Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4069 del 20/02/2018


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Cassazione civile, sez. lav., 20/02/2018, (ud. 03/10/2017, dep.20/02/2018),  n. 4069

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Trento ha confermato la sentenza del Tribunale di Trento che ha riconosciuto,nei confronti dell’Inps e di Poste Italiane, il diritto di R.D., dipendente di quest’ultima con orario part-time verticale dalle 8,30 alle 14,30 dal lunedì al giovedì, ad usufruire di tre giorni al mese L. n. 104 del 1992, ex art. 33,comma 3, ed a percepire la relativa indennità a carico dell’Inps.

La lavoratrice aveva lamentato davanti al Tribunale che il datore di lavoro aveva riproporzionato, in considerazione del part-time verticale da essa osservato, da tre a due il numero di giorni di permesso mensili spettanti,sebbene già con precedente sentenza n 142/2007, passata in giudicato, il Tribunale di Trento avesse riconosciuto il suo diritto a fruire di tre giorni, con condanna di Poste al risarcimento del danno in relazione al periodo 2001-2009.

La Corte ha riferito che dall’1/1/2009 era divenuto l’Inps l’istituto deputato al riconoscimento dei permessi e che Poste, in base a quanto precisato dall’Istituto con circolare 133/2000, aveva ridotto il numero dei permessi a due.

Secondo la Corte correttamente il Tribunale, in mancanza di una norma espressa, aveva fatto ricorso al principio di non discriminazione di cui al D.Lgs. n. 61 del 2000, art. 4, che, alla lettera b), faceva riferimento al riproporzionamento solo con riferimento al trattamento economico del lavoratore a tempo parziale in relazione alla retribuzione feriale, ai trattamenti economici per malattia, infortuni sul lavoro, malattia professionale e maternità e che alla lett. a), comma 2, prevedeva la modulazione della durata del periodo di prova e di conservazione del posto in caso di malattia per il contratto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale.

La Corte ha poi osservato che la mancata previsione di detti permessi nell’elenco di cui alla comma 2, lett. a), non era dirimente atteso che tale norma era costituita da due parti di cui la prima enunciava il principio di equiparazione dei diritti e la seconda parte conteneva un elenco non tassativo.

Con riferimento all’appello incidentale di Poste, la Corte ha rilevato che la sentenza del Tribunale di Trento del 2007, riguardando il medesimo rapporto ora in esame, aveva efficacia di giudicato anche dal 2009 nei confronti di Poste.

Avverso la sentenza propongono ricorso l’INPS, con un motivo, e Poste Italiane con due motivi. R.D. è rimasta intimata.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Preliminarmente i ricorsi vanno riuniti in quanto proposti avverso la medesima sentenza.

Con un unico motivo l’Inps denuncia violazione del combinato disposto del L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 3, e D.Lgs. n. 61 del 2000, art. 4, commi 2 e 3. Censura l’affermazione della Corte secondo cui in assenza di una espressa normativa del part-time volta a prevedere il riproporzionamento nella fattispecie in esame” non era consentito concedere i permessi in misura inferiore a tre.

Osserva che non era significativo che l’art. 4, citato non prevedesse il riproporzionamento in quanto, utilizzando tale parametro; non poteva non rilevarsi che la norma neppure affermava che tali permessi andavano riconosciuti in caso di part-time. Rileva che, come non costituiva un elenco tassativo quello della lett. a), tale non era neppure quello della lett. b); che il carattere non tassativo dell’elenco di cui alla lettera b) si ricavava anche dall’espressione “in particolare per quanto riguarda”.

Deduce che il riproporzionamento era espressione del generale principio di proporzionalità vigente per i lavoratori part-time e non costituiva discriminazione, ma evitava una discriminazione rispetto ai lavoratori a tempo pieno.

Poste censura con un primo motivo la violazione dell’art. 2909 c.c., e vizio di motivazione. Rileva che la sentenza del Tribunale di Trento, passata in giudicato, che aveva riconosciuto il diritto a 3 giorni, non costituiva giudicato, come erroneamente affermato dal Tribunale, tenuto conto del nuovo contesto normativo intervenuto che aveva attribuito all’Inps l’erogazione della prestazione e considerato che con circolare l’Inps aveva affermato la necessità del riproporzionamento. Osserva, ancora, che non poteva costituire giudicato anche in quanto la precedente sentenza si riferiva al periodo 2002/2007.

