Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 4018 del 19/02/2010

Cassazione civile sez. trib., 19/02/2010, (ud. 16/12/2009, dep. 19/02/2010), n.4018

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PLENTEDA Donato – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. MARIGLIANO Eugenia – rel. Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. MARINUCCI Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE in persona del Ministro pro

tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12 presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope

legis;

– ricorrenti –

contro

GEPAR S.R.L. IN LIQUIDAZIONE VOLONTARIA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 59/2 005 della COMMISSIONE TRIBUTARIA

REGIONALE di PERUGIA, depositata il 11/08/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/12/2009 dal Consigliere Dott. EUGENIA MARIGLIANO;

udito per il ricorrente l’Avvocato URBANI NERI FABRIZIO, che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

 

Fatto

Durante la verifica della Guardia di finanza di Perugia per gli anni dal 1994 al 2000 presso la società GEPAR s.r.l., esercente l’attività di albergo-motel-ristorante, veniva rinvenuta una contabilità parallela; veniva, inoltre, eseguito il controllo sui conti correnti bancari dei rappresentanti legali e dei loro familiari da cui erano transitate notevoli somme non giustificate dai redditi dichiarati. Sulla base di tali risultati e di altri elementi si perveniva ad una ricostruzione induttiva dei ricavi.

Pervenuto quel p.v.c., l’Agenzia delle entrate, Ufficio di Terni, emetteva per l’anno d’imposta 1997 avviso di rettifica della dichiarazione I.V.A..

La società proponeva distinti ricorsi innanzi alla C.T.P. di Perugia. Resisteva l’Ufficio.

La C.T.P. accoglieva il ricorso, considerando insufficienti gli elementi che supportavano la ricostruzione dei ricavi e sostenendo che le indagini bancarie non costituivano prova certa della connessione dei titolari dei conti correnti con la società.

Impugnava l’Ufficio, deducendo che la Guardia di finanza con le indagini avevano accertato che i 63 conticorrenti bancari erano serviti a far transitare i fondi della società GEPAR, tenuto anche conto che tali conti facevano riferimento alla compagine familiare, costituita da quattro figli dei coniugi separati F.L. e F.I., rispettivamente rappresentanti legali della società, l’una, dal 1997 e, l’altro, da 1992 al 1994 e di altre società collegate alla GEPAR. La C.T.R. dell’Umbria respingeva il gravame, confermando la sentenza di primo grado, ritenendo non corretta la ricostruzione dei ricavi basata sulle fatture del lavaggio degli asciugamani da bidet ed insufficienti i rilievi bancari in mancanza di prove certe circa l’origine delle somme transitate sui conti e della riconducibilità delle stesse all’attività della società sottoposta ad accertamento.

Avverso detta decisione il Ministero dell’economia e delle finanze e l’Agenzia delle entrate propongono ricorso per cassazione sulla base di un unico motivo. Non risulta costituita la società.

Diritto

Parte ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51 e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 e art. 2697 c.c. e ss. nonchè omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione, per avere la C.T.R. ritenuto insufficienti, in assenza di altri elementi, le affermazioni contenute negli atti impugnati riguardo al fatto che i rilievi annotati sui conti personali dei rappresentanti legali della società e dei loro familiari potessero dimostrare che le somme transitate sui loro conticorrenti fossero riconducibili alla società in mancanza di altre prove, mentre era da considerarsi legittima l’estensione delle indagini bancarie anche a soggetti terzi rispetto alla persona giuridica quando la compagine e l’amministrazione sociale fanno riferimento ad un nucleo familiare, i cui componenti sono legati, oltre che da rapporti familiari, anche da rapporti economici posti in essere attraverso altre società che svolgevano attività esclusivamente con la GEPAR. Si deduce inoltre l’insufficienza della motivazione in ordine alla non idoneità a provare la fondatezza dell’accertamento analitico induttivo e quindi della pretesa fiscale sulla base delle fatture dei lavaggio degli asciugamani, in assenza peraltro di qualunque prova offerta dalla società diretta a dimostrare un minore reddito.

Occorre, preliminarmente, dichiarare l’inammissibilità del ricorso proposto dal Ministero dell’economia e delle finanze in quanto lo stesso nel presente procedimento è privo di legittimazione processuale, non essendo stato parte in grado di appello, dal quale deve intendersi tacitamente estromesso (cass. civ. sentt. nn. 9004 del 2007, 22889 del 2006), come è dato rilevare anche dall’epigrafe della sentenza impugnata, ove il gravame risulta proposto dall’Agenzia delle entrate, Ufficio di Perugia, in data 16.9.2004.

A seguito della riforma dell’Amministrazione finanziaria ai sensi del D.Lgs. n. 300 del 1999, sono state istituite le Agenzie fiscali e, pertanto, a partire dal 1 gennaio 2001 (data d’inizio dell’operatività di detti enti), la legittimazione processuale attiva e passiva nel contenzioso tributario compete a dette istituzioni, dotate di personalità giuridica, e non più al Ministero od agli uffici periferici dello stesso non più esistenti a seguito dell’intervenuta riforma.

Si compensano le relative spese, dato che la costituzione del Ministero non ha aggravato la difesa erariale e che la giurisprudenza citata si è formata in epoca successiva all’introduzione del presente ricorso.

Il ricorso è fondato.

Parte ricorrente legittimamente si duole del fatto che la C.T.R. abbia ritenuto non corretta e coerente la ricostruzione eseguita dagli accertatori sulla base delle fatture di lavaggio degli asciugamani da bidet e sui conti correnti bancari in assenza del riscontro di altri elementi, senza peraltro esplicitare le ragioni per le quali il solo dato relativo alle fatture di lavaggio della biancheria da bidet fosse insufficiente.

