Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4035 del 16/02/2021

Cassazione civile sez. III, 16/02/2021, (ud. 16/11/2020, dep. 16/02/2021), n.4035

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – rel. Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2649-2019 proposto da:

V.F., rappresentata e difesa dall’avvocato ANDREA DRI,

con studio in UDINE, VIA DUINO N. 1/4 ed elettivamente domiciliata

presso il medesimo;

– ricorrente –

contro

AZIENDA PER L’ASSISTENZA SANITARIA N. (OMISSIS) “BASSA FRUILANA E

ISONTINA”, rappresentata e difesa dall’avvocato DIEGO MODESTI, ed

elettivamente domiciliata presso lo studio del medesimo, in

CERVIGNANO DEL FRIULI, PIAZZALE DEL PORTO N. 5;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 648/2018 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 12/11/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/11/2020 dal Consigliere Dott. DANILO SESTINI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PEPE ALESSANDRO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

V.F. convenne in giudizio l’Azienda per l’Assistenza Sanitaria n. (OMISSIS) Bassa Friulana e Isontina per sentirla condannare al risarcimento dei danni conseguiti alle lesioni riportate il (OMISSIS) allorquando, camminando sul marciapiede antistante il Pronto Soccorso dell’Ospedale di (OMISSIS), era inciampata in una mattonella sconnessa ed era rovinata a terra.

Il Tribunale rigettò la domanda, condannando l’attrice alla rifusione delle spese in favore della convenuta.

La Corte di Appello di Trieste ha confermato la sentenza di primo grado, gravando l’appellante delle spese di lite.

La Corte ha ritenuto, in particolare, che la V. non avesse assolto l’onere di provare la “non visibilità del pericolo” e la “non prevedibilità dell’evento dannoso” e ha aggiunto che ciò che si richiede al pedone “non è un comportamento normale, ma un comportamento diligente come esigibile in determinate situazioni contingenti secondo un criterio di normalità e di comune esperienza”.

Ha proposto ricorso per cassazione la V., affidandosi a quattro motivi; l’intimata ha resistito con controricorso.

La causa è stata trattata dalla Sesta Sezione-3 e rimessa alla pubblica udienza con ordinanza interlocutoria n. 9269 del 5.12.2019.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo, la ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), art. 183 c.p.c., comma 6 e art. 2697 c.c., rilevando che la Corte territoriale ha escluso la responsabilità dell’Azienda convenuta sull’assunto dell’imprudenza della danneggiata, che non avrebbe camminato con la dovuta diligenza, senza tuttavia precisare in cosa sarebbe consistita la negligenza; aggiunge che il giudice di appello ha posto a fondamento della decisione “fatti non provati e circostanze contestate, al contrario emarginando dall’orizzonte (…) aspetti pacifici”, in tal modo travisando i fatti e violando l’art. 115 c.p.c..

1.1. Il motivo è inammissibile, in quanto – per un verso – viola l’art. 366 c.p.c., n. 6, là dove evoca elementi fattuali senza rispettare l’onere di cui all’anzidetta norma, e -per altro verso, come conferma l’uso dell’espressione travisamento- non deduce la violazione degli artt. 115 e 2697 c.c. nei termini indicati da Cass., Sez. Un., n. 16598 del 2016 (in motivazione) e da Cass. n. 11892 del 2016, ma sollecita una rivalutazione della quaestio facti in spregio dei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., n. 5 collocandosi, del resto, del tutto al di fuori dell’ambito della violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4) dato che la motivazione esiste ed è chiaramente percepibile.

2. Il secondo motivo denuncia la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 2051 c.c..

Premesso che, secondo la Corte di Appello, difetterebbe il nesso causale tra la caduta e la sconnessione del marciapiede, in quanto non sarebbe emersa la natura di pericolo occulto di tale sconnessione e – al contrario – la caduta sarebbe dipesa da un difetto di diligenza della V., la ricorrente rileva che, ad integrare la responsabilità del custode ex art. 2051 c.c. “è necessario e sufficiente che il danno sia stato cagionato dalla cosa in custodia, a ciò rilevando il solo dato obiettivo del nesso causale tra cosa e danno”, cosicchè “al danneggiato compete il solo onere di dar contezza dell’esistenza di un nesso causale tra cosa e danno, diversamente incombendo sul custode l’onere di provare (…) che il danno non è stato causato dalla cosa, ma dal caso fortuito, nel cui ambito possono essere compresi tanto i fatti naturali, quanto del terzo o dello stesso danneggiato”, con la precisazione che “il caso fortuito è integrato da ciò che rappresenta un’eccezione alla normale sequenza causale, rispetto alla quale si colloca in una posizione esterna, nelle forme di un’obiettiva imprevedibilità, che assume efficienza causale esclusiva”; aggiunge che la caduta della V. “è legata eziologicamente all’irregolarità del marciapiede ed all’abbassamento di una delle mattonelle” e che “è indubbio che la caduta della ricorrente (…) non sarebbe accaduta se il marciapiede fosse stato regolare”, cosicchè “non si comprende (…) in cosa sarebbe consistita la condotta imprudente della ricorrente, che per la Corte d’Appello avrebbe rappresentato la causa esclusiva dell’evento”; conclude che “l’errore del secondo giudice non sta solo nell’aver riconosciuto un caso fortuito laddove totalmente assente, ma anche nell’averlo letto con gli occhiali propri del paradigma dell’art. 2043 c.c., in punto di visibilità e prevedibilità dell’insidia. Il giudice di appello, infatti, ha mostrato di considerare sufficiente ad integrare il caso fortuito la supposta condotta colposa della danneggiata, come se la stessa valesse di per sè sola ad escludere qualunque nesso condizionante fra la situazione di pacifica pericolosità del marciapiede, nel punto in cui una mattonella era sprofondata, e l’inciampo, con conseguente caduta della danneggiata medesima”.

