di constatazione oggettiva e che sono indici adeguati di una maggiore capacità contributiva (art. 53 Cost., comma 1).

D’altra parte, la tipizzazione dei criteri dimensionali per la classificazione degli immobili di lusso da parte del D.M. 2 agosto 1969, n. 1072, vale a fondare una presunzione legale iuris tantum, che consente, comunque, al contribuente di fornire la prova dell’inutilizzabilità (anche parziale) ai fini abitativi, in modo da ridurre l’estensione computabile al di sotto della soglia minima della “superficie utile complessiva” ed evitare la decadenza dall’agevolazione della c.d. “prima casa” (ex plurimis: Cass., Sez. 6, 6 giugno 2016, n. 11556). In ogni caso, in ragione della sua natura, vale anche per il D.M. 2 agosto 1969, n. 1072 il potere riconosciuto in via generale al giudice tributario di disapplicare un regolamento o un atto generale rilevante per la decisione in relazione all’oggetto dedotto in giudizio, ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ex art. 7, nel caso in cui si possa ravvisare la sussistenza di vizi di legittimità (in particolare, sotto il profilo dell’eccesso di potere nelle sue varie declinazioni).

Ne deriva la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale secondo la prospettazione fattane dalle ricorrenti (per oggetto e parametri).

5. Stante l’infondatezza dei motivi esaminati, il ricorso deve essere rigettato.

6. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura fissata in dispositivo.

7. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 – quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte delle ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna le contribuenti, in solido tra loro, alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità in favore dell’amministrazione, che liquida in complessivi Euro 2.200,00 per compensi, oltre spese forfettarie ed accessori di legge; dà atto dell’obbligo, a carico delle contribuenti di pagare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 12 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 18 febbraio 2020

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