Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4060 del 18/02/2011

Cassazione civile sez. lav., 18/02/2011, (ud. 13/01/2011, dep. 18/02/2011), n.4060

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 14362-2007 proposto da:

P.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TACITO 90,

presso lo studio dell’avvocato VACCARO GIOVANNI, rappresentato e

difeso dall’avvocato MINACAPILLI ANTONINO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato MASCHERONI EMILIO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 479/2006 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 10/05/06 R.G.N. 1247/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/01/2011 dal Consigliere Dott. ARIENZO Rosa;

udito l’Avvocato VACCARO GIUSEPPE per delega MINACAPILLI ANTONINO;

udito l’Avvocato MOTTA CATALDO per delega MASCHERONI EMILIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FEDELI Massimo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale di Palermo, con sentenza del 30.4.2004 aveva respinto il ricorso proposto da P.P. inteso alla declaratoria della illegittimità del licenziamento senza preavviso intimatogli da Poste Italiane ai sensi degli artt. 52 e 56, comma 6, del CCNL ed alla reintegrazione nel posto di lavoro (in qualità di capo turno e quindi di incaricato di pubblico servizio, aveva alterato in parte un atto vero, costituito dalle risultanze di Bilancio del movimento e delle corrispondenze, raccomandate assicurate e dei pacchi, relativo al giorno 28.5.1997, modificando la cifra 1427 in 1426, la cifra 804 in 803, quella 820 in 819, con consapevolezza della obbligatorietà di redazione del verbale relativo al mod. 13 di cui risultava, da parte sua, omesso il compimento). Il relativo procedimento penale era stato definito con sentenza ex art. 444 c.p.p., con la quale era stata applicata la pena di sei mesi di reclusione, con sospensione condizionale della pena.

Con sentenza del 10.5.2006, la Corte di Appello di Palermo rigettava l’appello e confermava la decisione impugnata dal P..

Assumeva, in sintesi, la Corte territoriale che era rimasta del tutto sfornita di prova la circostanza che la dichiarazione di responsabilità relativa alle effettuate variazioni sarebbe stata effettuata con l’assenso di capi turno e che, peraltro, la circostanza era comunque inidonea ad escludere la responsabilità del dipendente, essendo i fatti addebitati documentalmente e debitamente provati. Rilevava che la sentenza di patteggiamento, pur non potendo considerarsi quale ammissione di responsabilità, era indicativa della volontà dell’imputato di rinunziare a far valere la propria innocenza e che l’episodio era tale da rivelarsi idoneo a recidere il vincolo fiduciario, ai sensi dell’art. 54 c.c.n.l..

Propone ricorso per cassazione il P., affidando l’impugnazione a due motivi.

Resiste con controricorso la società, che ha depositato anche memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorrente, con il primo motivo, deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., dell’art. 7 dello statuto dei lavoratori ed, infine, degli artt. 52 e 54 c.c.n.l..

Assume che dall’istruttoria era emersa l’assoluta insussistenza di atti posti in essere dal ricorrente con dolo, atti a legittimare l’adozione del licenziamento senza preavviso ex art. 54, n. 6, prima parte, CCNL e che, pertanto, in mancanza degli elementi, soggettivo ed oggettivo, del dolo e del profitto, che caratterizzano un fatto reato, non potevano reputarsi condivisibili le conclusioni dei giudici del merito sotto i profili censurati.

Rileva che l’elencazione dei comportamenti vietati e sanzionabili, contenuta nel contratto collettivo nazionale di riferimento, è di carattere tassativo e che nell’art. 54 CCNL è previsto che le mancanze non specificamente indicate nella elencazione sono sanzionabili con i provvedimenti di cui all’ari. 52 CCNL (sanzioni conservative).

Pone, a conclusione della parte argomentativa della censura, quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c. relativo alla mancanza di sentenza penale passata in giudicato.

Con il secondo motivo il ricorrente si duole della insufficienza e contraddittorietà della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5).

Evidenzia l’inidoneità dei fatti contestati ad incidere sulla corretta funzionalità dell’ufficio ed a creare conseguenze pregiudizievoli al datore di lavoro Poste Italiane s.p.a., stante il successivo rinvenimento del plico smarrito; l’inidoneità dei fatti a ledere il rapporto fiduciario per la prosecuzione del rapporto.