2.1. Il motivo è fondato e merita accoglimento, nei termini e per le ragioni che seguono.

E’ fondato il rilievo della ricorrente secondo cui la Corte territoriale ha errato nel “leggere” la vicenda – deducente chiaramente un’ipotesi di responsabilità per danno cagionato da cose in custodia – sotto la lente propria del paradigma dell’art. 2043 c.c.; infatti, pur richiamando formalmente il criterio di imputazione di cui all’art. 2051 c.c., la sentenza ha mostrato in modo inequivoco di ritenere che la responsabilità della ASS convenuta potesse essere configurata soltanto a fronte del concreto riscontro di un’insidia” (o pericolosità occulta della cosa), così richiedendo all’attrice di provare la “non visibilità del pericolo” e la “non prevedibilità dell’evento dannoso” e pervenendo all’esclusione della responsabilità dell’Azienda sull’assunto che la sconnessione del marciapiede potesse (e dovesse) essere rilevata dalla V..

Una siffatta impostazione risulta tuttavia erronea alla luce della pacifica riconducibilità della fattispecie nel paradigma dell’art. 2051 c.c., e non in quello dell’art. 2043 c.c., senza possibilità di utilizzare, per l’accertamento della responsabilità del custode, categorie ad essa non pertinenti.

E’ pacifico, infatti, che:

la responsabilità ex art. 2051 c.c. ha natura oggettiva e discende dall’accertamento del rapporto causale fra la cosa in custodia e il danno, salva la possibilità per il custode di fornire la prova (liberatoria) del caso fortuito, ossia di un elemento esterno che valga ad elidere il nesso causale e che può essere costituito da un fatto naturale e dal fatto di un terzo o della stessa vittima;

tale essendo la struttura della responsabilità ex art. 2051 c.c., l’onere probatorio gravante sul danneggiato si sostanzia nella duplice dimostrazione dell’esistenza (ed entità) del danno e della sua derivazione causale dalla cosa, residuando, a carico del custode come detto – l’onere di dimostrare la ricorrenza del fortuito;

nell’ottica della previsione dell’art. 2051 c.c., tutto si gioca dunque sul piano di un accertamento di tipo “causale” (della derivazione del danno dalla cosa e dell’eventuale interruzione di tale nesso per effetto del fortuito), senza che rilevino altri elementi, quali il fatto che la cosa avesse o meno natura “insidiosa” o la circostanza che l’insidia fosse o meno percepibile ed evitabile da parte del danneggiato (trattandosi di elementi consentanei ad una diversa costruzione della responsabilità, condotta alla luce del paradigma dell’art. 2043 c.c.);

al cospetto dell’art. 2051 c.c., la condotta del danneggiato può quindi rilevare unicamente nella misura in cui valga ad integrare il caso fortuito, ossia presenti caratteri tali da sovrapporsi al modo di essere della cosa e da porsi essa stessa all’origine del danno; al riguardo, deve pertanto ritenersi che, ove il danno consegua alla interazione fra il modo di essere della cosa in custodia e l’agire umano, non basti a escludere il nesso causale fra la cosa e il danno la condotta colposa del danneggiato, richiedendosi anche che la stessa si connoti per oggettive caratteristiche di imprevedibilità ed imprevenibilità che valgano a determinare una definitiva cesura nella serie causale riconducibile alla cosa;

giova richiamare, al riguardo, le lucide considerazioni svolte da Cass. n. 25837/2017, secondo cui “la eterogeneità tra i concetti di “negligenza della vittima” e di “imprevedibilità” della sua condotta da parte del custode ha per conseguenza che, una volta accertata una condotta negligente, distratta, imperita, imprudente, della vittima del danno da cose in custodia, ciò non basta di per sè ad escludere la responsabilità del custode. Questa è infatti esclusa dal caso fortuito, ed il caso fortuito è un evento che praevideri non potest. L’esclusione della responsabilità del custode, pertanto, quando viene eccepita dal custode la colpa della vittima, esige un duplice accertamento: (a) che la vittima abbia tenuto una condotta negligente; (b) che quella condotta non fosse prevedibile. In questo senso, di recente, si è già espressa questa Corte, stabilendo che la mera disattenzione della vittima non necessariamente integra il caso fortuito per i fini di cui all’art. 2051 c.c., in quanto il custode, per superare la presunzione di colpa a proprio carico, è tenuto a dimostrare di avere adottato tutte le misure idonee a prevenire i danni derivanti dalla cosa (Sez. 3, Sentenza n. 13222 del 27/06/2016) (…) La condotta della vittima d’un danno da cosa in custodia può dirsi imprevedibile quando sia stata eccezionale, inconsueta, mai avvenuta prima, inattesa da una persona sensata.

