Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 40336 del 16/12/2021

Cassazione civile sez. VI, 16/12/2021, (ud. 12/10/2021, dep. 16/12/2021), n.40336

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCODITTI Enrico – Presidente –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12603-2020 proposto da:

ORTO DELLE FAVOLE – ASSOCIAZIONE DI PROMOZIONE SOCIALE, in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA POMPEO MAGNO 94, presso studio legale MORBINATI &

LONGO, rappresentata e difesa dall’avvocato MAURO LONGO;

– ricorrente –

contro

VODAFONE ITALIA SPA, in persona del procuratore speciale pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 16/B, presso lo studio

dell’avvocato ALESSANDRO LIMATOLA, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato EGIDIO PAOLUCCI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3836/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 20/09/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 12/10/2021 dal Consigliere Relatore Dott. MARILENA

GORGONI.

 

Fatto

RILEVATO

che:

L’Associazione di promozione sociale L’Orto delle favole conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Milano, Vodafone Italia SPA per ottenerne la condanna al pagamento di Euro 90.000,00: 50.000,00 a titolo di danno per i minori ricavi ed Euro 40.000,00 a titolo di danno non patrimoniale.

Assumeva: i) di operare nel settore sociale, organizzando eventi e corsi di formazione, a seguito di appositi bandi di gara pubblicati da diverse scuole dell’infanzia; ii) di avere sottoscritto con Vodafone Italia Spa una proposta di abbonamento con richiesta di portabilità dei numeri telefonici utilizzati da 17 anni; iii) di essere rimasta senza linee telefoniche da ottobre 2012 a gennaio 2013; iv) di avere avuto dal gennaio 2013 sempre e solo numeri di telefono provvisori; v) di essere di nuovo rimasta sprovvista di linea dal 15 luglio 2014 al 15 settembre 2014, con assegnazione di ulteriori numeri provvisori fino al 3 novembre 2014; vi) di avere sollecitato inutilmente Vodafone a provvedere; vii) di avere presentato formale reclamo e di avere costituito in mora la compagnia telefonicamente sempre infruttuosamente; vili) di avere tentato la conciliazione dinanzi al Corecom Lazio, con esito negativo.

Il Tribunale, con sentenza n. 1102/2018, dichiarava la domanda improcedibile, giacché era stata introdotta una domanda di risarcimento del danno ex novo di cui non vi era cenno nel tentativo di conciliazione.

L’Orto delle Favole proponeva appello avverso la suddetta sentenza, chiedendo pregiudizialmente di dichiarare procedibile la domanda e nel merito di condannare l’appellata per i danni quantificati in Euro 90.000,00 derivanti dall’inadempimento delle obbligazioni contrattuali.

La Corte d’Appello, con la sentenza n. 3836/2019, resa pubblica il 20 settembre 2019, dichiarava procedibile la domanda, ma la respingeva nel merito, osservando che non era sufficiente che l’appellante deducesse i disservizi di Vodafone, occorrendo anche la prova del nesso di causalità tra il dedotto inadempimento ed il danno di cui era chiesto il ristoro. A tale scopo, riteneva insufficiente che alcuni committenti dell’appellante avessero invano tentato di contattarla, occorrendo la prova, mancante, che detti tentativi fossero finalizzati a conferire specifici incarichi o allo svolgimento di altrettanti specifici servizi. Non solo: non vi era prova che l’appellante, resasi conto che il disservizio di Vodafone si protraeva, avesse cercato di contattare i potenziali committenti, informandoli del problema e invitandoli a interpellarla attraverso altri mezzi.

L’Orto delle Favole ricorre per la cassazione di detta sentenza, basandosi su tre motivi.

Resite con controricorso Vodafone Italia SPA.

Avendo ritenuto sussistenti le condizioni per la trattazione ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta che è stata ritualmente notificata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo viene lamentata la erronea qualificazione della normativa in materia di risarcimento del danno per inadempimento contrattuale (violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 1226 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

Secondo la ricorrente, in tema di responsabilità per inadempimento, trovando applicazione la presunzione di colpa, spetterebbe al creditore/attore solo l’onere di provare l’inadempimento e l’entità del danno, dovendo essere, per converso, il convenuto dimostrare l’impossibilità della prestazione per causa non imputabile e il danno patrimoniale da mancato guadagno, concretandosi nel mancato accrescimento patrimoniale imputato all’inadempiente, richiederebbe la prova, anche presuntiva, dell’utilità che il creditore avrebbe, secondo un rigoroso giudizio di probabilità, conseguito ove l’obbligazione fosse stata adempiuta.

Di conseguenza, sostiene di avere ampiamente provato l’inadempimento ed il danno patrimoniale subito.

