Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4034 del 18/02/2020

Cassazione civile sez. I, 18/02/2020, (ud. 24/09/2019, dep. 18/02/2020), n.4034

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 30809/2018 proposto da:

L.A., elettivamente domiciliato in Roma Viale Alessandro

Manzoni 81 presso lo studio dell’avvocato Consolo Antonella che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato Cacace Gelsomina;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1789/2018 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 19/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

24/09/2019 dal Cons. FIDANZIA ANDREA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’Appello di Napoli, con sentenza depositata il 19 aprile 2019, ha rigettato l’appello avverso il decreto con cui il Tribunale di Napoli aveva rigettato la domanda proposta da L.A., cittadino del (OMISSIS), volta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale o, in subordine, della protezione umanitaria.

E’ stato, in primo luogo, ritenuto che difettassero i presupposti per il riconoscimento in capo al ricorrente dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria, trattandosi di vicenda del tutto privata, personale, e circoscritta a rapporti familiari, non inquadrabile in nessuna delle fattispecie di protezione internazionale (costui aveva riferito che la seconda moglie di suo padre – che si era da tempo allontanato da casa senza più dare proprie notizie – allo scopo di allontanarlo dalla propria abitazione, aveva, con l’ausilio di terzi, cominciato a minacciarlo, perpetuando tale condotta anche dopo che la aveva denunciata alla Polizia, costringendolo così a fuggire dal (OMISSIS)).

Al richiedente è stata inoltre negata la protezione sussidiaria, essendo stata ritenuta l’insussistenza di una situazione di violenza generalizzata nella sua zona di provenienza.

Il ricorrente non è stato comunque ritenuto meritevole del permesso per motivi umanitari per carenza di una condizione di vulnerabilità.

Ha proposto ricorso per cassazione L.A. affidandolo a tre motivi. Il Ministero dell’Interno non ha svolto difese.

Il ricorrente ha depositato la memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b) e dell’art. 10 Cost., comma 3.

Lamenta il ricorrente che la stessa Corte d’Appello non ha messo in dubbio che lo stesso avesse effettivamente denunziato il comportamento persecutorio della matrigna all’autorità di polizia, senza ciò abbia sortito l’effetto di farlo cessare.

Inoltre, evidenzia come in (OMISSIS) anche l’accesso alla giustizia civile sia di fatto impedito ai non abbienti, essendo le ridotte risorse statali destinate ad erogare il servizio della difesa tecnica innanzi alle Corti di Assise degli imputati indigenti.

Benchè, nel caso di specie, la lesione non provenga da un attore statuale, lo Stato ha comunque il dovere di impedirla o quantomeno porre in essere azioni positive per consentire al cittadino l’accesso effettivo a tutela dei propri diritti di natura morale e patrimoniale, configurandosi diversamente un trattamento degradante cui si può ovviare solo con la protezione sussidiaria a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b).

Espone, inoltre, il ricorrente di aver diritto al riconoscimento della protezione internazionale a norma dell’art. 10 Cost..

2. Con il secondo motivo è stata dedotta violazione del D.Lgs. n. 271 del 2007, art. 3 nonchè omesso esame di circostanze decisive.

Lamenta il ricorrente che i giudici di merito avrebbero potuto fare una corretta applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b) ove avessero considerato le notorie difficoltà in cui si dibattono i sistemi giudiziari dell'(OMISSIS).

3. Il primo ed il secondo motivo, da esaminarsi unitariamente, avendo ad oggetto questioni strettamente collegate, sono infondati.

Va osservato la generica minaccia perpetrata al ricorrente dalla propria matrigna allo scopo di allontanarlo dalla casa di abitazione non è sussumibile nelle fattispecie di protezione internazionale tutelate dalla D.Lgs. n. 251 del 2007, difettando il necessario requisito del “danno grave” che può consistere o nella condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte (art. 14, lett. a) o nella tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente protezione nel suo paese d’origine.

Nè, peraltro, il ricorrente può affermare che la mancata erogazione da parte dello Stato di un servizio di assistenza legale per i non abbienti tra cui lo stesso afferma di appartenere – rientri tra i trattamenti degradanti, configurandosi una tale tipologia di trattamenti in caso di tortura o altri trattamenti inumani subiti da un soggetto nelle carceri ovvero in virtù degli artt. 3 e 60 della Convenzione di Istanbul maggio 2011 sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (ratificata con L. n. 77 del 2013), in caso di atti di violenza domestica (vedi Cass. n. 12333/2017).

Nè, infine, il ricorrente può invocare la violazione dell’art. 10 Cost., comma 3.

E’, infatti, orientamento consolidato di questa Corte, da cui questo Collegio non intende discostarsi, che il diritto di asilo ha trovato piena attuazione attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti costituiti dallo “status” di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso umanitario, ad opera della esaustiva normativa di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007 e del D.Lgs.n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, cosicchè non v’è più alcun margine di residuale diretta applicazione del disposto di cui all’art. 10 Cost., comma 3, (Cass. n. 11110/19, n. 16362/2016 e n. 10686/2012).

4. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

Ha citato, in primo luogo, il ricorrente una serie di pronunce in cui è stata riconosciuta la protezione umanitaria in situazioni di vulnerabilità caratterizzate dalla effettiva deprivazione dei diritti umani e dalla compromissione delle esigenze ineludibili di vita.

Il ricorrente ha, altresì, evidenziato la propria integrazione nel paese di accoglienza, avendo conseguito il diploma di scuola media inferiore e svolgendo attività lavorativa a tempo indeterminato.

6. Il motivo è infondato.

Va preliminarmente osservato che questa Corte ha già avuto modo di affermare che, anche ove sia dedotta dal richiedente una effettiva e significativa compromissione dei diritti fondamentali inviolabili nel paese d’origine, pur dovendosi partire, nella valutazione di vulnerabilità, dalla situazione oggettiva di tale paese, questa deve essere necessariamente correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza. Infatti, ove si prescindesse dalla vicenda personale del richiedente, si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti, e ciò in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (in questi termini Cass. n. 4455 del 23/02/2018).

Nel caso di specie, il ricorrente, non ha neppure dedotto una situazione di generale compromissione dei diritti fondamentali nel paese d’origine, limitandosi a citare qualche sentenza in tema di protezione umanitaria, e non ha nemmeno allegato assolutamente nulla in ordine alle proprie condizioni personali, limitandosi ad evidenziare il proprio inserimento sociale nel paese di accoglienza.

In proposito, questa Corte ha già affermato che il livello di integrazione raggiunto dall’odierno nel paese d’accoglienza è un elemento che può essere sì considerato in una valutazione comparativa al fine di verificare la sussistenza della situazione di vulnerabilità, ma non può, tuttavia, da solo esaurirne il contenuto (vedi sempre Cass. n. 4455 del 23/02/2018).

Il rigetto del ricorso non comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di lite, non essendosi il Ministero intimato costituito in giudizio.

Si applica il doppio contributo, a norma del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, non essendo il ricorrente stato ammesso al patrocinio a carico dello Stato.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 24 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 18 febbraio 2020

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