Stabilire se una certa condotta della vittima d’un danno arrecato da cose affidate alla custodia altrui fosse prevedibile o imprevedibile è un giudizio di fatto, come tale riservato al giudice di merito: ma il giudice di merito non può astenersi dal compierlo, limitandosi a prendere in esame soltanto la natura colposa della condotta della vittima”;

nel caso specifico della caduta del pedone in corrispondenza di una sconnessione del marciapiede, non può evidentemente sostenersi che la stessa sia imprevedibile (rientrando nel notorio che la sconnessione possa determinare la caduta del passante) e imprevenibile (sussistendo, di norma, la possibilità di rimuovere il dislivello o, almeno, di segnalarlo adeguatamente); deve allora ritenersi che il mero rilievo di una condotta colposa del danneggiato non sia idoneo a interrompere il nesso causale, che è manifestamente insito nel fatto stesso che la caduta sia originata dalla (prevedibile e prevenibile) interazione fra la condizione pericolosa della cosa e l’agire umano.

Ciò non significa, peraltro, che tale condotta – ancorchè non integrante il fortuito – non possa assumere rilevanza ai fini della liquidazione del danno cagionato dalla cosa in custodia, ma ciò può avvenire, non all’interno del paradigma dell’art. 2051 c.c., bensì ai sensi dell’art. 1227 c.c. (operante, ex art. 2056 c.c., anche in ambito di responsabilità extracontrattuale), ossia sotto il diverso profilo dell’accertamento del concorso colposo del danneggiato, valutabile sia nel senso di una possibile riduzione del risarcimento, secondo la gravità della colpa del danneggiato e le conseguenze che ne sono derivate (ex art. 1227 c.c., comma 1), sia nel senso della negazione del risarcimento per i danni che l’attore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza (ex art. 1227 c.c., comma 2), fatta salva, nel secondo caso, la necessità di un’espressa eccezione della controparte.

In conclusione, deve dunque affermarsi che, ove sia dedotta la responsabilità del custode per la caduta di un pedone in corrispondenza della sconnessione o buca di un marciapiede, l’accertamento della responsabilità deve essere condotto ai sensi dell’art. 2051 c.c. e non risulta predicabile la ricorrenza del caso fortuito a fronte del mero accertamento di una condotta colposa della vittima (la quale potrà invece assumere rilevanza, ai fini della riduzione o dell’esclusione del risarcimento, ai sensi dell’art. 1227 c.c., commi 1 o 2), richiedendosi, per l’integrazione del fortuito, che detta condotta presenti anche caratteri di imprevedibilità ed eccezionalità tali da interrompere il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno.

3. Col terzo motivo, viene dedotta la violazione o falsa applicazione “dell’art. 1227 c.c., in relazione all’art. 2051 c.c.”: premesso che “il concorso del fatto colposo della vittima è compatibile con la responsabilità della pubblica amministrazione in caso di insidia dannosa, ma tale compatibilità si riflette, giammai sull’esistenza della causalità giuridica, bensì solo sul risarcimento del danno, in quanto non è astrattamente configurabile un’interruzione del nesso causale”, la V. rileva – con riferimento all’ipotesi di cui all’art. 1227 c.c., comma 1 – che, “ammesso e non concesso che sussista un qualche profilo di colpa rimproverabile alla ricorrente (…), questa non priverebbe la resistente di responsabilità, intervenendo semplicemente sulla percentuale di danno risarcibile”, mentre – con riferimento all’ipotesi di cui all’art. 1227 c.c., comma 2 -incomberebbe “sul debitore l’onere di provare che se la ricorrente avesse tenuto un comportamento diligente, il danno non si sarebbe verificato”.

3.1. Il motivo è assorbito dall’accoglimento del secondo, che comporterà al giudice di rinvio la necessità di valutare, rinnovando correttamente il giudizio in iure alla stregua dell’art. 2051 c.c., se ricorra eventualmente una condizione riferibile all’art. 1227 c.c..

4. Il quarto motivo – che contesta alla Corte, sotto il profilo della violazione dell’art. 92 c.p.c., comma 2, di non aver tenuto conto della soccombenza reciproca, conseguente al fatto che le eccezioni preliminari della convenuta erano state respinte- resta anch’esso assorbito, dato che dovrà procedersi a nuova regolazione delle spese di lite all’esito del giudizio di rinvio.

5. La sentenza va pertanto cassata con rinvio alla Corte territoriale che, in diversa composizione, procederà a nuovo esame, alla luce dei principi e delle considerazioni di cui sopra, provvedendo altresì alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, dichiarato inammissibile il primo motivo, accoglie il secondo, con assorbimento degli altri due, e cassa rinviando, anche per le spese di lite, alla Corte di Appello di Trieste, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 16 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2021

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