Lamenta che il giudice a quo non abbia tenuto conto: i) della direttiva generale in materia di qualità e carte dei servizi di telecomunicazioni di cui all’allegato A alla Delib. Agcom n. 179/03/CSP, che garantisce all’utente il diritto ad un indennizzo per il periodo di disservizio, a meno che l’operatore non dimostri che il ritardo sia dipeso da causa a lui non imputabile; ii) della dimostrazione delle spese sostenute per riottenere la visibilità perduta e ricomunicare con i suoi soci ed interlocutori: il bilancio del 2013, il quale evidenziava una variazione negativa derivante dal minor numero di associati e dalla manata collaborazione con diversi soggetti istituzionali; le comunicazioni con cui vari istituti scolastici lamentavano la sua irreperibilità.

2. Con il secondo motivo viene dedotto la erronea qualificazione della normativa in materia di risarcimento del danno non patrimoniale (violazione e falsa applicazione dell’art. 2 Cost., e dell’art. 1259 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

Dopo aver richiamato alcune pronunce di merito che, nel caso di disservizi telefonici, avevano riconosciuto all’utente il risarcimento del danno esistenziale, la ricorrente invoca l’applicazione della pronuncia n. 11698/2018 di questa Suprema Corte che, ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale, derivante da disservizi telefonici aveva ammesso che il giudice, provata la lesione, potesse procedere alla valutazione equitativa del danno non patrimoniale, ove fosse stata dimostrata l’esistenza di danni risarcibili e fosse risultato difficile obiettivamente o particolarmente difficile provarne l’effettivo ammontare.

A tal fine adduce di avere lamentato le conseguenze sulla salute del rappresentante legale dell’associazione, dimostrate attraverso il certificato medico del servizio psichiatrico diagnosi e cura dell’Ospedale San Camillo di Roma che, in data 8 luglio 2014, aveva diagnosticato una depressione maggiore risalente al periodo successivo all’incontro di conciliazione, ed un secondo certificato medico dello stesso tenore che confermava lo stato di grave depressione anche nelle more del giudizio di primo grado.

Le argomentazioni a supporto del motivo, dopo aver rilevato che la Corte territoriale non ha speso neppure una parola sulla domanda avente ad oggetto il ristoro del danno non patrimoniale subito dal rappresentante legale e pur ventilando la violazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia, prende “per buona” l’ipotesi che il giudice, affermando l’insussistenza del nesso di causalità tra il danno e l’inadempimento, abbia fatto riferimento anche alla domanda risarcitoria avente ad oggetto il danno non patrimoniale.

3. Con il terzo motivo si imputa alla sentenza gravata di avere omesso di compensare le spese di lite, incorrendo nella violazione dell’art. 92 c.p.c..

Ad avviso della ricorrente, ricorrevano ampie e fondate ragioni che avrebbero dovuto giustificare, da parte della Corte d’Appello, la compensazione delle spese di lite: la particolare complessità e novità delle questioni trattate, gli elementi acquisiti che rendevano non temeraria lite, la negligenza della controparte che aveva causato la lite.

4. Va innanzitutto osservato che la ricorrente fa precedere l’illustrazione dei motivi (cfr. p. 3 del ricorso) da una precisazione che non trova riscontro nel ricorso, vale a dire che “il provvedimento impugnato risulta viziato dagli errores in procedendo di seguito denunciati, che, dunque consentono al Supremo Collegio l’esame diretto degli atti di causa”. Quanto affermato è smentito in maniera evidente, perché tutti i motivi che seguono denunciano la violazione e falsa applicazione di norme di legge e sono esplicitamente ricondotti alla violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Contrariamente a quanto preteso dalla controricorrente, cfr. p. 10 del controricorso, p. 3), ciò non rende il ricorso inammissibile, in considerazione del fatto che se neppure l’erronea indicazione della norma violata implica ex se l’inammissibilità del ricorso, ove la Corte possa agevolmente procedere alla corretta qualificazione giuridica del vizio denunciato sulla base delle argomentazioni giuridiche ed in fatto svolte dal ricorrente a fondamento della censura, in quanto la configurazione formale della rubrica del motivo non ha contenuto vincolante, ma è solo l’esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura Cass. 3/08/2012, n. 14026), a maggior ragione non potrebbe giustificarsi tale conclusione nell’ipotesi in esame, ove ad essere errata è una premessa erronea sulla qualificazione degli errori denunciati. L’unica conseguenza che ne deriva è che questa Corte non è giudice del fatto, con i corollari che ne conseguono.

5. Quanto ai singoli motivi, va chiarito innanzitutto che l’associazione ricorrente erra nell’imputare al giudice a quo la violazione della disciplina relativa al risarcimento del danno derivante da inadempimento di un’obbligazione.