Con il secondo motivo denuncia violazione del L. n. 104 del 1992, art. 33, commi 3 e 7 bis, D.Lgs. n. 61 del 2000, art. 4, del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 42, commi 2 e 5 bis, e art. 60, dell’art. 23, punto X, del CCNL per i dipendenti postali dell’11/7/2007 e dell’art. 23, punto XI, del CCNL dell’11/7/2003, nonchè vizio di motivazione.

Censura che erroneamente la Corte, in mancanza di una norma espressa, aveva ritenuto di dover far ricorso al principio di non discriminazione;che nel nostro ordinamento non sussisteva un principio generale che, in caso di part-time verticale, non consentisse in assoluto di ridimensionare la misura di ogni singolo istituto tenuto conto che la norma autorizzava i CCNL a modulare la durata del periodo di prova o di conservazione del posto per malattia.

Entrambi i ricorsi sono infondati.

Ritiene il Collegio di dover confermare l’interpretazione già accolta da questa Corte nella recente sentenza n. 22925/2017.

La L. n. 104 del 1992, art. 33, riconosce al lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, il diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa.

La questione che si pone nel presente giudizio è se detti permessi mensili attribuiti al genitore debbano o meno essere riproporzionati nella misura di due, invece di tre, nell’ipotesi in cui il genitore osservi un orario di lavoro articolato su 4 giorni alla settimana con orario 8,30-14,30, cd part-time verticale.

Il D.Lgs. n. 61 del 2000, art. 4, (Testo unico sul part-time), dopo aver sancito al primo comma il principio di non discriminazione in base al quale il lavoratore a tempo parziale non deve ricevere un trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore a pieno, elenca alla lettera a) “i diritti” del lavoratore a tempo parziale ed “in particolare” stabilisce che deve beneficiare della medesima retribuzione oraria, del medesimo periodo di prova e di ferie annuali, della medesima durata del periodo di astensione obbligatoria e facoltativa per maternità, del periodo di conservazione del posto di lavoro a fronte di malattia, dei diritti sindacali, ivi compresi quelli di cui al titolo III della L. 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni.

L’art. 4 citato alla lettera b) stabilisce che “il trattamento del lavoratore a tempo parziale sia riproporzionato in ragione della ridotta entità della prestazione lavorativa” in particolare per quanto riguarda l’importo della retribuzione globale e delle singole componenti di essa; l’importo della retribuzione feriale; l’importo dei trattamenti economici per malattia, infortunio sul lavoro, malattia professionale e maternità.

La lettera a) individua, dunque, “i diritti “del lavoratore con orario part-time, mentre la successiva lett. b) esamina ” i trattamenti “economici. Questi ultimi possono essere riproporzionati.

Il legislatore, in dichiarata attuazione del principio di non discriminazione, ha inteso distinguere fra quegli istituti che hanno una connotazione patrimoniale e che si pongono in stretta corrispettività con la durata della prestazione lavorativa, istituti rispetto ai quali è stato ammesso il riproporzionamento del trattamento del lavoratore, (addirittura, sia pure con la mediazione delle parti collettive, in misura più che proporzionale alla minore entità della prestazione in base all’ultima parte della lett. b), ed istituti riconducibili ad un ambito di diritti a connotazione non strettamente patrimoniale, che si è inteso salvaguardare da qualsiasi riduzione connessa alla minore entità della durata della prestazione lavorativa.

In assenza di specifica disciplina, (nè la lettera a) nè la lettera b) menzionano i permessi in esame) l’interprete deve ricercare tra le possibili opzioni offerte dal dato normativo quella maggiormente aderente al rilievo degli interessi in gioco ed alla sottese esigenze di effettività di tutela, in coerenza con le indicazioni comunitarie (cfr in tal senso Cass. citata).

