Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4061 del 16/02/2021

Cassazione civile sez. VI, 16/02/2021, (ud. 26/01/2021, dep. 16/02/2021), n.4061

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FERRO Massimo – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 13583/2018 R.G. proposto da:

BANCA MONTE DEI PASCHI DI SIENA S.P.A., in persona del responsabile

dipartimentale del Servizio di consulenza ed assistenza legale Sud e

Sicilia S.S., rappresentato e difeso dagli Avv. Alberto

Giaconia ed (OMISSIS), con domicilio in Roma, piazza Cavour, presso

la Cancelleria civile della Corte di cassazione;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO DELLA (OMISSIS) S.R.L. in liquidazione, in persona del

curatore p.t. Avv. C.R., rappresentato e difeso

dall’Avv. Carmelo Paolo Russo, con domicilio eletto in Roma, via

Appia Nuova, n. 414, presso lo studio dell’Avv. Paolo Paolucci;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Catania n. 487/17,

depositata il 22 marzo 2017.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 26 gennaio

2021 dal Consigliere Guido Mercolino.

 

Fatto

RILEVATO

che la Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.a. ha proposto ricorso per cassazione, per tre motivi, illustrati anche con memoria, avverso la sentenza del 22 marzo 2017, con la Corte d’appello di Catania ha rigettato il gravame da essa interposto avverso la sentenza emessa il 16 marzo 2016 dal Tribunale di Catania, che aveva condannato la ricorrente, in qualità di avente causa della Banca Agricola Etnea, al pagamento della somma di Euro 78.325,50, oltre interessi, in favore del fallimento della (OMISSIS) S.r.l. in liquidazione, a titolo di restituzione degli interessi ultra legali e della capitalizzazione trimestrale degli interessi, illegittimamente addebitati sul conto corrente intestato alla società fallita;

che il curatore del fallimento ha resistito con controricorso, anch’esso illustrato con memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che con il primo motivo d’impugnazione la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., nel testo introdotto dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto non contestata l’esistenza tra le parti di un rapporto di conto corrente con apertura di credito, senza tener conto dell’inapplicabilità ratione temporis della norma citata, per effetto della quale la non contestazione doveva ritenersi insufficiente ai fini della prova del predetto rapporto;

che il motivo è infondato;

che il principio di non contestazione deve ritenersi infatti applicabile anche ai giudizi come quello in esame, promossi in epoca anteriore all’entrata in vigore della L. n. 69 del 2009, art. 45, comma 14, il quale, nell’enunciarlo espressamente, si è limitato recepire l’orientamento precedentemente affermatosi in giurisprudenza, secondo cui la non contestazione determina effetti vincolanti per il giudice, il quale ha il dovere di ritenere sussistenti i fatti non contestati, astenendosi da qualsivoglia controllo probatorio in merito agli stessi (cfr. Cass., Sez. III, 27/02/2020, n. 5429; 9/06/1999, n. 5699; Cass., Sez. II, 7/05/2018, n. 10864);

che nella specie, essendo pacifico che la prova aveva ad oggetto una apertura di credito concessa nel 1991, e quindi anteriormente all’entrata in vigore della L. 17 febbraio 1992, n. 154, art. 3, e del D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 117, che hanno introdotto il requisito della forma scritta ad substantiam per la stipulazione dei contratti relativi ad operazioni e servizi bancari, non può trovare applicazione neppure il principio enunciato da questa Corte in riferimento all’ipotesi in cui il fatto da provare sia rappresentato da un atto per il quale la legge impone la forma scritta a pena di nullità, secondo cui la relativa prova può essere fornita soltanto in via documentale, dal momento che, a differenza di quanto accade nel caso in cui una determinata forma sia richiesta ad probationem, l’osservanza dell’onere formale non è prescritta esclusivamente ai fini della dimostrazione del fatto, ma per l’esistenza stessa del diritto fatto valere (cfr. Cass., Sez. I, 17/10/ 2018, n. 25999; 10/08/2001, n. 11054; Cass., Sez. III, 6/08/2002, n. 11765);

che con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2697 e 2935 c.c., nonchè l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto che la proposizione dell’eccezione di prescrizione non implicasse l’affermazione della natura solutoria dei versamenti eseguiti dalla società attrice e per aver posto la relativa prova a carico di essa ricorrente, senza tener conto del mutato orientamento della giurisprudenza di legittimità, per effetto del quale la predetta prova spetta a chi intende far decorrere il termine di prescrizione dalle singole annotazioni, anzichè dalla chiusura del conto, e della mancata dimostrazione dell’esistenza di un’apertura di credito, per effetto della quale doveva presumersi la natura solutoria di tutti i versamenti effettuati sul conto;

che il motivo è fondato;