L’art. 1218 c.c., solleva il creditore dell’obbligazione che si afferma non adempiuta (o non esattamente adempiuta) dall’onere di provare la colpa del debitore, ma non da quello di provare il nesso di causa tra la condotta del debitore e il danno di cui domanda il risarcimento nei termini tuttavia di seguito precisati. In particolare, si deve tener presente che questa Corte ha precisato che, sebbene nesso di causa ed imputazione della responsabilità non siano teoricamente coincidenti, perché un conto è collegare la condotta all’evento di danno (causalità materiale) e l’evento di danno alle conseguenze pregiudizievoli (causalità giuridica), altro conto è il criterio di valore che collega un effetto giuridico ad una determinata condotta, rappresentato, nel campo della responsabilità per inadempimento di un’obbligazione, dall’inadempimento: nel caso di responsabilità di cui all’art. 1218 c.c., l’inadempimento si sostanzia nel mancato soddisfacimento dell’interesse dedotto in obbligazione, sicché il giudizio di causalità materiale non è distinguibile praticamente da quello relativo all’inadempimento. Il che comporta a carico del creditore della prestazione l’onere di provare la causalità giuridica, mentre l’inadempimento che assorbe la causalità materiale deve essere solo allegato (Cass. 11/11/2019, n. 28991).

La Corte d’Appello, avvalendosi del principio della ragione più liquida, ha escluso che l’associazione ricorrente avesse dimostrato la concreta configurabilità tra il danno di cui era chiesto il ristoro e l’inadempimento, facendo corretta applicazione della giurisprudenza di questa Corte. La giustificazione a supporto di tale conclusione è confutata dal ricorso in esame, oltre che con argomentazioni errate in iure circa il contenuto dell’onere probatorio gravante sul creditore asseritamente danneggiato, con difese che in concreto prospettano un’ipotetica erronea valutazione delle risultanze istruttorie da parte della sentenza gravata. Tale censura, nondimeno, non è accoglibile, perché in sede di legittimità non ci si può lamentare dell’esito della valutazione de materiale istruttorio da parte del giudice di merito, trattandosi di una attività interamente rimessa a quest’ultimo, ma solo della eventuale violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c..

Non solo: la ricorrente pretende, senza avere censurato la sentenza per violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, di imputare al giudice a quo l’omesso esame di taluni elementi istruttori che neppure riproduce, al fine di soddisfare le prescrizioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 6.

In definitiva il motivo non merita accoglimento.

2. Neanche il secondo motivo può essere accolto.

La ragione assorbente è che l’associazione è priva della legittimazione ad agire per chiedere il risarcimento del danno non patrimoniale subito dal suo rappresentante legale. Trattandosi di questione che attiene al diritto di azione essa può essere rilevata anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento (Cass. 16/02/2016, n. 2915).

Ad abundantiam, si osserva che la ricorrente è incorsa in plurimi errori:

– aver messo in discussione l’esito della valutazione delle prove da parte del giudice a quo – cfr. p. 9 del ricorso, ove afferma che è del tutto erronea l’affermazione del giudice secondo il quale non si configurerebbe un nesso di causa tra l’inadempimento della Vodafone e il pregiudizio esistenziale, p. 10, ove sostituendosi al giudice ritiene provato che il peggioramento repentino dello stato di salute del rappresentante legale fosse conseguenza degli episodi spiacevoli avvenuti negli anni 2013 e 2014 -;

– aver preteso il risarcimento del danno esistenziale anche a prescindere dalla qualificazione del danno, atteso che le Sezioni Unite di questa Corte già nel 2008, con la tornata di sentenze dell’11 novembre hanno negato la ricorrenza di una categoria del danno esistenziale nei termini descritti dalla ricorrente, la quale, non a caso cita giurisprudenza anteriore alle suddette pronunce – indicandolo come danno in re ipsa, poi cadendo in contraddizione, designandolo come danno che, una volta provato nell’an, può essere liquidato equitativamente se risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile provarne il preciso ammontare ed ancora indicandolo come danno la cui ricorrenza può essere provata presuntivamente. Il che dimostra che la ricorrente equipara erroneamente la nozione di danno in re ipsa a quella di danno che può essere provato anche per presunzioni ed equivoca i casi in cui al giudice è consentito ricorrere alla valutazione equitativa del danno.

3. L’ultimo motivo è inammissibile, poiché la valutazione sulla concessione o meno della compensazione delle spese sul presupposto, eventualmente, della esistenza di una soccombenza reciproca rientra nel potere discrezionale del giudice di merito ed esula dalla valutazione di questa Corte. Infatti, il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa; pertanto, esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altri giusti motivi.

4. La Corte rigetta il ricorso.

5. Le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza, dandosi atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese in favore della parte controricorrente, liquidandole in Euro 3.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello da corrispondere per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2021

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