Richiama il principio di gradualità e proporzionalità della sanzione e rimarca il mancato accertamento del nesso causale tra fatto contestato e conseguenze pregiudizievoli causate al datore di lavoro.

Osserva la Corte, con riguardo al primo dei motivi del ricorso, che è principio più volte enunciato da questa Corte quello secondo il quale l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi, al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo, ha valenza meramente esemplificativa e non esclude, perciò, la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento dei lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, alla sola condizione che tale grave inadempimento o tale grave comportamento, con apprezzamento di fatto del giudice di merito non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (cfr., tra le tante, Cass 16 marzo 2004 n. 5372, Cass 18.8.2004 n. 16260). E’ stato, più specificamente, anche osservato che la nozione di giusta causa è nozione legale e il giudice non è vincolato alle previsioni di condotte integranti giusta causa contenute nei contratti collettivi e che, tuttavia, ciò non esclude che ben possa il giudice far riferimento ai contratti collettivi e alle valutazioni che le parti sociali compiono in ordine alla valutazione della gravità di determinati comportamenti rispondenti, in linea di principio, a canoni di normalità; che il relativo accertamento va, però, operato caso per caso, valutando la gravità in considerazione delle circostanze di fatto e prescindendo dalla tipologia determinata dai contratti collettivi, sicchè il giudice può escludere che il comportamento costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato come tale dai contratti collettivi, solo in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato (cfr. in tal senso Cass 14.2.2006 n. 2906).

Orbene, nella ipotesi la Corte del merito correttamente ha ritenuto che i fatti contestati integrassero la previsione di all’art. 54 CCNL, il quale prevede l’applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento, tra l’altro, nell’ipotesi in cui il dipendente abbia dolosamente alterato, falsificato o sottratto documenti, registri o atti della società o ad essa affidati, al fine di trarne profitto.

Nè può sostenersi, come meglio specificato anche nel quesito di diritto formulato, che la irrogazione della sanzione del licenziamento sia preclusa in assenza di sentenza penale passata in cosa giudicata. Al riguardo è opportuno richiamare il principio recentemente enunciato da questa Corte, alla cui stregua, benchè la sentenza pronunciata a norma dell’art. 444 c.p.p., che disciplina l’applicazione della pena su richiesta dell’imputato, non sia tecnicamente configurabile come una sentenza di condanna, anche se è a questa equiparata a determinati fini, tuttavia, nell’ipotesi in cui una disposizione di un contratto collettivo faccia riferimento alla sentenza penale di condanna passata in giudicato, ben può il giudice di merito, nell’interpretare la volontà delle parti collettive espressa nella clausola contrattuale, ritenere che gli agenti contrattuali, nell’usare l’espressione “sentenza di condanna”, si siano ispirati al comune sentire che a questa associa la sentenza c.d. “di patteggiamento” ex art. 444 c.p.p., atteso che in tal caso l’imputato non nega la propria responsabilità, ma esonera l’accusa dell’onere della relativa prova in cambio di una riduzione di pena (cfr, in tali termini Cass. 21 aprile 2010 n. 9458). A maggior ragione, pertanto, nella specie – tenuto conto del mancato riferimento nella previsione contrattuale a sentenza penale di condanna – deve valere il principio appena richiamato.

Ai fini della valutazione della legittimità del licenziamento, è da evidenziare che:

1) è necessario accertare se, in relazione alla qualità del singolo rapporto intercorso frate parti, ed alla qualità ed al grado di fiducia che il rapporto comporta, la specifica mancanza risulti oggettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo grave, così da farla venir meno, la fiducia che il datore ripone nel proprio dipendente, senza che possa assumere rilievo l’assenza o la modesta entità del danno patrimoniale subito dal datore (Cass. 23 aprile 2004 n. 7724; Cass. 23 aprile 2002 n. 5943);

2) l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza d’un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, ovvero di un comportamento tale che non consenta la prosecuzione del rapporto di lavoro (Cass. 24 luglio 2006 n 16864; Cass. 25 febbraio 2005 n. 3994);