che, ai fini del rigetto dell’eccezione di prescrizione del diritto alla restituzione delle somme illegittimamente addebitate a titolo di interessi ultra legali e anatocistici, la sentenza impugnata ha infatti affermato che, non avendo la Banca contestato l’esistenza di un’apertura di credito collegata al conto corrente, doveva presumersi la natura ripristinatoria delle rimesse effettuate dalla società attrice nel corso del rapporto, con la conseguenza che, in assenza di precisazioni da parte della convenuta, cui incombeva l’onere di provare la funzione solutoria dei versamenti effettuati o di parte degli stessi, il termine di prescrizione dell’azione di ripetizione non poteva essere fatto decorrere dalla data di annotazione in conto degli interessi illegittimamente addebitati, ma da quella di chiusura del conto corrente;

che, a sostegno del predetto assunto, la Corte territoriale ha richiamato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui, poichè i versamenti eseguiti sul conto corrente in corso di rapporto hanno normalmente funzione ripristinatoria della provvista, conformemente allo schema causale tipico del contratto, e non determinano quindi uno spostamento patrimoniale dal solvens all’accipiens, una diversa finalizzazione dei singoli versamenti o di alcuni di essi dev’essere in concreto provata dalla parte che intende far decorrere la prescrizione dalle singole annotazioni delle poste relative agli interessi passivi (cfr. Cass., Sez. VI, 7/09/2017, n. 20933; Cass., Sez. I, 30/11/2017, n. 28819; 26/02/2014, n. 4518);

che accanto a tale orientamento se ne è tuttavia sviluppato un altro, secondo cui, conformemente ai principi generali in tema di ripetizione dell’indebito, incombe al correntista che agisca per la restituzione l’onere di fornire la prova della natura indebita dei versamenti, e quindi, a fronte dell’eccezione di prescrizione dell’azione sollevata dalla banca, quello di dimostrare l’esistenza di un contratto di apertura di credito idoneo a qualificare il pagamento come ripristinatorio, con il conseguente spostamento dell’inizio del decorso della prescrizione al momento della chiusura del conto (cfr. Cass., Sez. I, 30/01/2019, n. 2660; 30/10/2018, n. 27704; Cass., Sez. VI, 22/02/ 2018, n. 4372);

che il predetto contrasto di giurisprudenza è stato composto da una recente pronuncia a Sezioni Unite, con cui questa Corte ha distinto l’onere dell’allegazione da quello della prova, affermando che, ove l’istituto di credito, convenuto in giudizio dal correntista che abbia esperito l’azione di ripetizione di somme indebitamente pagate nel corso del rapporto, voglia opporre l’eccezione di prescrizione, il primo onere deve ritenersi soddisfatto mediante l’affermazione dell’inerzia del titolare del diritto, unita alla dichiarazione di volerne profittare, senza che risulti necessaria l’indicazione delle specifiche rimesse solutorie ritenute prescritte (cfr. Cass., Sez. Un., 13/06/2019, n. 15895; Cass., Sez. III, 11/03/2020, n. 7013);

che tale principio, enunciato in riferimento all’ipotesi in cui il conto corrente sia assistito da un’apertura di credito, deve ritenersi applicabile anche a quello in cui l’utilizzazione di somme eccedenti la disponibilità esistente sul conto sia avvenuta in assenza di fido, non assumendo alcun rilievo, a tal fine, la circostanza che in quest’ultimo caso tutte le rimesse effettuate dal correntista abbiano carattere solutorio, dal momento che, come precisato da questa Corte, l’individuazione delle singole rimesse, che può aver luogo anche sulla base degli estratti conto e degli altri documenti eventualmente prodotti in giudizio, viene in considerazione esclusivamente ai fini dell’adempimento dell’onere della prova, in quanto non avente ad oggetto fatti costitutivi dell’eccezione di prescrizione, ma fatti secondari;

che con il terzo motivo la ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1284 e 2697 c.c., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che incombesse ad essa ricorrente l’onere di produrre il contratto di conto corrente, ai fini della prova della pattuizione in forma scritta del tasso d’interesse ultra legale, senza considerare che, vertendosi in tema di accertamento negativo del debito, l’onere di fornire la prova dei fatti allegati a sostegno della domanda incombeva alla società attrice, la quale avrebbe dovuto produrre, oltre al contratto, gli estratti conto relativi all’intera durata del rapporto;

che il motivo è inammissibile, in quanto, presupponendo che la domanda di restituzione delle somme illegittimamente addebitate a titolo d’interessi ultra legali sia stata accolta in virtù della mancata produzione da parte della Banca del contratto recante la pattuizione del tasso d’interesse, non attinge la ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale si è limitata a replicare al motivo di gravame con cui l’appellante aveva fatto valere la mancata contestazione dell’esistenza del predetto contratto, ritenendo corretta la decisione di primo grado, nella parte in cui aveva rilevato d’ufficio la nullità della predetta pattuizione per inosservanza dell’art. 1284 c.c., indipendentemente dalla ripartizione dell’onere probatorio;

che la sentenza impugnata va pertanto cassata, nei limiti segnati dallo accoglimento del secondo motivo d’impugnazione, con il conseguente rinvio della causa alla Corte d’appello di Catania, che provvederà, in diversa composizione, anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo motivo, cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e rinvia alla Corte di appello di Catania, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 26 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2021

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