Per confutare la tesi della C.T.R. basta ricordare che questa Corte ha più volte ritenuto che “nella prova per presunzioni, la relazione tra il fatto noto e quello ignoto non deve avere carattere di necessità, essendo sufficiente che l’esistenza del fatto da dimostrare derivi come conseguenza del fatto noto alla stregua di canoni di ragionevole probabilità. Pertanto, in tema di accertamento presuntivo del reddito d’impresa, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), è legittimo l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati, costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ciascun pasto, ogni cliente adoperi un solo tovagliolo e rappresentando, quindi, i numero di questi un fatto noto capace, anche di per se solo, di lasciare ragionevolmente e verosimilmente presumere il numero dei pasti effettivamente consumati (pur dovendosi, del pari, ragionevolmente, sottrarre dal totale i tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi, quali i pasti dei soci e dei dipendenti, l’uso da parte dei camerieri e simili). (cfr., Cass. civ. sentt. nn. 51 del 1999, 6465 e 9884 del 2002) Se tale presunzione è stata più volte ritenuta valida per l’accertamento del reddito di un impresa di ristorazione deve anche convenirsi che l’elemento de quo (asciugamani per bidet) può anch’esso costituire valido elemento per la ricostruzione presuntiva dell’I.V.A. dovuta dalla società intimata, esercente l’attività di albergo-motel, tanto più che questo non è stato l’unico elemento fondante l’attività accertativa, essendo stata la stessa anche coadiuvata dalla verifica dei movimenti bancari.

Occorre, inoltre, rilevare che nella fattispecie, si verte in ipotesi di accertamento induttivo, pienamente legittimo e giustificato, ben potendo l’Amministrazione procedervi utilizzando anche soltanto i dati emergenti dai movimenti dei conti correnti bancari (v., ex multis, cass. civ. sentt. nn. 22853 del 2006, 1739 e 13818 del 2007).

Incombeva, quindi, sulla contribuente e non sull’Ufficio l’onere di dimostrare quali operazioni non fossero espressione di attività imponibile; onere che la società non ha assolto, atteso che non risulta che sia stata data una plausibile giustificazione sulla movimentazione bancaria dei conti correnti della stessa, dei rappresentanti legali e dei familiari conviventi compresi quelli privi di autonomo reddito.

Considerata la disposizione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, si deve ritenere, dunque, che la prova in parola deve essere specifica e riguardare analiticamente i singoli movimenti bancari, dimostrando che ciascuna delle operazioni effettuate fosse estranea a fatti imponibili. Nella sentenza impugnata invece si fa solo generico riferimento a tali operazioni, accollando addirittura all’Ufficio l’onere della prova, evidenziando anche il fatto che non fossero state eseguite ulteriori indagini al fine di riscontrare se i versamenti sui conticorrenti dei soci e loro familiari costituissero o meno proventi della società.

Peraltro, è principio di diritto consolidato della giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui:” In tema di accertamento dell’IVA, l’invito al contribuente, previsto dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2, n. 2, a fornire dati, notizie e chiarimenti in ordine alle operazioni annotate nei conti bancari, costituisce per l’ufficio finanziario una mera facoltà, da esercitarsi in piena discrezionalità, e non un obbligo. Dal mancato esercizio di tale facoltà non deriva quindi alcuna illegittimità della rettifica operata in base ai relativi accertamenti, nè scade a presunzione semplice la presunzione legale posta dalla norma, che consente di riferire i movimenti bancari all’attività svolta dal contribuente, gravando su quest’ultimo l’onere di fornire la prova contraria. Ciò non compromette affatto, tuttavia, il diritto di difesa del contribuente, potendo esso far valere le sue ragioni in sede contenziosa a norma del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 32 depositando documenti e memorie fino alla data di trattazione del ricorso in primo grado” (cfr. ex multis, cass. civ. sentt. nn. 9946 del 2000 e 8422 del 2002); ed ancora :”In tema di accertamento dell’I.V.A., la presunzione, stabilita dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2, n. 2, secondo la quale i singoli dati ed elementi risultanti dai conti bancari sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dal successivo art. 54, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili, ha un contenuto complesso, consentendo di riferire i movimenti bancari all’attività svolta in regime I.V.A., e di qualificare gli accrediti come ricavi e gli addebiti come corrispettivi degli acquisti; essa può essere vinta dal contribuente che offra la prova liberatoria che dei movimenti egli ha tenuto conto nelle dichiarazioni, o che questi non si riferiscono ad operazioni imponibili” (cfr. cass. civ. sentt.

nn. 3929 del 2002, 2435, 8457 del 2001, 9946 del 2000 n. 18421, 26692 e 28324 del 2005).

In applicazione di questi principi il ricorso deve essere accolto, la sentenza impugnata che ha fatto riferimento ad una regola iuris diversa, sostenendo che la presunzione stabilita dall’art. 51 doveva essere supportata da prove il cui onere era a carico dell’Ufficio accertatore, deve essere cassata e la causa va rinviata ad altra sezione della C.T.R. dell’Umbria che provvederà ad un nuovo esame sulla scorta del sopra enunciati principi. La stessa C.T.R. provvederà al governo delle spese anche con riferimento a questa fase di legittimità.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso del Ministero dell’economia e delle finanze, accoglie quello dell’Agenzia delle entrate, cassa la sentenza impugnata e rinvia,anche per le spese, ad altra sezione della C.T.R. dell’Umbria.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione, sezione tributaria, il 16 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2010

 

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