Il precedente citato di questa Corte ha messo in luce che “il permesso mensile retribuito di cui alla L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 3, costituisce espressione dello Stato sociale che eroga una provvidenza in forma indiretta, tramite facilitazioni e incentivi ai congiunti che si fanno carico dell’assistenza di un parente disabile grave. Come evidenziato da Corte cost. n. 213 del 2016, trattasi di uno strumento di politica socio-assistenziale, che, come quello del congedo straordinario di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 42, comma 5, è basato sul riconoscimento della cura alle persone con handicap in situazione di gravità prestata dai congiunti e sulla valorizzazione delle relazioni di solidarietà interpersonale ed intergenerazionale. La tutela della salute psico-fisica del disabile, costituente la finalità perseguita dalla L. n. 104 del 1992, postula anche l’adozione di interventi economici integrativi di sostegno alle famiglie “il cui ruolo resta fondamentale nella cura e nell’assistenza dei soggetti portatori di handicap” (sentenze n. 203 del 2013; n. 19 del 2009; n. 158 del 2007 e n. 233 del 2005). In questa prospettiva è innegabile che la ratio legis dell’istituto in esame consiste nel favorire l’assistenza alla persona affetta da handicap grave in ambito familiare. “…Risulta, pertanto, evidente che l’interesse primario cui è preposta la norma in questione – come già affermato da questa Corte con riferimento al congedo straordinario di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 42, comma 5, – è quello di “assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell’assistenza del disabile che si realizzino in ambito familiare, indipendentemente dall’età e dalla condizione di figlio dell’assistito” (sentenze n. 19 del 2009 e n. 158 del 2007)” (Corte cost. n. 213 del 2016).

Si tratta, in definitiva, di una misura destinata alla tutela della salute psico-fisica del disabile quale diritto fondamentale dell’individuo tutelato dall’art. 32 Cost., che rientra tra i diritti inviolabili che la Repubblica riconosce e garantisce all’uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.)”.

Tenuto conto, pertanto, delle finalità dell’istituto disciplinato dalla L. n. 104 del 1992, art. 33, come sopra evidenziate attinenti a diritti fondamentali dell’individuo, deve concludersi che il diritto ad usufruire dei permessi costituisce un diritto del lavoratore non comprimibile e da riconoscersi in misura identica a quella del lavoratore a tempo pieno.

Accanto a tali considerazioni si possono, altresì, richiamare gli ulteriori rilievi svolti nel precedente citato da questa Corte che, in fattispecie del tutto simile di part-time verticale con orario 8,30-14,30 per quattro giorni a settimana, ha escluso che la fruizione dei permessi in oggetto costituisca un irragionevole sacrificio per la parte datoriale.

Si è affermato, infatti, che “dal complesso delle fonti richiamate emerge la necessità, comunque, di una valutazione comparativa delle esigenze dei datori di lavoro e dei lavoratori, anche alla luce del principio di flessibilità concorrente con quello di non discriminazione, e della esigenza di promozione, su base volontaria, del lavoro a tempo parziale, dichiarato nell’Accordo quadro, alla base della Direttiva (v. in particolare clausola 1 lett. b) nella quale si evidenzia che scopo dell’Accordo è quello di “di facilitare lo sviluppo del lavoro a tempo parziale su base volontaria e di contribuire all’organizzazione flessibile dell’orario di lavoro in modo da tener conto dei bisogni degli imprenditori e dei lavoratori.”)… Il criterio che può ragionevolmente desumersi da tali indicazioni è quello di una distribuzione in misura paritaria degli oneri e dei sacrifici connessi all’adozione del rapporto di lavoro part time e, nello specifico, del rapporto part time verticale. In coerenza con tale criterio, valutate le opposte esigenze, appare ragionevole distinguere l’ipotesi in cui la prestazione di lavoro part time sia articolata sulla base di un orario settimanale che comporti una prestazione per un numero di giornate superiore al 50% di quello ordinario, da quello in cui comporti una prestazione per un numero di giornate di lavoro inferiori, o addirittura limitata solo ad alcuni periodi nell’anno e riconoscere, solo nel primo caso, stante la pregnanza degli interessi coinvolti e l’esigenza di effettività di tutela del disabile, il diritto alla integrale fruizione dei permessi in oggetto”.

In applicazione di tale criterio, così come affermato nel precedente di questa Corte, tenuto conto della modalità dell’orario di lavoro osservato, la sentenza impugnata deve essere confermata.

La novità della questione trattata e l’assenza di precedenti all’epoca dei ricorsi giustifica la compensazione delle spese di causa.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi, compensa le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 3 ottobre 2017.

Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2018

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