3) la valutazione della gravità del comportamento e della sua idoneità a ledere irrimediabilmente la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente (giudizio da effettuarsi considerando la natura e la qualità del rapporto, la qualità ed il grado del vincolo di fiducia connesso al rapporto, l’entità della violazione commessa e l’intensità dell’elemento soggettivo) è funzione del giudice del merito, che, adeguatamente motivata, in sede di legittimità è insindacabile (ex plurimis; Cass. 25 febbraio 2005 n. 3994);

4) “sul piano probatorio, premesso che l’elemento soggettivo è necessaria parte di ogni atto umano, se all’integrazione dei fatti giuridicamente legittimanti il licenziamento è necessario il dolo, l’onere datoriale di provare la sussistenza dei fatti si estende alla prova del dolo; e pertanto, ai fini della legittimità del licenziamento, la prova della sussistenza del fatto nella sua mera materialità è insufficiente”.

Nel caso in esame, la corte territoriale ha specificamente ed analiticamente valutato gli incontroversi fatti dedotti in controversia. Ed, in particolare, ha ritenuto che fossero sussistenti elementi idonei a dedurre il dolo, quale fattore necessario e determinante ai fini dell’illecito addebitato, atteso che ha valutato la condotta del lavoratore anche dal punto di vista soggettivo, evidenziando che non era risultato provato che altri dipendenti fossero stati messi al corrente della falsificazione, effettuata per il mancato rinvenimento del plico postale, e che in ogni caso la circostanza sarebbe valsa unicamente a determinare a titolo di concorso, conseguenze pregiudizievoli anche nei confronti dei predetti, ma non certo ad escludere la responsabilità del P..

Anche in relazione alla omessa considerazione dell’ulteriore elemento del profitto, lo stesso è stato individuato in qualunque utilità o giovamento conseguibile attraverso una determinata condotta (nella specie rappresentata dall’intento di evitare il rischio di sanzioni disciplinari per il mancato rinvenimento del plico postale smarrito) e, pertanto, sotto qualsiasi dei profili oggetto di censura la decisione risulta correttamente motivata, avendo valutato la proporzionalità ed adeguatezza della sanzione rispetto ad un comportamento ritenuto idoneo a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, specie in considerazione delle mansioni svolte dal P., connotate da notevole affidamento per la funzione di incaricato di pubblico servizio espletata nelle operazioni di registrazione e compilazione dei modelli prescritti.

Le considerazioni svolte sono idonee a palesare l’infondatezza anche del secondo motivo di censura coni il quale si contesta genericamente la valutazione compiuta dal primo giudice quale emerge dalla motivazione, senza indicare i punti ed i passaggi argomentativi affetti dai vizi denunziati, se non contestandosi genericamente l’idoneità dei fatti ad incidere sulla corretta funzionalità dell’ufficio, a creare conseguenze pregiudizievoli per il datore – essendo stato il plico poi rinvenuto -, a ledere il vincolo fiduciario e la mancata applicazione alla fattispecie del principio di gradualità e proporzionalità.

Al riguardo deve evidenziarsi che questa Corte ha ripetutamente ribadito il principio secondo cui, in caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, dovendosi ritenere determinante, a tal fine, l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza. Spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro (cfr., da ultimo Cass. 26 luglio 2010 n. 17514).

Ribadendo un indirizzo giurisprudenziale costante – proprio in una fattispecie riguardante l’illegittimità di un licenziamento – questa Corte ha statuito che è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione per vizio di motivazione qualora esso intenda far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, prospetti un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice di merito e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi de dedotto vizio. In caso contrario, infatti, tale motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (cfr., da ultimo, ex plurimis, Cass. 26 marzo 2010 n. 7394).

Per concludere, il ricorso va rigettato e va confermata la sentenza impugnata, per essere la stessa supportata da una motivazione che, oltre ad essere congrua e priva di salti logici, ha fatto corretta applicazione della normativa applicabile alla fattispecie in esame.

Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte così provvede:

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio, liquidate in Euro 29,00 per esborsi, Euro 2.500,00 per onorario, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.

Così deciso in Roma, il 13 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 18 febbraio 2011

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